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David Harvey: il Cile di Pinochet primo esperimento di stato neoliberista

Il primo esperimento di creazione di uno stato neoliberista, vale la pena ricordarlo, si verificò in Cile dopo il golpe di Pinochet, avvenuto l’11 settembre 1973 (quasi trent’anni esatti prima che Bremer chiarisse quale regime doveva essere instaurato in Iraq). Il colpo di stato contro il governo democraticamente eletto di Salvador Allende  fu organizzato dalle élite economiche nazionali – che si sentivano minacciate dalla politica socialista promossa dal presidente – con l’appoggio delle grandi società americane, della CIA e del segretario di Stato Henry Kissinger. Il golpe represse con la violenza tutti i movimenti sociali e le organizzazioni politiche della sinistra e smantellò qualsiasi forma di organizzazione popolare (come i centri sanitari di comunità nei quartieri più poveri), mentre il mercato del lavoro veniva «liberato» dalle restrizioni derivanti da regolamenti e istituzioni (come i sindacati).

Ma come si poteva ridare vigore a un’economia in stallo? Le politiche di sostituzione delle importazioni (attuate finanziando le industrie nazionali e imponendo dazi protezionistici) che avevano dominato i tentativi dei paesi latinoamericani di sostenere lo sviluppo economico erano cadute in discredito, in particolare in Cile, dove non avevano mai dato i risultati sperati. Ora che tutto il mondo era in recessione economica, il problema andava affrontato in modo nuovo.

Per contribuire alla ricostruzione dell’economia cilena fu convocato un gruppo di economisti noti come «Chicago boys», in virtù della loro adesione alle teorie neoliberiste di Milton Friedman, che allora insegnava all’Università di Chicago. La storia di come furono scelti è interessante. Gli Stati Uniti avevano finanziato la formazione di economisti cileni presso l’Università di Chicago fin dagli anni cinquanta, nell’ambito di un programma concepito durante la Guerra fredda per contrastare le sinistre in America Latina. Gli economisti formatisi a Chicago divennero figure di spicco dell’Università Cattolica di Santiago, un ateneo privato. Nei primi anni settanta le élite economiche cilene organizzarono la loro opposizione ad Allende attraverso un gruppo chiamato «club del lunedì» e avviarono un rapporto di collaborazione con quegli economisti, finanziando le loro attività attraverso istituti di ricerca. Messo da parte il generale Gustavo Leigh, keynesiano e rivale del leader golpista, nel 1975 Pinochet portò quegli economisti al governo, dove il loro primo compito fu di negoziare prestiti con il Fondo monetario internazionale. Lavorando a fianco dell’FMI, i «Chicago boys» ristrutturarono l’economia secondo le loro teorie. Revocarono le nazionalizzazioni e privatizzarono beni pubblici, resero le risorse naturali (pesca, legname ecc.) accessibili a uno sfruttamento del tutto privo di regole (che in molti casi calpestò senza alcuno scrupolo i diritti delle popolazioni locali), privatizzarono la previdenza sociale, agevolarono gli investimenti stranieri diretti e il libero scambio; fu garantito il diritto delle società straniere al rimpatrio dei proventi delle loro operazioni in Cile; alla sostituzione delle importazioni si preferì una crescita basata sulle esportazioni. L’unico settore riservato allo stato rimase il rame (come il petrolio in Iraq), che era determinante per tenere in piedi il bilancio dello stato, dato che gli introiti che ne derivavano fluivano esclusivamente nelle sue casse. L’immediata ripresa dell’economia cilena in termini di tassi di crescita, accumulo di capitale e alti livelli di profitto sugli investimenti stranieri ebbe vita breve: il sistema crollò con la crisi del debito latinoamericano del 1982. Il risultato fu che, negli anni successivi, le politiche neoliberiste furono applicate in modo molto più pragmatico e meno ideologico. Tutto ciò, incluso il pragmatismo, costituì un utile banco di prova in vista della svolta neoliberista che si sarebbe avuta in Gran Bretagna (sotto la Thatcher) e negli Stati Uniti (sotto Reagan) negli anni ottanta. Non era la prima volta che un esperimento condotto in modo brutale alla periferia del mondo diveniva un modello per la messa a punto di politiche da adottare nel centro (proprio come sarebbe accaduto con la flat tax imposta in Iraq dai decreti di Bremer).

(…) La crisi dell’accumulazione di capitale negli anni settanta colpì in modo generalizzato tramite la combinazione tra disoccupazione crescente e accelerazione dell’inflazione. Lo scontento era diffuso e, in gran parte del mondo capitalista, la convergenza tra movimenti dei lavoratori e movimenti sociali urbani sembrava indicare l’avvento di un’alternativa socialista al compromesso sociale tra capitale e lavoro che con tanto successo aveva costituito la base per l’accumulazione di capitale nel dopoguerra. I partiti comunisti e socialisti guadagnavano terreno, o erano addirittura prossimi ad affermarsi, in buona parte dell’Europa, e perfino negli Stati Uniti le forze popolari si stavano mobilitando per un ampliamento delle riforme e degli interventi statali. Tutto ciò rappresentava ovunque una chiara minaccia politica per le élite economiche e le classi dominanti, sia nei paesi a capitalismo avanzato (come Italia, Francia, Spagna e Portogallo) sia in molti paesi in via di sviluppo (come Cile, Messico e Argentina). In Svezia, per esempio, quello che divenne noto come «piano Rehn-Meidner» prometteva letteralmente di rilevare gradualmente le quote di proprietà delle imprese e di trasformare il paese in una democrazia di lavoratori azionisti.

Ma, al di là di questo, stava divenendo palpabile la minaccia economica alla posizione delle classi  dominanti. In quasi tutti i paesi una delle condizioni previste dall’assetto del dopoguerra era che si ponessero dei freni al potere economico delle classi più alte e si concedesse alla forza lavoro una fetta assai maggiore della torta economica. Negli Stati Uniti, per esempio, la percentuale del reddito nazionale percepita dall’I per cento che si trovava in testa alla scala delle entrate precipitò dal 16 per cento dell’anteguerra all’8 per cento scarso della fine della Seconda guerra mondiale, e si assestò più o meno su quel livello per quasi trent’anni. Finché la crescita era forte, questa limitazione sembrava accettabile. Ricevere una percentuale fissa di una quantità complessiva crescente è una cosa, ma quando negli anni settanta la crescita si interruppe, i tassi di crescita reali divennero negativi e dividendi e profitti divennero generalmente irrisori, allora le classi alte si sentirono ovunque minacciate. Negli Stati Uniti la ricchezza (distinta dal reddito) controllata dall’I per cento più facoltoso della popolazione era rimasta relativamente stabile per tutto il XX secolo, ma negli anni settanta subì una caduta precipitosa, mentre il valore dei patrimoni (azioni, proprietà, risparmi) crollava. Le classi più alte dovevano muoversi con decisione, se volevano evitare di essere annientate politicamente ed economicamente. Il colpo di stato in Cile e la presa del potere da parte dell’esercito in Argentina, promossi da settori dei ceti dominanti con l’appoggio degli Stati Uniti, rappresentarono un tipo di soluzione. Il successivo esperimento neoliberista in Cile dimostrò che i vantaggi derivanti da una ripresa dell’accumulazione di capitale, in condizioni di privatizzazione forzata, risultavano notevolmente distorti.

Il paese e le sue élite dominanti, come pure gli investitori stranieri, trassero enormi vantaggi nelle fasi iniziali. Gli effetti sul la redistribuzione e la crescita della disuguaglianza sociale si sono dimostrati così persistenti nell’ambito dei processi di neoliberalizzazione da poter essere considerati elementi strutturali di tali processi.

Gerard Duménil e Dominique Lévy, dopo un’attenta ricostruzione dei dati, hanno concluso che la neoliberalizzazione è stata fin dall’inizio un progetto mirante alla restaurazione del potere di classe. Dopo l’attuazione delle politiche neoliberiste alla fine degli anni settanta, la percentuale del reddito nazionale percepita dall’1 per cento più ricco della popolazione americana è cresciuta vertiginosamente, fino a raggiungere, alla fine del secolo, il 15 per cento (avvicinandosi molto al livello dell’epoca precedente la Seconda guerra mondiale). Lo 0,1 per cento della popolazione statunitense che percepisce i redditi più alti ha visto crescere la propria fetta del reddito nazionale dal 2 per cento del 1978 a oltre il 6 per cento del 1999, mentre il rapporto tra i salari medi dei lavoratori e gli stipendi dei massimi dirigenti d’azienda è passato dal 30 a 1 del 1970 al quasi 500 a 1 del 2000.

 

Un estratto dalla “Breve storia del neoliberismo“ di David Harvey

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