Lo stato d’emergenza, dichiarato sull’intero territorio della Republique, in risposta agli attentati del 13 novembre, consente poteri speciali alle istituzioni responsabili dell’ordine pubblico in materia di libera circolazione e manifestazioni. Sono affidate a procedure amministrative — senza cioè l’autorizzazione del giudice — le indagini e le perquisizioni diurne e notturne legate al terrorismo. I prefetti possono istituire il coprifuoco e chiudere temporaneamente luoghi pubblici, come bar, uffici e luoghi di culto.
Lo stato di emergenza che François Hollande ha dichiarato il 14 novembre, a distanza di un giorno dagli attentati di Parigi che hanno causato 130 morti e il ferimento di oltre 300 persone, è ancora in vigore. Vale la pena soffermarsi sull’eccezionalità di questa situazione.
Né José María Aznar dopo gli attentati del 2004 a Madrid che provocarono la morte di 191 persone e dove i feriti furono 1.800, né Tony Blair dopo gli attentati di Londra del 2005, (i morti furono 52 e 700 i feriti) erano arrivati all’istituzione di tali misure. C’era stata solo un’altra occasione in cui in Francia, durante la Quinta Repubblica, era stato applicato lo stato di emergenza a tutto il Paese (la prima è stata nel mese di aprile 1961, dopo il putsch di Algeri, il colpo di stato fallito dei generali contro Charles de Gaulle).
Il 16 novembre Hollande ha annunciato che “La Francia è in guerra”, convocando un consiglio straordinario a Versailles e sostenendo che lo stato di emergenza sarebbe dovuto, a tempo debito, essere inserito nella Costituzione e, nel frattempo, che sarebbe stato esteso per tre mesi; due giorni dopo il suo discorso, 551 dei 558 rappresentanti dell’Assemblea Nazionale hanno votato a favore della proroga.
Un sondaggio ha indicato che il 91% dell’opinione pubblica ha sostenuto queste misure, il tasso di approvazione mostra piccole variazioni dipendenti dalle linee politiche dei partiti: il 93% è il consenso riscontrato tra i socialisti e il 98% tra i repubblicani. Da allora, il sostegno popolare è rimasto molto elevato. Perché queste misure che altri capi di stato, di fronte ad eventi simili, non hanno ritenuto necessarie, sono così popolari?
Lo stato di emergenza, in termini generali, consente al ramo esecutivo del governo poteri straordinari rispetto alla mobilitazione dell’esercito, al controllo dei confini, alla limitazione del movimento e alle delibere di coprifuoco. Nella pratica ha quattro principali conseguenze concrete. La polizia può eseguire ricerche in luoghi pubblici e privati in qualunque momento senza autorizzazione giudiziaria. Il ministro dell’Interno può disporre, nei confronti di chiunque sia considerato una minaccia per la sicurezza pubblica, gli arresti domiciliari.Per le stesse ragioni le autorità statali possono vietare manifestazioni e raduni. Le forze dell’ordine possono fermare e perquisire chiunque senza una specifica giustificazione. Anticipando possibili ricorsi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo contro queste misure, il 27 novembre, il governo francese ha informato preventivamente il Consiglio d’Europa della sua “decisione di violare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo”.
Si potrebbe pensare che queste restrizioni delle libertà sociali e dei diritti fondamentali possano risultare alla lunga impopolari, e che potrebbero anche portare alla nascita di un dissenso e di una protesta pubblica. In realtà è accaduto il contrario. Sondaggio dopo sondaggio, un’ampia maggioranza continua a sostenere le misure di emergenza. Ci sono due ragioni: in primo luogo, essi sono ritenuti strumenti efficaci nella lotta al terrorismo; in secondo luogo, la maggior parte della popolazione non arriva a vederne le conseguenze negative.
Qual è l’efficacia di queste misure? A seguito di un’indagine condotta dalla Commissione giuridica dell’Assemblea Nazionale, sono state disposte 3021 indagini amministrative nel corso dei primi due mesi, di cui quattro hanno portato a ulteriori indagini giudiziarie, e in un caso alla contestazione per possibili legami con attività terroristiche. Ci sono stati 381 arresti domiciliari, molti dei quali non riconducibili a sospetti di terrorismo; 62 di questi casi sono arrivati alla corte d’appello. Il numero di indagini amministrative e arresti domiciliari è salito alle stelle anche perché alla polizia è stata data l’opportunità di condurre operazioni che sarebbero state illegali in condizioni normali.
Le indagini amministrative sono servite, in quasi tutti i 366 casi che hanno portato ad arresti, all’incriminazione di persone per possesso di droga (per la gran parte cannabis) o possesso di armi da fuoco (comprese le armi detenute legalmente). Gli arresti domiciliari sono stati utilizzati, tra le altre cose, per disporre il fermo nei confronti di militanti ambientalisti che prendono parte a manifestazioni e proteste – proteste che, per inciso, nel corso della conferenza sul cambiamento climatico di Parigi, erano in ogni caso vietate.
Fra gli obiettivi rientrano spesso giovani appartenenti alle minoranze arabe o africane, in particolare magrebini delle zone a basso reddito e rientranti dei progetti di edilizia popolare. I musulmani sono stati oggetto di indagini amministrative a causa di meri sospetti di affinità religiosa col jihadismo, così come cristiani ritenuti erroneamente islamisti. Ristoranti che servono cibo halal, o con uno spazio riservato alla preghiera, sono stati perquisiti all’ora di pranzo e i loro mobili distrutti; la ragione ufficiale è stata che alcuni dei loro clienti erano sospetti, anche se in nessuno dei casi nessuno dei presenti è stato interrogato o arrestato.
Un ostello per donne senza fissa dimora gestito da un’organizzazione musulmana è stato chiuso, senza alcuna spiegazione. Per un negoziante accusato di avere clienti presumibilmente in contatto con jihadisti sono stati disposti gli arresti domiciliari. Un’indagine amministrativa solitamente avviene durante la notte. La procedura standard per le forze speciali, armate con equipaggiamento pesante, è scandita dallo sfondamento della porta di un appartamento, le armi puntate nei confronti delle persone presenti, il blocco a terra, l’uso delle manette e la perquisizione dalla testa ai piedi. Nella maggior parte dei casi, la polizia lascia questi luoghi senza trovare nulla di sospetto. Di tanto in tanto, arriva l’ammissione di aver perquisito l’appartamento sbagliato.
Nessuna compensazione è pensata o disposta per i danni materiali provocati e nessuna assistenza psicologica è fornita alle famiglie che possono subire traumi come conseguenza di queste azioni. Coloro per cui sono disposti gli arresti domiciliari sono spesso tenuti a raggiungere una stazione di polizia tre volte al giorno, compromettendo così la loro attività lavorativa. Raramente vengono informati sulle motivazioni della procedura a loro carico, e nei casi di un loro appello al tribunale amministrativo il pubblico ministero non è tenuto a fornire le prove d’accusa. Anche quando le accuse vengono ritirate, le conseguenze restano: i vicini di casa e colleghi hanno fatto in tempo a diventare sospettosi. Ma al di là delle perquisizioni e degli arresti domiciliari, ci sono altre pratiche che sono meno misurabili perché non compaiono nelle statistiche.
Fermo e indagine sono al momento effettuati regolarmente e arbitrariamente in spazi pubblici, in particolare nelle stazioni ferroviarie e della metropolitana e rivolti palesemente alle persone sulla base del loro aspetto fisico. L’analisi a fini investigativi su base razziale, che è frequente, sebbene spesso condotta in modo illegale, non solo è diventata lecita ma è perfino incoraggiata dalle autorità.
Tale condotta non è nuova. Dal 1990, gli interventi ossessivi delle autorità pubbliche rispetto alla pratica di indossare il velo, all’inclusione di cibo halal nei pasti scolastici, alla costruzione di moschee e scuole religiose, sono stati tutti presentati come una difesa della laicità francese (sebbene pratiche simili da parte cristiani ed ebrei non sembrano siano mai apparse come un’offesa alla comunità nazionale). Con gli eventi del 2015 – Charlie Hebdonel mese di gennaio, e gli attacchi di novembre – la stigmatizzazione dei quattro milioni di musulmani francesi ha subito un’accelerazione. Anche se il governo ha più volte insistito sulla necessità di distinguere fra l’Islam radicale e violento dalle pratiche religiose pacifiche della stragrande maggioranza dei musulmani, nella realtà sembra che ogni musulmano sia un sospetto o un bersaglio.
Quando ad Ajaccio, la maggiore città della Corsica, una sala di preghiera musulmana è stata oggetto di vandalismo il giorno di Natale – sono state bruciate copie del Corano e si è udito il canto “Arabi fora” (gli arabi fuori) – vi fu il commento indignato da parte dei media e una protesta unanime da parte dei politici. Non si è trattato però di un evento isolato. Secondo i dati di DILCRA, l’istituzione governativa responsabile della lotta contro il razzismo e l’antisemitismo, il numero di casi di aggressione contro i musulmani, tra cui la profanazione dei loro luoghi di culto, sono aumentate del 223 per cento nel 2015 rispetto all’anno precedente (nello stesso periodo, gli “atti razzisti” sono aumentati del 17% e gli “atti antisemiti” sono diminuiti del 5%).
Anche se la responsabilità di questi attacchi è riconducibile ai gruppi di estrema destra, è difficile non vedere un parallelo con il modo in cui la polizia ha agito nelle moschee in cui sono state condotte le indagini amministrative, sfondando le porte, portando i cani nelle sale di preghiera, gettando all’aria copie del Corano, senza mai scusarsi per il danno o l’intrusione. Può essere significativo il fatto che, secondo un recente sondaggio, nel 2015 alle elezioni regionali il 51% delle forze di polizia e dell’esercito hanno votato per il Fronte Nazionale. Nessun bisogno, dunque, di richiamare teorie cospirative per connettere ideologia e prassi.
L’applicazione selettiva dello stato di emergenza ha conseguenze quasi impercettibili per la maggior parte della popolazione: dal momento che le loro porte non vengono sfondate nel bel mezzo della notte, tutto ciò che vedono è la presenza rassicurante dei militari negli spazi pubblici. La maggior parte delle persone, guardando da lontano qualcuno che viene arrestato e perquisito dalla polizia, può anche non essere in grado di cogliere l’applicazione discriminatoria delle misure di emergenza, o può semplicemente ignorarla. Quanti hanno sostenuto che la Francia è stata trasformata in uno stato di polizia hanno avuto scarsa influenza nel dibattito pubblico, perché di fronte alla maggior parte delle persone nulla è cambiato rispetto al solito scenario. Il 9 febbraio, l’Assemblea Nazionale ha votato per l’approvazione della proposta Hollande di inscrivere lo stato d’emergenza nella Costituzione. Allo stesso tempo, come hanno dimostrato alcuni documenti trapelati dal ministero dell’Interno, era in preparazione una nuova legge di rafforzamento dei poteri della polizia.
Questa non si limita al terrorismo ma riguarda il crimine in generale. Rimuove le restrizioni normative esistenti in materia di arresto e poteri d’indagine e autorizza l’uso delle armi da parte della polizia anche nei casi non riconducibili all’autodifesa. Fornisce prerogative più ampie ai pubblici ministeri di nomina governativa e limita il ruolo dei giudici nella conduzione delle indagini. L’obiettivo ufficiale è quello di “consolidare in modo permanente gli strumenti e i mezzi a disposizione delle autorità amministrative e giudiziarie senza che siano limitati al quadro giuridico temporaneo dello stato di emergenza”.
Non solo, dunque, l’attuale stato di emergenza è in procinto di essere legittimato dalla Costituzione, ma una parte sostanziale di ciò che è consentito all’interno dei suoi limiti viene scritto nella legislazione in modo che possa applicarsi all’interno della giurisdizione ordinaria, così come in circostanze straordinarie. Gli attacchi terroristici, a quanto pare, sono serviti come pretesto per espandere la portata della legittimità nell’uso della forza da parte dello Stato. Di fronte a questa situazione non c’è stata, in sostanza, alcuna protesta (il divieto di manifestazioni agevola questo stato di cose). Nelle settimane successive agli attacchi di Parigi, il grado di popolarità di Hollande è salito dal 28% al 50%, grazie anche alla scelta di prendere in prestito linguaggio e idee dalla destra e, in alcuni casi, dall’estrema destra (la revoca della cittadinanza).
La sua popolarità personale in Francia è scivolata nuovamente verso il basso, mentre si è mantenuta alta quella delle sue politiche: in un recente sondaggio, il 79% delle persone ha sostenuto la proposta del governo di estensione dello stato di emergenza per altri tre mesi fino a maggio. La politica della paura, che tutti i partiti sembrano ritenere vantaggiosa in termini elettorali, ha reso queste misure eccezionali assolutamente accettabili per la maggior parte delle persone, dal momento che solo una frazione stigmatizzata ed emarginata della popolazione ne subisce le conseguenze. È difficile non pensare, però, che tutto questo potrebbe danneggiare ulteriormente la coesione nazionale. Le ingiustizie quotidiane, dall’impatto forte e diretto sulla minoranza – mentre la maggioranza rimane in silenzio o addirittura consenziente – non possono non dare origine alla crescita del risentimento.
[Si ringrazia Didier Fassin per avere consentito la traduzione di questo articolo pubblicato in lingua inglese nella sezione Short Cuts dalla London Review of Books. La traduzione è a cura di Antonio Iannello].
fonte: http://www.lavoroculturale.org/stato-di-emergenza-francia
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