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Creatori di mostri/2

[link il capitolo precedente.] da http://www.carmillaonline.com/

Risvegliare mostri comporta, prima o poi, il rischio di non saperli più controllare. A due giorni dall’attentato di Istanbul sembra questa la condizione del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e del suo premier Ahmet Davutoğlu, ora che l’incendio che hanno contribuito ad appiccare dal proprio vicino siriano comincia a divampargli in casa.

Comincia a pagare pegno, Erdogan, per la scelta di utilizzare i gruppi jiadisti in funzione del suo delirio neo ottomano. Credeva che la destabilizzazione della Siria a proprio vantaggio, le prospettive di spartizione dei suoi territori e risorse, valessero il prezzo di qualche collaborazione discutibile, sia che si trattasse di al-Nusra, braccio siriano di al-Qāida, o delle formazione di Abu Bakr al Baghdadi (meglio conosciuta come Isis, ma che qui si preferisce indicare col termine dispregiativo arabo di Daesh).

Credeva valesse la pena l’utilizzo di siffatti alleati nell’ambito della strategia della tensione, quando gli attentati di Soruk e di Ankara fecero strage fra le file dell’opposizione curda e di sinistra. E che valesse la pena mandare avanti loro, quando si trattò di attaccare la regione autonoma del Rojava, un ostacolo alle mire espansioniste di Ankara, oltre che un pericoloso esempio per il Kurdistan turco.

Ma al-Qāida e Daesh sono organizzazioni con obiettivi e strategie proprie che giocano la loro partita su un piano internazionale più vasto, e difficilmente si fanno ridurre a mera manovalanza. Se credono, mordono la mano anche di chi li ha nutriti.

Comunque, per quelli che oggi vaneggiano di grandi coalizioni contro il terrorismo al fianco del nostro alleato anatolico, è utile ripercorrere brevemente gli eventi che hanno preceduto la battaglia di Kobane, per capire chi ha risvegliato il mostro, chi lo ha nutrito.

Settembre 2014. I carri di Erdogan si schierano sulla collina di Zarova.

Cronache dal Rojava

Si è detto che i carri armati di Erdogan schierati sulle colline di Kobane, immobili di fronte all’offensiva del Daesh sulla città e apparentemente indecisi su chi sparare, rappresentino l’immagine più eloquente dell’ambiguità della Turchia. È  falso.

La Turchia non è mai stata ambigua. Ha sempre sparato senza incertezze sui curdi siriani, senza peraltro mai smettere di sparare sui propri.

L’attacco di Erdogan al Rojava per interposti jiadisti prese il via nell’agosto 2013 dalla zona di Efrin, la parte più occidentale della regione autonoma. Lì le forze speciali turche vennero viste in azione a fianco dei miliziani di al-Nusra, il braccio siriano di al-Qāida. Entrarono, con i volti coperti da passamontagna, nel villaggio di Karagöz, da dove portarono via tre anziani.

 Frontiera

La sortita precedette un’aggressione su larga scala contro Efrin e i villaggi limitrofi, condotta dal Daesh assieme ad altri 16 gruppi jiadisti. All’epoca il quotidiano Özgür Gündem1, accusò Ankara e Riyad di aver pianificato l’offensiva, mediando fra le varie formazioni affinché mettessero in secondo piano i loro dissidi in nome del comune interesse al saccheggio. Arabia Saudita e Turchia avrebbero garantito i finanziamenti e le forniture militari necessarie.

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L’esercito turco schierato oltre il confine di Susik.

Nel settembre 2013, nell’assalto contro il villaggio di confine di Susik, al-Nusra potè contare sul supporto dei cecchini dell’esercito di Erdogan che, appostati al di là della frontiera, spararono sulle Unità di Difesa Popolare (YPG/YPJ)2. Sei ambulanze turche fecero la spola per raccogliere i miliziani jiadisti feriti e riportarli in Turchia.

Sempre in settembre, il quartier generale di al-Nusra si insediò presso il Direttorato Generale delle Imprese Agricole di Ceylanpınar, una cittadina di frontiera nella provincia turca di Şanlıurfa. Locali e terreni pubblici appartenenti al Ministero dell’Agricoltura servirono per la costruzione di un ospedale da campo destinato agli jiadisti feriti nel Rojava, e di un centro di smistamento per le forniture belliche e alimentari ai combattenti.

Per facilitarne il transito oltrefrontiera, le autorità turche fecero rimuovere 30 km di recinzioni sulla vicina linea di confine. Nello stesso periodo si intensificarono i passaggi di uomini ed armi.

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Menderes Atilla in posa con miliziano di al-Nusra.

Non che le operazioni fossero svolte in segreto o con particolare discrezione. In vista delle elezioni comunali di Ceylanpınar, Menderes Atilla, candidato sindaco dell’AKP (il partito del presidente Erdogan), amava mettersi in posa pubblicamente con i miliziani qāidisti a beneficio della stampa locale. Menderes Atilla ‘vinse’, dopo una campagna elettorale caratterizzata dalle intimidazioni dell’esercito contro i partiti dell’opposizione, e grazie a pesanti brogli in fase di voto, compresa la distruzione delle schede non gradite.

L’esito elettorale venne accolto da tre giorni di scontri da parte della popolazione, per nulla d’accordo con la trasformazione del distretto in una base di attacco contro il Rojava. Destava particolare preoccupazione la sicurezza della vicina Serêkaniyê, città simbolo della fratellanza interreligiosa e interetnica, confinante con Ceylanpınar sul versante siriano. Le proteste sul lato turco del confine vennero fermate con l’indizione dello stato di emergenza, mentre a Serêkaniyê il 24 aprile del 2014 due attentati suicidi (con 11 morti) inaugurarono una nuova stagione di provocazioni.

Nel frattempo, l’otto marzo erano iniziate le operazioni di accerchiamento di Kobane. Secondo il quotidiano Ozgur Gundem l’offensiva venne definita nei dettagli durante un incontro a Gaziantep, in Turchia, dai rappresentanti delle maggiori formazioni jiadiste. Subito dopo il Daesh cominciò a radunare le proprie forze a sud e ad ovest di quella che diventerà la città simbolo della resistenza curda. Concentrarono l’attacco seguendo la linea dell’Eufrate per dividere Kobane dal cantone di Efrin. Poi, coordinandosi con l’esercito di Ankara, si ritirarono presso la tomba di Suleyman Shah (il nonno del fondatore dell’impero ottomano), un lembo di territorio dello Stato turco  collocato in piena Siria, vicino al villaggio di Sarrin, giusto sotto Kobane.

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Massacro in un villaggio vicino a Serekaniye.

In maggio gli attacchi al Rojava ripresero con imassacri da parte del Daeh nei villaggi vicini a Serêkaniyê. Anziani, donne e bambini non vennero risparmiati. Anche in questo caso, i media curdi denunciarono il sostegno della Turchia alle bande degli assalitori, indicando come i miliziani ricevessero approvvigionamenti attraverso la linea del confine, dalle città turche di Karkamış e Akçakale alla volta delle siriane Jarabulus e Tell Abiad, controllate dal sedicente stato islamico.

Poco più di un mese dopo, il Daesh sferrò l’attacco ai villaggi che circondano Kobane su tre lati, e come da copione, i suoi miliziani si spostarono liberamente attraverso la frontiera turca e ricevettero soccorso medico.

In quei giorni, la connivenza dell’esercito di Erdogan con le milizie di al Baghdadi venne dimostrata ancora una volta dalla distruzione del campeggio di Ziyaret.  Ziyaret è un villaggio turco vicino al campo profughi di Karkamış. L’opposizione di sinistra (HDP-DBP) vi aveva organizzato un campeggio per protestare contro la trasformazione del campo profughi in un centro di addestramento militare ad uso e consumo del Daesh. L’esercito fece irruzione nel campeggio bruciando le tende, distruggendo i veicoli dei dimostranti, sparando grandi quantità di lacrimogeni e pallottole di gomma. Venne così raso al suolo uno scomodo punto di osservazione, collocato su un’altura dalla quale si potevano osservare facilmente le attività di addestramento ed il passaggio dei miliziani oltrefrontiera.

Un altro campo di addestramento del Daesh a Gaziantep venne segnalato, nello stesso periodo, da unservizio della televisione pubblica tedesca (ARD), sulle tracce di 400 giovani partiti dalla Germania per la jiad, e in seguito un prigioniero delle YPG confermò l’esistenza di un altro campo nella provincia turca di Adana:

A fine luglio, lungo la frontiera di Kilis (vicina al cantone di Efrin), gli abitanti assistettero ad un un massiccio dispiegamento dell’esercito turco, con carriarmati, blindati e batterie dell’antiaerea, accompagnato da un attraversamento di massa di miliziani oltreconfine.  I testimoni videro l’esercito scortare le forniture militari destinate agli jiadisti, e riempire tratti dei profondi fossati posti a separazione dal territorio siriano per agevolarne il transito.

Quanto fosse facile il passaggio attraverso la Turchia emergeva anche dai racconti dei prigionieri delle YPG. Questa è la testimonianza di Muhammed Beshir, un algerino arruolato in un gruppo satellite di al-Nusra, arrivato in Siria attraverso il confine turco presso Reyhanlı: “… ci trovammo davanti ad una barriera di filo spinato. Eravamo davanti ai soldati. … noi andavamo avanti, alzavamo il filo spinato e passavamo sotto. Mentre passavamo quei soldati stavano chiacchierando e ridendo. Era chiaro, dai loro discorsi, che non erano soldati ordinari, ma  graduati.”

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Carri armati turchi sulla frontiera.

Attraversare il confine era un privilegio accordato però solo agli jiadisti. Lo impararono a loro spese 10 abitanti del Rojava, che vennero pestati a sangue dai militari turchi mentre cercavano di sconfinare dal cantone di Cizre. I soldati li colpirono con i calci dei fucili fino a rompergli gli arti, la testa, il naso, e gli rubarono tutto.
Gli andò relativamente bene. Si contano a decine, ogni anno, gli abitanti del Rojava ammazzati o feriti sulla linea di frontiera dai soldati turchi. Fra questi Muhammed Ali (14 anni, ucciso), Huseyin Batar, (17 anni, ferito), Ehmed Mihemed (18 anni, ucciso), e un abitante di Efrin (gambizzato), solo per limitarsi all’estate 2014.

Un’accoglienza non meno ‘festosa’ venne riservata in agosto a migliaia di Yazidi iracheni, la cui fuga dal massacro di Sinjar venne interrotta dai soldati di Erdogan con granate stordenti, lacrimogeni e pallottole di gomma alla frontiera turca.  I profughi rimasero a lungo sul confine, assistiti dalle YPG/YPJ che li avevano portati in salvo, aprendogli un corridoio di sicurezza attraverso le montagne.

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Miliziani davanti ad una postazione di controllo turca.

A metà settembre, il Daesh sospese gli attacchicontro Assad e contro gli altri gruppi ribelli concorrenti per concentrare uomini e mezzi contro Kobane. I miliziani occuparono inizialmente una sessantina di villaggi intorno alla città capoluogo. Fra questi, attaccarono il paesino di Sêlim. Secondo  un residente “se la Turchia non avesse permesso all’Isis di passare nel nostro villaggio, gli sarebbe stato impossibile raggiungerlo”. Gli assalitori provenivano infatti dal villaggio turco di Göktepe. Dopo l’attacco, gli abitanti di Sêlim evacuarono il paese e cercarono di scappare verso la Turchia, ma vennero fermati dall’esercito di Erdogan.

A fine mese, mentre su Kobane in stato d’assedio cominciavano a piovere i razzi del Daesh, Ankara dispose decine di carri armati e 10.000 uomini sulla collina alle porte della città, appena oltreconfine. Pregustava la sconfitta delle YPG/YPJ curde, che gli avrebbe fornito il pretesto ‘umanitario’ per avanzare a ‘ristabilire l’ordine’, ponendo così una bella fetta di territorio siriano sotto il proprio controllo diretto. A valle il Daesh gli stava facendo il lavoro sporco.

A dire il vero non tutti i carri armati turchi si fermarono alla frontiera. Alcuni l’attraversarono, ma non sui propri cingoli. Vennero filmati il 25 settembre mentre passavano, a bordo di pesanti Tir, il confine fra Karkamis e Jarabulus, controllato dal Daesh. Facevano parte di un lungo convoglio di mezzi militari, destinati non si capisce bene a chi, in viaggio dalla Turchia ai territori su cui sventola la bandiera nera.

Non si capisce bene, inoltre, come facessero i miliziani del Daesh a disporre di armi leggere di fabbricazione turca, in dotazione all’esercito di Ankara. Non le avevano certo conquistate in battaglia, visto che non risultavano esserci stati scontri con i soldati turchi.

Anzi, a giudicare dal video girato  il 22 ottobre 2014 sulla collina di Zarova, a pochi chilometri dall’assedio di Kobane, il confronto fra gli assedianti e i militari di Erdogan non sembrava particolarmente cruento:

Un reportage del quotidiano Özgür Gündem documentava inoltre come i buoni rapporti andassero al di la dei convenevoli, pubblicando le immagini di veicoli militari turchi presso una postazione del Daesh usata per colpire Kobane con colpi di mortaio e di mitragliatrice pesante.

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Cariche della polizia turca a Nusaybin.

Mentre il Daesh attaccava Kobane, il governo turco si concentrava sulla repressione interna. Un campeggio a sostegno del Rojava a Suruçvenne attaccato con gli idranti e i lacrimogeni. Eguale trattamento venne riservato alla piccola folla in lutto che attendeva, nel villaggio di frontiera di Nusaybin, la restituzione dei corpi di Ömer e Mehmet Karana, due fratelli caduti fra le fila delle YPG. Amici e familiari vennero caricati con gli idranti dalla polizia di Erdogan.

L’assedio di Kobane coincise anche con l’aumento della violenza contro i profughi in fuga dalla città da parte delle pattuglie dell’esercito turco. I residenti del villaggio di Boydê assistettero sovente ai pestaggi dei civili che cercavano di attraversare il confine. Ricordavano in particolare le torture inflitte ad un ragazzino: “il rumore dei colpi di bastone si sentiva da oltre il confine. Venne appeso per i piedi e lo costrinsero a contarli”. Agli adulti non andava molto meglio: pestati per ore con bastoni e calci dei fucili, avvolti o strangolati col filo spinato, legati agli automezzi e trascinati sul campo minato. Da Boydê era possibile osservare anche il passaggio dei minibus con i vetri oscurati, pieni di miliziani, che si fermavano a ricevere forniture militari dai soldati turchi prima di passare oltrefrontiera.

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Aspri combattimenti fra miliziani del Daesh e soldati turchi.

Il coordinamento fra le truppe turche e quelle del Daesh si fece ancora più esplicito durante l’attacco al valico di confine di Mürşitpınar, vicinissimo a Kobane. Il 30 novembre un camion bomba proveniente dalla Turchia saltò in aria al suo ingresso in territorio siriano. Dopo l’esplosione una cinquantina di miliziani cominciarono a sparare dal lato turco del confine, presidiato dai mezzi blindati dell’esercito di Erdogan. I cecchini si arrampicarono sui silos del TMO, un organizzazione sussidiaria del Ministero dell’Agricoltura turco, per poter prendere la mira dall’alto.

Ma il tentativo di sfondamento venne ricacciato indietro, ed anche quelli successivi. Kobane ha vinto, e quanto ad Erdogan, quei carri armati fermi sulla collina sono diventati l’immagine del suo fallimento.

Epilogo

Un anno fa due milioni di persone sfilavano a Parigi in una grande marcia repubblicana contro il terrorismo. Davanti a loro capi di stato, ministri, ambasciatori presero la testa del corteo. Fra questi Ahmet Davutoğlu.

Il fatto che la Turchia avesse accordato ad al-Qāida e Daesh (proprio i riferimenti ideologici e organizzativi degli attentatori di Parigi) libertà di organizzazione, propaganda, reclutamento e transito, oltre all’impunità, addestramento militare, forniture belliche, assistenza medica, supporto logistico, partnership commerciale, non destava alcun turbamento. Davutoğlu marciò senza alcun problema né vergogna. Forse perché era in buona compagnia, accanto a ben altri creatori di mostri ?

Gli stessi che ci chiedono, oggi come allora, di metterci l’elmetto ed arruolarci in una grande coalizione, contro quei mostri che loro stessi costantemente rianimano. Ricordiamocene, quando pretenderanno il nostro assenso: oggi come allora, il nemico marcia sempre alla tua testa.

Post scriptum: Per contribuire alla ricostruzione di Kobane guarda i progetti qui.


  1. Özgür Gündem, dalla sua fondazione nel 1992, ha subito numerosi attentati, censure, processi. Dal 1994 al 2011 ne è stata impedita la pubblicazione. I suoi editori e redattori hanno dovuto affrontare arresti e lunghe detenzioni. Alcuni fra i suoi giornalisti sono stati ammazzati.
  2. YPG sta per Yekîneyên Parastina Gel, Unità di Difesa Popolare. YPJ sta per Yekîneyên Parastina Jin, Unità di Difesa delle Donne. Sono le forze di difesa del Rojava.

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