L’aria che si respira al risveglio nella città di Amed (Diyarbakir), al secondo giorno di coprifuoco, è davvero pesante. Negozi e scuole chiuse ricordano l’inizio dello sciopero generale di 48 ore convocato dallo stesso cartello di sigle sindacali promotore della marcia di Ankara colpita dalle due esplosioni. I corpi speciali della polizia circondano le varie zone della città sottoposte a coprifuoco.
All’interno delle aree assediate vengono utilizzate mezzi e armi pesanti. I cecchini sui tetti dei palazzi coprono da una posizione strategicamente favorevole le operazioni condotte al livello delle strade, dove si procede con bombe a mano fatte deflagrare nelle abitazioni per stanare chi vi è asserragliato. E’ guerra, guerra vera. E in giornata si sparge la voce di un intervento diretto dell’esercito nelle operazioni. Gli attivisti della città temono una nuova Cizira Botan (Cizre), la cittadina al confine siriano che ha pagato con oltre 20 civili uccisi un coprifuoco protratto per ben 9 giorni. Le notizie da Sur giungono col contagocce: il centro storico di Amed è sotto attacco e irraggiungibile, le comunicazioni pressocchè impossibili. Si aspetta la revoca del coprifuoco per contare con esattezza i morti: si parla di almeno 9 vittime civili, ma la cifra è purtroppo con ogni probabilità inferiore alla realtà dei fatti. Ieri le operazioni della polizia turca sono iniziate alle 18 e i boati sono cessati solo alle 3 di questa mattina. Si combatte certamente a Hasirli, la zona libera della città difesa da armi e barricate, che tutt’ora resiste ai tentativi di penetrazione. Ma ci sono scontri anche in altre aree della città come Baglar e Huzurevleri. Una ragazzina di appena 9 anni, Helin Sen, è stata trucidata da 3 proiettili alla testa all’inizio di questa drammatica giornata, nella piazza Dag Kapi, poco fuori dalla zona interdetta.
Contemporaneamente ieri sera a Lice, cittadina a 90 chilometri da Amed, l’aviazione turca bombarda il locale cimitero dove sono sepolti i şehit (“martiri”), i guerriglieri del Pkk caduti in combattimento. Il luogo è altamente simbolico, meta di devozione popolare; ma ha anche una funzione materiale come base di appoggio alla resistenza curda. Il bilancio è di 8 morti accertati.
Intanto la società civile di Amed cerca di riorganizzarsi e riconquistare capacità di iniziativa malgrado la dura prova alla quale è sottoposta la città. Alle 14 è convocato un corteo che prova a sfidare il coprifuoco; una folla di migliaia di persone parte dalla zona di Ofis scandendo slogan ritmati da battiti di mani. E’ la città che vive malgrado l’assedio delle forze di sicurezza turche e prova a farsi sentire. “Katil Erdogan” (“Erdogan assassino”) è tra i cori più gettonati, a conferma della netta indicazione della responsabilità politiche della strage di Ankara da parte della piazza.
All’altezza della Porta della montagna, accesso al quartiere di Sur, il corteo si ferma per un minuto di silenzio, in alto le mani, indice e medio alzati in segno di vittoria. Proprio sotto le millenarie mura di basalto erette a difesa di Amed, la folla scandisce il coro “Popolo di Diyarbakir non dormire, difendi la città vecchia”. Qualche minuto dopo sul corteo piovono le granate lacrimogene e l’acqua urticante spruzzata dai Toma, seguite dall’ingresso sulla scena di blindati e celerini in assetto antisommossa. La folla è dispersa, il fuggi-fuggi è confuso, si aprono le saracinesche degli esercizi commerciali che generosamente offrono rifugio ai manifestanti in fuga. Intanto la notizia dell’uccisione della giovanissima Helin Sen fa il giro del mondo. Verso le 20, nel quartiere di Ofis, un cacerolazo denuncia il quotidiano assedio patito dagli abitanti di Amed da parte dell’oppressivo Stato turco: dai caseggiati così come dalle caffetterie del quartiere si battono pentole e pignatte, chi è in strada contribuisce come può a far baccano per far sentire che la città, malgrado il coprifuoco, non dorme e ha gli occhi bene aperti su quello che accade nelle sue strade.
Un elemento importante per comprendere meglio la situazione è il comunicato inviato dall’esercito al parlamento turco, pochi giorni prima la strage di Ankara: lo stato maggiore informava deputati ed esecutivo di non essere in grado, in questa fase, di continuare la guerra contro il Pkk. Questo non certo per spirito umanitario, quanto per segnare una nuova distanza politica tra loro e il governo, nonostante l’equilibrio forzato dell’ultimo decennio, conseguenza della forte epurazione attuata da Erdogan nei confronti degli elementi più kemalisti e laici. In vista di una possibile sconfitta elettorale dell’Akp, ci dicono alcuni compagni curdi, i crimini commessi in questi mesi (in parte eseguiti anche dai militari) su ordine del governo possono venire alla luce e avere conseguenze. Una guerra sporca, prima o poi, viene scoperta.
Aggiornamento del 13 mattina: a notte fonda, viene diffusa la notizia della fine del coprifuoco a Sur. Nella mattina di oggi, comunque, tank e mezzi militari continuano a pattugliare la città.
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La vita di Amed (in turco Diyarbakir) è frenetica: domenica si è svolto il corteo della società civile kurda, convocato in risposta agli attentati e al coprifuoco che insanguina la zona di Sur. I partecipanti sono stati aggrediti una prima volta nei pressi della stazione ferroviaria, la seconda a ridosso del filtro di polizia che chiudeva l’ingresso oltre le mura della città vecchia.
La voce si è sparsa subito e nuovi assembramenti si sono formati all’imbrunire con barricate improvvisate. Un palo della luce di traverso ad una via a scorrimento rapido bloccava il passaggio, mentre l’immondizia prendeva fuoco a grumi nelle vie più piccole. I protagonisti dei cortei erano i più giovani.
Dopo le sei del pomeriggio lo scenario del mattino si è ripetuto: non appena la marcia si è avvicinata alla «Porta delle montagne» (nome popolare della piazza che guarda all’altopiano che abbraccia la città), ma gas lacrimogeni e spari in aria ci hanno costretto alla fuga.
Ad Hasirli, zona libera nel cuore di Sur, oltre il primo filtro di controllo, gli scontri si sono protratti fino alle tre di notte. I tank delle forze speciali di polizia hanno tentato di forzare le pile di sacchi di sabbia, mentre il lancio di alcune bombe a mano ha dato fuoco a diverse abitazioni. Qui la conta dei feriti non ha numeri ufficiali, a causa dell’impossibilità di avere comunicazioni con il centro urbano; sono almeno quattro i morti, tra cui un bambino di nove anni in piazza Dag Kapi, cui vanno aggiunti gli otto militanti uccisi dai bombardamenti dell’aviazione turca nei pressi del cimitero dei martiri di Lice, a 90 chilometri dalla città.
Fuori dalle mura, i mezzi blindati, i «toma», hanno spostato col rostro quel che restava dell’immondizia fumante per le strade, illuminando col cannone spara acqua sparuti gruppi di lanciapietre in fuga.
Ieri una calma apparente regnava in città. Nella zona universitaria, nonostante diverse scuole siano chiuse per il terzo giorno di lutto nazionale e lo sciopero generale abbia bloccato alcune zone del paese, c’è ancora vita. Un via vai continuo di gente nei caffè, sedute all’aperto a bere çai (tè) con un occhio alle immagini che ancora scorrono in tv.
Nel primo pomeriggio di ieri un suono ha riecheggiato in lontananza, era un assembramento che mescolava fischi, battiti di mani e cori in lingua kurda. Dalla zona commerciale di Ofis, dopo aver fiancheggiato per 500 metri le mura, i manifestanti scorrevano ancora una volta in direzione della «Porta delle montagne».
In coda la polizia indossava le maschere anti-gas come fossero berretti, le armi bene in vista impressionavano i nostri sguardi disabituati ad una tanto manifesta minaccia di violenza. Gli obiettivi erano quelli di sempre: sfidare l’accerchiamento di Sur, denunciare la guerra psicologica e militare del coprifuoco, ribadire che, qualunque sia stata la mano che ha premuto il bottone, la responsabilità della strage di Ankara è dell’Akp e del suo leader Recep Taiyyp Erdogan.
«Assassini Akp, sarete giudicati», gridavano gli abitanti di Amed mentre i balconi fiorivano di mani con l’indice e il medio sollevati, a indicare la vittoria. La notizia di acqua ed elettricità nuovamente tolte a singhiozzo, assieme al racconto dei cecchini appostati sui palazzi più alti, si sono sparse nel corteo.
«Non dormite abitanti di Diyarbakir, proteggete la città vecchia»: intonavano i cori alla testa del corteo, allo stesso modo rispondevano dal cuore della marcia. Poco dopo internet e la rete sono saltati, gli idranti hanno sparato sulla folla, anticipando l’arrivo di potenti lacrimogeni, tanto rapidi da non farcene accorgere.
Poi l’aria si è intossicata e la folla è stata dispersa. I locali delle vie circostanti hanno aperto le porte per accogliere donne e uomini dagli sguardi atterriti e al tempo stesso colmi d’orgoglio, poi le serrande si sono richiuse in fretta. La polizia ha fatto irruzione nell’ospedale e il via vai dei mezzi è proseguito per diversi minuti. Nelle parole di questa città in stato di assedio, la continua tensione è figlia della polizia, controllata direttamente dal governo. «Qui si resiste per la libertà e l’uguaglianza di tutti, non solo dei kurdi», urlava la folla.
Da RojavaResiste.noblogs.org
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