Nel numero di agosto di “Le Monde Diplomatique” è apparso un articolo (tradotto da Marinella Correggia nella versione italiana della rivista) che riteniamo utile porre all’attenzione di tutti coloro che hanno preso coscienza di come l’opposizione alle politiche neoliberali dell’Unione Europea sia oggi la condizione minima per tornare a difendere i diritti del lavoratori, subordinati e autonomi, precari e (ormai solo formalmente) stabili, italiani e migranti, oltre che per ostacolare la sistematica riduzione della democrazia a puro consenso per questa o quella variante, di “destra” o di “sinistra”, dell’austerità, della competitività estesa a tutti gli ambiti della vita sociale, di logiche privatistiche che svuotano dall’interno ogni istanza pubblica e comune. Come Ross@, insieme ad altre forze, oggi in gran parte raccolte nella campagna “Eurostop”, da tempo sosteniamo l’irriformabilità della UE e, dunque, la necessità di una rottura con la sua struttura istituzionale e con la moneta unica che di essa è principale strumento politico, una rottura che sappiamo implicare una presa di distanza da molti tabù che, soprattutto a sinistra, hanno caratterizzato i pur nobili tentativi di resistenza politica e di mobilitazione sociale degli ultimi decenni. In estrema sintesi si tratta, a nostro parere, di riconoscere e di affermare che l’Unione Europea, lungi dall’essere un campo, neutro per quanto accidentato, per politiche emancipatorie, è uno (insieme alla fedeltà atlantica, del resto fortemente innestata nella genesi e nella struttura di questa “Europa”[1]) dei loro nemici principali. Nel documento Sull’Europa e sull’euro[2] Ross@ ha insistito sull’importanza di comprendere la matrice ordoliberale (oltre che funzionalista, mirante, cioè, ad una frantumazione della sovranità, portata a coincidere con modalità di gestione apparentemente esclusivamente tecniche, secondo le indicazioni di David Mitrany) dell’Unione Europea, sia per quanto riguarda la sua genesi storica che per i principi cardine su cui sono modellati i suoi Trattati costitutivi, trattati giuridici di natura ibrida, a cui viene però attribuito un primato sul diritto interno degli Stati.
Il lettore troverà nell’articolo pubblicato da “Le Monde Diplomatique” un’efficace e sintetica ricostruzione degli assi portanti della riflessione svolta dalla scuola di Friburgo, di come essa sia divenuta egemone in Germania (fino al punto di costituire il terreno comune per ipotesi politiche inizialmente molto diverse), di come, infine, essa abbia pervaso la costruzione europea, dalla formula suggestiva dell’“economia sociale di mercato” (in effetti un’affermazione della necessità di assumere il mercato come dimensione originaria e come cardine del sociale) fino a quella, in qualche modo disvelatrice, del “pilota automatico” di Draghi. Non ci attardiamo, dunque, su questi aspetti[3]. Vorremmo però sottolineare come da essi discendano conseguenze, allo stesso tempo analitiche e politiche, di primaria importanza. Tenendo conto che, quando si parla di neoliberalismo, occorrerebbe portare attenzione alle differenze interne che ne hanno caratterizzato la storia e la produzione teorica[4], dobbiamo sapere che, in ogni caso, non abbiamo a che fare con un mero ritorno ad un selvaggio laissez faire, al puro privilegio dell’economico sul politico. Se, infatti, esistono certamente effetti di deregolamentazione, privatizzazione e pervasività del potere finanziario, essi sono ottenuti attraverso interventi costanti e capillari di carattere politico che, attraverso la definizione di un quadro di vincoli, di compatibilità, di valutazioni comparative, ridefinisce i margini d’azione degli Stati, i cui ordinamenti non sono semplicemente sottomessi, ma attraversati e rimodellati dalla governance europea (si pensi all’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, attraverso la modifica dell’articolo 81). In questo senso, per correggere un poco il titolo dell’articolo che riportiamo, l’ordoliberalismo non è solo una “gabbia” per l’Europa o, meglio, possiamo definirlo tale solo a partire dalla consapevolezza che esso è soprattutto parte integrante dello “scheletro” dell’Unione Europea. Certo, ciò non basta per definire l’assetto attuale della UE, ma fare chiarezza su questo punto di partenza può permetterci di affrontare in modo maggiormente dialettico alcuni dei leitmotiv dei discorsi critici, oggi fortunatamente in via di diffusione, sull’Europa e l’euro.
Facciamo qualche esempio. L’innegabile egemonia della politica mercantilista della Germania appare come una delle tendenze vittoriose all’interno del processo di costituzione del particolare embedded neoliberalism della UE[5] e che oggi, al netto di possibili elementi di crisi derivanti dall’instabilità del quadro politico generale[6], trova nella struttura della governance europea una fondamentale condizione di riproduzione. Si tratta, però, di una condizione che incarna allo stesso tempo un processo più generale di riorganizzazione delle classi dominanti transnazionali e di produzione normativa e, in ultima analisi, politica compiutamente postdemocratica. In secondo luogo, l’ordoliberalismo tedesco si è certamente incontrato con influssi della scuola austriaca (in particolare con l’idea di von Hayek che una dimensione sovranazionale potesse essere più funzionale a distaccare la politica economica dalle pressioni delle organizzazioni dei lavoratori e, più in generale, dai meccanismi della rappresentanza) e con il neoliberalismo di matrice statunitense (si pensi al tema del “capitale umano”), ma questo non implica una semplice riduzione allo “stato minimo”, quanto una ridefinizione complessiva del concetto di statualità (Hayek, ad esempio, pensava a banche private e non ad una banca centrale come la BCE e, del resto, quale “Stato minimo” imporrebbe misure di prelievo forzoso come quelle sperimentate a Cipro nel 2013 o come il bail-in previsto dal sistema di risoluzione delle crisi bancarie, nuova tappa ritenuta fondamentale nel processo di unificazione economica?)[7]. Infine, contro chiunque si attardi a considerare i problemi dell’Unione come derivati da un mero deficit di “politica” rispetto alle forze dell’economia, così come contro quanti ipotizzano scappatoie “tecniche” dalla moneta unica che non mettano in discussione congiuntamente la struttura istituzionale della UE, il passaggio attraverso la sua origine ordoliberale ci aiuta a comprendere come, al di là delle sue evidenti disfunzionalità, essa risponda pienamente ad un progetto eminentemente politico, una politica certamente posta sempre più a riparo dai “pericoli” connessi all’esercizio della sovranità popolare[8] e, dunque, da ogni pretesa di “democrazia economica”, una politica incarnata in una governance multilivello che tiene insieme dimensione locale, nazionale e sovranazionale
A questo proposito la relazione Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa, firmata da Jean-Claude Juncker, Donald Tusk, Jeroen Dijssebloem, Mario Draghi e Martin Schulz, appare particolarmente significativa. Essa, tracciando le linee guida di strategia di “convergenza” europea fino al 2025, mostra come unione economica, finanziaria e di bilancio, siano definite come fasi interne di un’”unione politica che ponga le basi di tutto ciò che precede” e come lo stesso euro sia stato fin dall’inizio pensato come un progetto al tempo stesso “politico ed economico”[9]. Nonostante tutte le precisazioni storiche e teoriche che andrebbero fatte un simile progetto continua a strutturarsi attraverso il rapporto, tipicamente ordoliberale, tra rigidità del quadro (il principio di stabilità dei prezzi come “obiettivo principale” dell’intero sistema economico-bancario) e plasticità nelle modalità di intervento (centrale nel documento è il concetto di “resilienza”, ma si pensi anche al ruolo di legittimazione ex-post di disposizioni non convenzionali – come, ad esempio, MES e Fiscal Compact – ampiamente assunto in passato dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’UE). In un tale quadro gli ordinamenti dei singoli stati non sono semplicemente negati, ma posti in una condizione di continua pressione, messa in concorrenza e trasformazione interna sulla base di parametri e di meccanismi di vigilanza definiti a livello sovranazionale e diversamente attuati nei restanti livelli. Sempre nel documento dei “cinque Presidenti” vediamo, ad esempio, profilarsi “la creazione da parte di ciascuno membro della zona euro di un organismo nazionale incaricato di monitorare i risultati e le politiche in materia di competitività”, con particolare attenzione “all’allineamento tra retribuzioni e produttività”, e, al contempo, di un’unione di bilancio che programmaticamente escluda “trasferimenti permanenti tra paesi o trasferimenti in un’unica direzione” e non si traduca, quindi, in “strumento di perequazione dei redditi tra gli Stati membri”.
Siamo consapevoli della difficile sfida a cui tutto questo ci pone di fronte. Da tempo, infatti, ogni discorso sulla governance europea è apparso come giustificazione del ripiegamento verso l’impotenza o la subalternità ad essa (troppo “complessa”, troppo “disseminata” o troppo “lontana”) o, al massimo, in direzione di uno strano riformismo estremistico, per cui è sembrato bastasse frequentare le istituzioni europee, pensate come di per sé “progressive” rispetto alla dimensione nazionale, investendole magari di un’immaginaria potenza delle “moltitudini”, per ottenere un’Europa sempre “altra” rispetto a quella esistente. Potremmo dire che è ora che alla consapevolezza della particolare forma di “statualità” (lo ribadiamo: postdemocratica e ultracapitalistica) intrecciata e prodotta dalla governance europea si associno la capacità e la volontà di guardarla sotto l’angolo prospettico della sua possibile rottura, valorizzando tutte le leve efficaci per accelerarla e individuando le alleanze, sociali e politiche oggi disponibili a questo progetto. Il fatto che la governance europea sia al tempo stesso così flessibile e rigida, politicamente univoca e multilivello, lascia, infatti, ancora aperti momenti di frizione, di assestamento tra le diverse dimensioni coinvolte. Si pensi, per fare solo un esempio, all’intreccio conflittuale messo in luce, al di là delle vicende della famiglia Boschi e sulla pelle di correntisti e obbligazionisti, dal recente “salvataggio” di quattro banche da parte del governo Renzi: il divieto di aiuti di Stato, ampiamente utilizzati in passato dalla Germania, le recenti schermaglie tra la vigilanza della Banca d’Italia e il Commissario europeo ai servizi finanziari Jonathan Hill, l’affermarsi di un processo di concentrazione delle funzioni di vigilanza nelle mani della Banca Centrale Europea (lasciando, però, sostanzialmente al di fuori del suo controllo il sistema diffuso delle banche di risparmio tedesche), il sostanziale veto posto dal Ministro delle Finanze Schaeuble sul famoso “terzo pilastro” dell’Unione bancaria, ovvero la mutua garanzia sui depositi tra banche europee e, infine, la proposta avanzata da Lars Feld – non a caso direttore del “Walter Eucken Institut”– al nostro paese, ovvero il ricorso al MES (il quale si regge sul principio della “condizionalità”, ovvero sull’ulteriore imposizione di misure neoliberali di “aggiustamento”)[10].
Si tratta, dunque, di affrontare queste contraddizioni e di agire per aumentarne la consapevolezza tra le persone e le, poche, forze politiche non conniventi, ad esempio rimandando ogni legittima pretesa di difendere la Costituzione e i suoi principi fondanti alla sua sostanziale incompatibilità con la struttura dei Trattati[11]. Come Ross@ crediamo che sia possibile iniziare questo processo riattualizzando, in ogni lotta concreta contro le politiche neoliberali della UE e contro lo svuotamento della democrazia che il loro rispetto comporta, il principio della sovranità popolare, a partire dalla necessità di un suo pronunciamento sugli stessi trattati europei, trattati che, lungi dall’essere esclusivamente “trattati internazionali”, implicano la progressiva sostituzione degli obiettivi di giustizia sociale presenti nelle costituzioni “programmatiche” di alcuni paesi (Portogallo, Grecia e, naturalmente, Italia) con elementi ordoliberali in virtù dei quali è la “giustizia del mercato” ad essere elevata a principio fondamentale e non negoziabile. Si tratta, soprattutto, di non attendere l’“ora x” in cui tutte le contraddizioni dell’assetto europeo deflagrino all’unisono in questo “nuovo vecchio mondo”[12], sapendo che occorrerà, invece, affrontare la dialettica concreta con cui esse si manifesteranno nei diversi contesti, senza illusioni di semplici ritorni al passato (è evidente, infatti, che ogni rottura implicherebbe necessariamente l’invenzione di misure economiche, di forme istituzionali e anche di nuovi rapporti internazionali), ma anche senza lasciarsi incantare dalle sirene di un “progresso” che da troppo tempo è tale solo per il potere dei gruppi dominanti. Nel frattempo non abdichiamo allo studio, all’organizzazione e all’amicizia politica con quanti sono disponibili a fare con noi un pezzo di strada. Buona lettura.
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L’ordoliberalismo tedesco, una gabbia di ferro per il Vecchio Continente
di François Denord, Rachel Knaebel, Pierre Rimbert
«Se mai qualcuno avesse avuto bisogno di un’altra prova del pericolo che i referendum rappresentano per il funzionamento delle democrazie, eccola», sparava il sito del settimanale Der Spiegel il 6 luglio 2015, dopo l’annuncio dei risultati della consultazione referendaria in Grecia. La costernazione provocata in Germania da questo sonoro «no» si spiega con la collisione frontale tra due concezioni dell’economia e più in generale della cosa pubblica.
Il primo approccio, incarnato in questa vicenda dai greci, riflette un modo di governare propriamente politico. Il voto popolare ha la meglio sulla regola contabile e un potere eletto può scegliere di cambiare le regole. Il secondo approccio, al contrario, subordina l’azione governativa alla stretta osservanza di un ordine. I politici possono agire come credono purché non escano dal quadro, che di fatto è sottratto alla decisione democratica. Il ministro tedesco delle finanze Wolfgang Schäuble è la personificazione di questo stato dello spirito. «Per lui le regole hanno un carattere divino», ha osservato il suo ex collega greco Yanis Varoufakis.
Questa ideologia tedesca poco conosciuta ha un nome: ordoliberismo. Come gli adepti anglosassoni del «laissez-faire», gli ordoliberisti rifiutano l’idea che lo Stato influenzi il gioco del mercato. Ma, a differenza di quelli, ritengono che la libera concorrenza non si sviluppi spontaneamente. Lo Stato deve organizzarla, deve costruire il quadro giuridico, tecnico, sociale, morale, culturale del mercato. E far rispettare le regole. È la «ordopolitica» (Ordungspolitik). La storia di questo interventismo liberista inizia nel periodo effervescente fra le due guerre, otto decenni fa. «Sono nato a Friburgo – spiegava Schäuble nel dicembre 2012 – E là c’è una cosa che si chiama scuola di Friburgo. È in rapporto con l’ordoliberismo. E anche con Walter Eucken1».
Fribourg-en-Brisgau, città prospera, non lontano dalla cattedrale di Strasburgo e dalle casseforti svizzere, ai piedi del massiccio della Foresta nera. In questa roccaforte cattolica e conservatrice, la crisi economica iniziata nel 1929 produce i suoi effetti, come altrove: alle elezioni del marzo 1933, il partito nazista è al primo posto con il 36% dei voti. Mentre la repubblica di Weimar agonizza, tre universitari riflettono sul futuro. L’economista Walter Eucken (1891-1950) aspira a rifondare filosoficamente la propria disciplina. I giuristi Franz Böhn (1895-1977) e Hans Gorssmann-Doerth (1894-1944) affrontano la spinosa questione dei monopoli e dei cartelli2. Il loro incontro produce una stana alchimia.
Nella società come nei conventi vige la regola della disciplina
Insieme elaborano un programma di ricerca che si articola intorno al concetto dell’ordine (Ordnung), inteso al tempo stesso come costituzione economica e come regola del gioco. Per neutralizzare i cartelli ed evitare che la guerra economica degeneri occorre, sostengono, uno Stato forte. «Lo Stato deve costruire con conoscenza di causa le strutture, il quadro istituzionale, l’ordine nel quale l’economia deve funzionare – scrive Eucken – Ma non deve dirigere il processo economico in quanto tale3».
A differenza dei liberisti classici, gli ordoliberisti non considerano il mercato o la proprietà privata come prodotti della natura, ma come costruzioni umane, dunque fragili. Lo Stato deve ristabilire la concorrenza nel caso in cui questa non funzioni. Deve anche creare un ambiente favorevole: formazione dei lavoratori, infrastrutture, incentivazione al risparmio, leggi sulla proprietà, contratti, brevetti, ecc. Fra il quadro e il processo si inserisce la moneta. Nel suo testamento intellettuale (I fondamenti dell’economia politica, 1951), Eucken insiste sul «primato della politica monetaria» e sulla necessità di sottrarla alle pressioni politiche e popolari. Una buona «costituzione monetaria» non solo deve evitare l’inflazione, ma «come l’ordine della concorrenza, deve funzionare il più possibile in modo automatico». Altrimenti, «l’ignoranza, la debolezza di fronte ai gruppi d’interesse e all’opinione pubblica»4 farebbero deviare i responsabili monetari dal loro sacro obiettivo: la stabilità.
A Friburgo, il piccolo cerchio degli ordoliberisti si allarga. La loro fama si estende ben presto altrove. I loro lavori ispirano in particolare due economisti, Wilhelm Röpke (1899-1966) e Alexander Rüstow (1885-1963), i quali vi inseriscono riferimenti storici e sociologici, oltre a una forte dose di conservatorismo. Questi oppositori al regime nazista individuano l’epicentro della crisi non nella sfera economica in sé, ma nella disintegrazione dell’ordine sociale provocato dal laissez-faire. La modernità avrebbe generato un proletariato disumanizzato, uno Stato sociale obeso, un fervore collettivista. Di fronte alla «rivolta delle masse», Röpke fa appello a una «rivolta delle élite»5. Per restituire ai lavoratori la dignità perduta, bisognerebbe rintegrarli in diverse comunità pre-democratiche pensate come naturali – la famiglia, il comune, la Chiesa, ecc. – ed eliminare l’egualitarismo.
Sacrificandosi al culto del Moloch liberale, scrive Rüstow, «è stato negato il principio della gradualità in generale sostituendolo con l’ideale, falso ed erroneo, dell’eguaglianza, e con l’ideale, parziale e insufficiente, della fraternità; ma in effetti, nelle piccole famiglie come nelle gradi, più importante del rapporto tra fratelli è il rapporto fra genitori e figli, che assicura la successione delle generazioni e il passaggio della tradizione culturale6». Di cultura cristiana come i loro amici di Friburgo, Röpke e Rüstow attribuiscono al concetto di ordine lo steso senso che gli dava sant’Agostino: una regola per organizzare e ordinare la vita comune.
Lo sviluppo dell’ordoliberismo si inscrive in un ampio movimento internazionale di rinnovamento del pensiero liberale, che si sviluppa negli anni ’30 con il nome «neoliberalismo». In questo movimento, gli «ordo» si oppongono ai nostalgici del laissez-faire – Ludwig von Mises e il suo allievo Friedrich Hayek -, i quali, insiste Rüstow, «non trovano nulla da criticare o da cambiare nel liberalismo tradizionale».
«Così come l’arbitro non partecipa al gioco, lo Stato è fuori dall’arena»
Alla fine degli anni ’30, i sostenitori dell’ordopolitica rimangono marginali. Non hanno collegamenti nella Germania nazista, anche se molti di loro partecipano a circoli di riflessione economica del regime – è il caso in particolare di Ludwig Erhard (1897-1977) e di Alfred Müller-Armack (1901-1978), due membri di organizzazioni padronali che promettono un brillante futuro, e si incontrano per la prima volta nel 1941 «nel quadro di una collaborazione con lo Stato nazista per conto dell’industria leggera7». Appena nato, fa notare l’economista François Bilger, l’ordoliberismo «fu in un certo senso “esiliato” o ridotto a un’esistenza da “catacombe”. Due dei principali liberali tedeschi, Röpke e Rüstow, dovettero scegliere l’esilio all’avvento del regime nazionalsocialista; quanto agli altri, poterono continuare a insegnare e a svolgere altre attività solo rinunciando a esporre interamente il proprio pensiero8».
La caduta del nazismo segna l’ora della rivincita. Nella Germania dell’Ovest, a differenza di quanto avviene in Francia, in Italia o nel Regno unito, la ricostruzione si fa su basi liberiste piuttosto che socialdemocratiche. Gli Stati uniti, la potenza occupante più influente, impediscono le nazionalizzazioni che la maggioranza avrebbe voluto9. Facilitano invece la transizione verso un’economia aperta, ricettacolo ideale per le loro esportazioni, e dimezzano il debito estero del loro nuovo alleato10.
Queste condizioni favoriscono la creazione, a partire dal 1948-1949, di un sistema che opera la fusione dell’ordoliberismo e della dottrina cristiana in una «economia sociale di mercato». Un’espressione felice ma ingannevole: «Il suo carattere sociale – precisa nel 1948 Müller-Armack, inventore della formula – sta nel fatto che è in grado di proporre una massa diversificata di beni di consumo a prezzi che il consumatore può contribuire a determinare mediante la domanda11. Un pacchetto di misure compensa le ineguaglianze prodotte dal modello concorrenziale: mantenimento del sistema di assicurazioni sociali ereditato da Bismarck, imposta sul reddito, alloggi sociali, aiuto alle piccole imprese… Insomma, il «sociale» di cui si parla qui ricorda che un’economia di mercato funziona solo se lo Stato produce la società che le corrisponde. La Germania del dopoguerra è stata un laboratorio neoliberista a cielo aperto.
Il capo sperimentatore è Ludwig Erhard, direttore dell’amministrazione economica della zona occupata dagli Stati uniti e dal Regno unito (Bizona), in seguito ministro dell’economia di Konrad Adenauer dal 1949 al 1963, e infine cancelliere dal 1963 al 1966. Sotto la guida di questo economista convertitosi alle tesi ordoliberiste durante la guerra viene varata la maggior parte delle riforme strutturali associate al «miracolo economico», in particolare la liberalizzazione dei prezzi e la creazione del deutsche Mark, il 20 giugno 1948, due fatti impressi nella memoria collettiva come una rifondazione.
Iniziatore dell’apertura al libero scambio internazionale e delle privatizzazioni, Erhard amava sintetizzare il proprio operato ricorrendo a una metafora: «Così come l’arbitro non partecipa al gioco, lo Stato è fuori dall’arena. In ogni buona partita di calcio, c’è una costante: sono le regole precise che hanno presieduto a questo gioco. La mia politica liberale mira proprio a creare le regole del gioco12». L’introduzione della cogestione nell’industria nel 1951-1952 gli verrà imposta dal cancelliere Adenauer e dai sindacati che vi vedevano una compensazione alla stagnazione salariale.
Conformemente ai precetti di Euclken, Erhard non amava l’idea di intervenire per frenare gli effetti delle turbolenze economiche. «Egli temeva che una politica congiunturale, la quale privilegiasse l’obiettivo della piena occupazione rispetto a ogni altro, andasse a discapito della stabilità monetaria e riducesse la responsabilità individuale», spiegherà uno dei suoi discepoli, il presidente della Bundesbank (la banca centrale tedesca) Hans Tietmeyer13.
L’ordopolitica raggiunge l’apice nel 1957, quando Erhard fa votare due leggi decisive: una sull’indipendenza della Bundesbank, l’altra contro le limitazioni della concorrenza. Stabilità monetaria e concorrenza non falsata: «Nel modello dell’economia sociale di mercato – analizza l’alto funzionario francese Christophe Strassel – queste due politiche si sottraggono al normale dibattito democratico14».
Naturalmente il ministro dell’economia non agisce da solo. Dal 1948, Erhard si circonda di esperti ordoliberisti, nominati nel Consiglio scientifico della Bizona, come Böhm, Eucken e Müller-Armack. Il ministero dell’economia diventa la loro riserva di caccia. L’ordopolitica ha anche una serie di strumenti: una rivista teorica, Ordo, il cui primo numero esce nell’agosto 1948; una lobby incaricata di assicurare la sua promozione, la Comunità di azione per l’economia sociale di mercato, fondata nel 1953, i cui lavori inondano senza posa i mezzi di stampa, in particolare la Frankfurter Allgemeine Zeitung, un movimento di industriali cattolici, Die Waage («la Bilancia»), «comunità per la promozione dell’uguaglianza sociale», che per un decennio finanzia campagne di opinione a ridosso delle elezioni legislative15.
Ma è in Parlamento che l’ordoliberismo riscuote i successi più inattesi. Con il concetto di economia sociale di mercato e lo slogan «la prosperità per tutti», offre alla giovane Unione cristiano-democratica di Germania (Cdu) l’occasione di competere sul terreno dei socialdemocratici. Conquistato, il partito rivendica a partire dal 1949 una società nella quale «l’ordine si realizza grazie alla libertà e al rispetto degli impegni che si esprimono nella “economia sociale” di mercato mediante una concorrenza autentica e il controllo dei monopoli16».
Alcuni intellettuali del Partito socialdemocratico (Spd) soccombono al canto delle sirene. Nel 1955, Harl Schiller pubblica Socialismo e concorrenza; vi si può leggere il celebre motto: «La concorrenza fin dove possibile, la pianificazione fin dove è necessario». Una formula ripresa dallo stesso Spd al momento della grande svolta dottrinale nel novembre 1959 quando, a Bad Godesberg, una maggioranza di delegati riconosce vantaggi incontestabili alla proprietà privata dei mezzi di produzione e all’economia di mercato.
Non sarebbe stata possibile questa svolta se l’ordoliberismo avesse cercato di imporsi alla società tedesca allo stato bruto. Nei fatti, l’economia sociale di mercato mette insieme Eucken e Bismarck, la regola contabile teorizzata a Friburgo e il sistema di protezione sociale introdotto dal cancelliere baffuto alla fine del XIX secolo. La caduta di Erhard, nel 1966, indica un cambiamento in senso «sociale» che l’ascesa al potere di Willy Brandt nel 1969 accentuerà. Alle influenze «ordo» e bismarckiane si aggiunge una prospettiva keynesiana: pianificazione a medio termine, aumento dei salari, consolidamento della cogestione, investimenti nell’educazione e nella salute. Così, la Repubblica federale degli anni ’70-’80 dà forma a un «modello tedesco» che si proclama fedele all’economia sociale di mercato ma incorpora una buona dose di interventismo classico.
L’alternanza del 1982 offre al cristiano-democratico Helmut Kohl l’occasione per chiudere la parentesi: il pendolo ideologico è oscillato; si torna alla priorità dell’equilibrio di bilancio. Ma i costi dell’unificazione tedesca negli anni ’90 ostacolano il ritorno ai fondamentali ordoliberisti. E toccherà al socialdemocratico Gerhard Schröder, diventato cancelliere nel 1998, ripristinare l’ordine degli anni ’50 con la massiccia deregolamentazione dei diritto del lavoro e l’indebolimento della protezione sociale. Misure confermate dall’attuale cancelliera, Angela Merkel, la quale nel gennaio 2014 ricordava che «l’economia sociale di mercato è molto di più di un ordinamento economico e sociale. I suoi principi sono atemporali».
A 80 anni dalla sua nascita, l’ordoliberismo si perpetua in Germania in istituzioni come l’Ufficio federale per la lotta contro i cartelli – creato nel 1957 -, la Commissione dei monopoli, che consiglia il potere politico in materia di concorrenza, e anche il Consiglio di stabilità, creato nel 2010 per vegliare sul rispetto della «regola aurea» del deficit zero, a livello federale come nei Länder. Ma percorre anche i dibattiti politico-economici tedeschi, come un fondo culturale comune che ciascuno interpreta come meglio crede.
Dai conservatori ai liberali, fino alla Spd e ai Verdi, passando per l’Alternative für Deutschland (AfD – la co-fondò l’economista Joachim Starbatty, assistente di Müller-Armack a Colonia), i partiti tedeschi contano nelle loro fila numerosi eredi di Eucken. Tutti sostengono che i loro avversari usano malamente la tradizione ordo. «Sono un ordoliberale, ma di sinistra» ci assicura Gerhard Schick deputato verde al Bundestag dal 2005. Laureato in economia, ex ricercatore all’istituto Walter-Eucken, egli non si ritiene «in nessun modo un neoliberista. Presso i Verdi, il termine “economia sociale di mercato” è ben accetto, anche se preferiremmo aggiungere l’aggettivo “ecologica”. Condivido le analisi ordoliberali sul controllo del mercato. Trovo importante che lo Stato stabilisca regole affinché la concorrenza funzioni».
Nel corso degli anni sono emerse correnti più o meno interventiste. «Non è una dottrina chiusa», analizza Ralf Fücks, direttore dell’influente Fondazione Heinrich-Böll dei Verdi. Il principio ordoliberista della «responsabilità» può giustificare la regolamentazione dei mercati finanziari e le tasse ecologiche, ma anche il rifiuto di una mutualizzazione europea del debito. «È una terza via fra il laissez-faire e lo statalismo – sostiene questo ex dirigente dei Grünen -. Per i Verdi, è una posizione particolarmente interessante, che permette di smarcarsi al tempo stesso dalle idee della sinistra tradizionale e da quelle neoliberiste.»
Herbert Schui, deputato Die Linke (sinistra radicale) dal 2005 al 2010 ed ex professore di economia, sottolinea che «l’economia sociale di mercato è un concetto suggestivo. Fu creato dopo la guerra per allontanare la popolazione dalle idee socialiste. La formula funziona così bene che ha affascinato anche persone collocate a sinistra». Fornisce un riferimento duttile ma molto legittimo, perché associato all’idea di rifondazione – un po’ come il gollismo in Francia. La Confederazione tedesca dei sindacati (Dgb) l’ha adottata nel 1996. «L’economia sociale di mercato ha prodotto un elevato livello di prosperità materiale» e rappresenta «un grande progresso storico rispetto al capitalismo selvaggio», dichiara il suo programma di fondazione, rimasto immutato da allora. Eppure, si riconosce che questo sistema «non ha impedito né la disoccupazione di massa né lo spreco delle risorse, e non ha prodotto l’uguaglianza sociale».
Mentre una parte della sinistra tedesca vede nell’ordoliberismo una forma di interventismo da opporre al neoliberismo, il padronato la associa a un’economia di mercato strettamente liberista. Una serie di organismi che condividono questa visione fornisce al pensiero ordoliberista una cassa di risonanza polifonica. L’Iniziativa per una nuova economia sociale di mercato, think tank presieduto da Tietmeyer, lotta contro il sostegno pubblico alle energie rinnovabili, contro l’imposta patrimoniale e anche contro il salario minimo legale introdotto all’inizio del 2015. La Comunità d’azione per l’economia sociale di mercato continua a imperversare, a 60 anni dalla sua creazione. In tempi più recenti, l’Alleanza di Jena per il rinnovo dell’economia sociale di mercato assegna ogni anno un premio per l’innovazione dell’Ordnungspolitik, mentre il Kronenberg Kreis, un circolo di economisti legato a una fondazione per l’economia di mercato, si vanta di fornire ai governi «il pensiero per le riforme indispensabili». L’ordopolitica dispone di agganci anche all’interno della Chiesa, nella persona di Rinhard Marx, arcivescovo di Monaco e presidente della Conferenza episcopale tedesca.
Ma la voce più influente dell’ordopolitica altri non è che il Consiglio tedesco degli esperti economici, creato nel 1963 da Erhard per orientare le scelte del governo. Dei suoi cinque membri solo uno, Peter Bofinger, è keynesiano. «Di qualunque soggetto si tratti, io sono solo contro quattro», fa osservare (The Economist, 9 maggio 2015). I suoi colleghi si ritengono anzitutto pragmatici. «Vediamo i vantaggi dei concetti ordopolitici ma in realtà la cosa è più eterogenea», ci spiega ad esempio Lars Feld, uno dei «saggi», professore all’Università di Friburgo e presidente dell’istituto Walter-Eucken. «L’ordoliberismo in sé non fa necessariamente rima con austerità. Nel 2008, con il mio collega Clemens Fuest, abbiamo per esempio raccomandato al governo di adottare un programma di sostegno della ripresa dopo la crisi finanziaria. Ma, abbiamo aggiunto, “se temete che questa misura possa in seguito penalizzare le vostre condizioni di rifinanziamento sui mercati, allora ponete un freno all’indebitamento”» – la regola d’oro nelle politiche di bilancio. Il governo ha seguito alla lettera le due raccomandazioni. «Come tedesco, per me è incomprensibile che il mio paese sia immobile dal punto di vista del pensiero economico», ci confida l’economista e specialista dell’ordoliberismo Ralf Ptak.
Al di là della sua applicazione germanica in una versione più o meno spuria, l’ideologia «ordo» è stata trasposta allo stato chimicamente puro nelle strutture dell’Unione europea. «Tutto il quadro di Maastricht riflette i principi centrali dell’ordoliberismo e dell’economia sociale di mercato», riconosce compiaciuto Jens Weidmann, presidente della Bundesbank17. Con il suo appello allo «sviluppo durevole dell’Europa fondato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, un’economia sociale di mercato altamente competitiva», l’articolo 2.3 del trattato di Lisbona, in vigore dalla fine del 2009, sembra ricalcato su un discorso di Erhard.
E non è un caso: da Walter Hallstein, primo presidente della Commissione europea (1958-1967) a Hans von der Groeben, commissario alla concorrenza (1958-1967), passando per Müller-Armack, negoziatore del trattato, la maggior parte dei tedeschi che parteciparono alla creazione del Mercato comune negli anni ’50 aderiva al pensiero di Eucken. Gli alti funzionari delle istituzioni europee hanno riprodotto su scala comunitaria la strategia di Erhard e del suo comitato di esperti nella Germania federale occupata: attori di un organismo sprovvisto di legittimità, si sono concentrati sull’elaborazione di un quadro giuridico centrato sulla concorrenza e sulla stabilità monetaria, una preoccupazione alla quale le potenze nate durante la guerra fredda attribuivano un’importanza di second’ordine.
Quando il pilota automatico sostituisce l’azione politica
Il loro trionfo non era scontato. Negli anni ’50, l’edificio europeo viene costruito su due pilastri dottrinali ben distinti. Il primo, quello francese, interventista in economia e pianificatore, scava volentieri a colpi di sovvenzioni ampie aree di eccezione alle regole della concorrenza (la politica agricola comunitaria e quella delle grandi imprese nazionali). Vede nel progetto del mercato interno europeo una protezione nei confronti del libero scambio mondiale. L’altro pilastro, ordoliberista, spinge i partner non solo a realizzare un mercato unico comunitario, ma anche a eliminare le barriere doganali all’interno del «mondo libero». Già nel 1956, il cancelliere Erhard sosteneva l’idea di un… grande mercato transatlantico18.
L’approccio francese, dominante negli anni ’70 e ’80, non resiste alla deregolamentazione degli scambi internazionali, che implica rigore di bilancio e competitività. Parigi abdica simbolicamente il 23 marzo 1983, quando François Mitterand, rinunciando a portare avanti la politica di rottura per la quale è stato eletto, decide di non sganciare il franco dal sistema monetario europeo e dalla Germania. Una scelta che implica l’adozione, da parte della sinistra, di un piano di austerità simbolicamente paragonabile a quello che Alexis Tsipras ha dovuto approvare nel luglio 2015. «Sono combattuto fra due aspirazioni – confidava Mitterand il 19 febbraio 1983 – Quella della costruzione dell’Europa e quella della giustizia sociale19». Al primo ministro greco è stata imposta un’alternativa della stessa portata.
A 25 anni dalla caduta del muro di Berlino, la dottrina «ordo» continua a ispirare i quadri della direzione generale della concorrenza e numerosi commissari europei, come il belga Karel Van Miert, premio Ludwig-Erhard nel 1998, e l’italiano Mario Monti. Ma il feudo ordoliberista più inespugnabile ha sede a Francoforte. «La costituzione monetaria della Banca centrale europea [Bce] è saldamente ancorata ai principi dell’ordoliberismo», riconosce l’attuale presidente dell’istituzione, Mario Draghi20. Per il modo di funzionare, per l’indipendenza dalle istituzioni democratiche e per la sua unica missione, il mantenimento della stabilità dei prezzi, la Bce imita la Bundesbank. Il 19 settembre 2003, Les Echos salutavano il suo futuro presidente Jean-Claude Trichet – per quanto ex allievo dell’Ena e francese -, come «il rappresentante più autentico dello spirito ma anche della pratica incarnati dalla Bundesbank dalla sua creazione nel 1949 fino all’introduzione dell’euro».
I combattimenti sono finiti per mancanza di combattenti. In Europa, dalla bassa marea della sovranità popolare affiora nella loro fredda efficacia la funzione di pilotaggio automatico pazientemente costruita dagli uffici di Bruxelles e dalle torri di Francoforte: indicatori messi in stato di assenza di gravità democratica dal trattato di Maastricht (il famoso 3% del deficit), introduzione nel marzo 2012 della «regola aurea» tedesca che limita i deficit di bilancio per gli Stati membri.
Ce lo confermava dieci giorni dopo il referendum greco, Hans-Werner Sinn, l’economista più influente in Germania, consigliere del ministro delle finanze e inflessibile rappresentante dell’ortodossia: «La crisi europea esclude ricette keynesiane. Non si tratta di ordoliberismo, ma semplicemente di economia». Il quadro di Eucken è diventato una gabbia di ferro.
[Traduzione di Marinella Correggia]
1. Wolfgang Schäuble, discorso a Francoforte, 5 settembre 2012.
2. David J. Gerber, «Constitutionalizing the economy: German neo-liberalism, competition law and the “new” Europe», The American Journal of Comparative Law, vol. 42, n° 1, Washington DC, 1994.
3. Citato da Siegfrid G. Karsten, «Eucken’s “sociale market economy” and its test in postwar West Germany», The American Journal of Economics and Sociology, vol. 44, n° 2, Hoboken (New Jersey), 1985.
4. Walter Eucken, Grundsätze der Wirtschaftspolitik, Mohr, Tubinga, 1952
5. Jean Solchany, Wilhelm Röpke, l’autre Hayek. Aux origines du néolibéralisme, Publications de la Sorbonne, Parigi, 2015.
6. Centre international d’études pour la rénovation du libéralisme (Cirl), Compte rendu des séances du colloque Walter Lippmann, Librarie de Médicis, Parigi, 1939.
7. Patricia Commun, «La conversion de Ludwig Erhard à l’ordolibéralisme (1930-1950)», in Patricia Commun (a cura di), L’Ordolibéralisme allemand. Aux sorces de l’économie sociale de marché, Cirac, Cergy-Pontoise, 2003.
8. François Bilger, La Pensée économique libérale dans l’Allemagne contemporaine, Lgdj, Parigi, 1964.
9. Werner Abelshauser, «Les nationalisations n’auront pas lieu», Le Mouvement social, n° 134, gennaio-marzo 1986.
10. Si legga Renaud Lambert, «Debito pubblico, un braccio di ferro lungo un secolo», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2015
11. Alfred Müller-Armack, repris dans Genealogie der sozialen Maktwirtschaft, Haupt, Berna, 1981.
12. Ludwig Erhard, La Prospérirè pour tous, Plon Parigi, 1959.
13. Hans Tietmeyer, Economie sociale de marché et stabilité monétaire, Economica, Parigi, 1999
14. Christophe Strassel, «La France, l’Europe et e modèle allemand», Hérodote, vol. 4, La Découverte, Parigi, 2013.
15. Ralf Ptak, Vom Ordoliberalismus zur sozialen Marktwirtschaft, Leske+Budrich, Opladen, 2004.
16. André Piettre, L’Economie allemande contemporaine (Allemagne occidentale), 1945-1952, Librairie de Médicis, Parigi, 1952
17. Conferenza all’istituto Walter-Eucken, Fribourg-en-Brisgau, 11 febbraio 2013.
18. Si legga il dossier online, www.monde-diplomatique.fr/dossier/GMT
19. Jacques Attali, Verbatim I, Fayard, Parigi, 1993.
20. Conferenza stampa di Mario Draghi a Gerusalemme, 18 giugno 2013
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