Un saggio di Samir Amin. Traduzione di Lorenzo Battisti per Marx21.it
Il caos politico che domina la scena in Medio Oriente si esprime tra l'altro, nell'emergere violento della questione curda. Come possiamo analizzare, in queste nuove condizioni, la portata della rivendicazione dei Curdi (autonomia? Indipendenza? Unità?)? E possiamo dedurre dall'analisi che questa rivendicazione debba essere sostenuta da tutte le forze democratiche e progressiste della regione e del mondo?
Una grande confusione domina il dibattito su questo tema. La ragione è, a mio avviso, l'allineamento della maggior parte degli attori e degli osservatori dietro ad una visione non storica di questa questione, così come di altre. Il diritto dei popoli all'autodeterminazione è stato innalzato a diritto assoluto, che vorremmo fosse mantenuto valido per tutti e in tutti i tempi (presenti e futuri), così come per il passato. Questo diritto è considerato come uno dei diritti collettivi tra i più fondamentali, al quale si dà di solito più importanza che agli altri diritti collettivi di portata sociale (diritto al lavoro, all'educazione, alla sanità, alla partecipazione politica ecc..).
D'altra parte i soggetti di questo diritto assoluto non sono definiti in maniera precisa; il soggetto di questo diritto può essere “una comunità” qualunque, maggioritaria o minoritaria all'interno delle frontiere di uno stato o di una delle sue province; questa comunità che si definisce essa stessa come “particolare” per lingua o religione per esempio; e si proclama, a torto o a ragione, vittima di una discriminazione, se non di un'oppressione. Le mie analisi e le mie prese di posizione si iscrivono all'opposto di questa visione transtorica dei problemi della società e dei “diritti” attraverso i quali si esprimono le rivendicazioni dei movimenti sociali del passato e del presente. In particolare attribuisco un'importanza capitale alla frattura che separa lo sviluppo del moderno mondo capitalista dai mondi precedenti.
L'organizzazione politica di questi mondi anteriori ha rivestito delle forme diverse all'estremo, che andavano dalla costruzione di poteri esercitati su spazi vasti, qualificati per questo come “Imperi”, a quella di più modeste monarchie più o meno centralizzate, senza escludere in alcune circostanze lo sbriciolamento estremo dei poteri che non oltrepassavano quasi l'orizzonte di un villaggio. L'esame di questo insieme disparato di forme politiche anteriori alla modernità capitalista non è ovviamente l'oggetto di questo articolo. Non farò riferimento che ad alcune delle costruzioni imperiali proprie della regione interessata: gli imperi romano e bizantino, i califfati arabo-persiani, l'Impero ottomano.
La qualificazione comune di queste costrizioni – gli imperi – è più ingannevole che utile, sebbene questi condividano entrambi i caratteri : 1) si somigliano necessariamente, per la loro estensione geografica, di popoli e di comunità differenti per lingua, religione e modi di produzione e di vita sociale 2) le logiche che comandano la riproduzione della vita sociale ed economica non sono quelle del capitalismo, ma si riferiscono a quello che ho qualificato come famiglia di modi di produzione tributari (“feudale”, nel linguaggio più comune). Per questa ragione considero assurda mettere sullo stesso piano di tutti questi imperi antichi (quelli qui considerati e altri, come la Cina) da una parte, e dall'altra gli imperi costruiti dalle grandi potenze capitaliste, siano essi degli imperi coloniali come quello della Gran Bretagna e della Francia moderna o degli imperi senza colonie formali come l'impero degli Stati Uniti, sotto una forma unica detta Impero. La tesi ben conosciuta di Kennedy sulla “caduta degli imperi” rientra tra queste filosofie speculative transtoriche.
Torno a quell'impero che interessa direttamente il nostro tema: l'Impero ottomano costruito nel momento nel quale l'Europa avvia la rottura con il suo passato ed entra nella modernità capitalista. L'Impero ottomano era, esso, ante-capitalista. La sua qualificazione di Impero turco è essa stessa inesatta e ingannevole. Senza dubbio le guerre di conquista delle tribù semi nomadi turcomanne venute dall'Asia centrale sono state determinanti nella distruzione duplice dell'Impero bizantino e del Califfato di Baghdad, come del popolamento principale dell'Anatolia e della Tracia orientale. Ma il potere del Sultano dell'Impero si estendeva ben al di là sui territori degli armeni e dei curdi, degli arabi, dei greci e degli slavi dei Balcani. Qualificare questo Impero come multinazionale conduce a una proiezione erronea sul passato di un'altra realtà, i nazionalisti (anti- ottomani) dei Balcani e degli arabi che erano nella loro forma moderna i prodotti della penetrazione del capitalismo nell'Impero.
Tutti i popoli dell'Impero – Turchi e altri – erano sfruttati ed oppressi allo stesso modo; nel senso che le maggioranze contadine erano tutte sottomesse allo stesso principio di un prelievo tributario pesante. Erano tutte ugualmente oppresse dallo stesso potere autocratico. Certo i cristiani erano ovviamente oggetto di discriminazioni particolari. Ma non vanno qui viste forme di oppressione “nazionale”, né verso i popoli cristiani, né verso i musulmani non turchi (curdi ed arabi). La classe dominante associata al potere del Sultano contava tra i suoi ranghi le nobiltà civili, militari e religiose di tutte le regioni dell'Impero, compreso l'embrione delle nuove borghesie compradore in particolare greche ed armene, prodotte dalla penetrazione capitalista.
I caratteri specifici del sistema ottomano qui menzionati non sono propri di questo Impero orientale. Ne ritroviamo delle espressioni analoghe in altri imperi antichi, come negli imperi austro-ungarico e russo. O ancora nell'Etiopia di Ménélik e di Hailé Selassié. Il potere del Re dei Re non era associato a una dominazione Amhara; i contadini Amhara non erano trattati meglio degli altri; la classe dirigente veniva selezionata tra tutte le regioni dell'Impero (c'era per esempio un buon numero di originari dell'Eritrea tra questi).
Niente di simile nei sistemi imperialisti moderni. Gli imperi coloniali (della Gran Bretagna o della Francia) come l'Impero informale degli Stati Uniti sono stati costruiti sistematicamente sulla base della distinzione tra i popoli delle metropoli e quelli delle colonie e delle dipendenze, ai quali erano negati i diritti più elementari riconosciuti ai primi. Di conseguenza la lotta dei popoli dominati dal capitalismo imperialista diventava una lotta di liberazione nazionale, di natura antimperialista per forza di cose. Bisogna quindi fare attenzione dal confondere questo nazionalismo moderno antimperialista – per questo progressista – da tutti le altre espressioni dei movimenti nazionalisti non antimperialisti, che si tratti dei nazionalismi ispirati dalle classi dirigenti delle nazioni imperialiste, o dai movimenti nazionalisti non antimperialisti – come lo è stato quello dei popoli balcanici sui quali ritornerò in seguito. Assimilare le strutture proprie degli imperi antichi e quelle particolari agli Imperi imperialisti del capitalismo, confonderli in uno pseudo concetto generale di “Impero”, si iscrive all'opposto delle esigenze elementari di un'analisi scientifica delle società storiche.
L'emergere delle ideologie dei nazionalismi è successivo. Questi si costituiranno solamente nel 20° secolo, nel Balcani, in Siria, tra gli armeni, e più tardi tra i Turchi di Rumelia come reazione agli altri. Non c'era al tempo il minimo segnale dell'emergere di un nazionalismo curdo. L'emergere di tutti questi nazionalismi è strettamente associato alla nuova urbanizzazione e alla modernizzazione delle amministrazioni. I contadini stessi potevano continuare a parlare nella loro lingua, ignorare quella dell'amministrazione ottomana che non si presentava nelle campagne che per la raccolta dei tributi e per il reclutamento dei soldati. Ma nelle nuove città, e particolarmente tra le nuove classi medie istruite, la padronanza di una lingua scritta diventava una necessità quotidiana. Ed è tra queste nuove classi che verranno reclutate le prime generazioni nazionaliste in senso moderno. Il carattere rurale delle zone di popolamento curdo, come quelle dell'Anatolia centrale turca, spiega la formazione tardiva del nazionalismo turco (kemalista) e ancora più tardivo del nazionalismo curdo.
Un parallelo con l'Impero Austro-Ungarico aiuterà a capire la natura dei processi che finiranno per fare esplodere questi due imperi, quello Austro-Ungarico e quello Ottomano. L'Impero Austro-Ungarico si era costituito prima dell'emergere del capitalismo europeo; ma ne fu il maggiore vicino, e certe sue regioni (l'Austria, la Boemia) si sono ricostruite sulle nuove basi del capitalismo. La nuova questione nazionale è quindi qui emersa nel XIX secolo. Dobbiamo agli austromarxisti (Otto Bauer e altri) una bella analisi di questa dimensione della sfida socialista, come proposte di strategie che considero come le più progressiste alle condizioni dell'epoca: salvaguardare i vantaggi di un grande Stato, ma accelerare la sua trasformazione attraverso degli avanzamenti socialisti (radicali o anche socialdemocratici), costruire un internazionalismo dei popoli fondato sul trattamento politico rigorosamente favorevole, in egual misura, a tutti, associato a un'autentica politica di autonomie culturali. Il seguito degli eventi non ha permesso il successo del progetto, a vantaggio di nazionalismi borghesi mediocri.
I nazionalismi balcanici e siro-arabi, apparsi più tardi e nelle forme mediocri associate al capitalismo periferico delle regioni interessate, hanno trionfato e hanno contribuito a fare scomparire l'Impero Ottomano. Ma la debolezza propria di questi nazionalismi ha costretto i loro sostenitori a cercare il sostegno delle potenze esterne – la Gran Bretagna e/o la Russia in particolare – contro il potere ottomano. Ne hanno pagato il prezzo: i nuovi stati da loro creati rimanevano nel girone delle potenze imperialiste dominanti, Gran Bretagna e Francia per gli arabi, Gran Bretagna e Germania per i Balcani.
In Armenia il rinnovamento nazionale (poiché l'Armenia aveva conosciuto una bella civilizzazione indipendente prima di essere integrata nell'Impero Ottomano) è stato sbaragliato dal genocidio del 1915. Si trattava di un nazionalismo lacerato tra quello della nuova borghesia armena emigrata verso le città della Rumelia (Costantinopoli, Smirne ed altre), che occupava delle posizioni importanti nel nuovo mondo professionale e finanziario, e quello del notabilato e dei contadini delle terre armene. L'integrazione di una piccola parte di queste terre nell'Impero russo (il territorio dell'Armenia sovietica poi indipendente) complicava ancora le cose, poiché poteva fare temere la manipolazione di San Pietroburgo, in particolare durante la Prima Guerra Mondiale. Il potere ottomano ha quindi scelto la via del genocidio. Voglio qui ricordare che i Curdi si sono qui comportati come agenti del massacro e come i beneficiari principali: hanno più che raddoppiato la superficie del loro territorio impadronendosi dei villaggi armeni distrutti.
Il nazionalismo turco moderno è ancora più recente. Si è costituito prima negli ambienti relativamente istruiti dell'esercito e dell'amministrazione ottomani delle città della Rumelia (Costantinopoli, Smirne, Salonicco), in reazione ai nazionalismi balcanici e siro-arabi, senza trovare un vero eco tra i contadini turchi (e curdi) dell'Anatolia centrale ed orientale. Le sue opzioni, che diventeranno quelle del kemalismo, sono conosciute: europeizzazione, ostilità verso l'ottomanismo, affermazione del carattere turco del nuovo Stato e il suo stile laicizzante. Dico per l'appunto laicizzante e non laico, poiché il nuovo cittadino turco si definiva attraverso la sua appartenenza sociale all'Islam (i pochi armeni sopravvissuti al massacro, i greci di Costantinopoli o di Smirne non sono quindi ammessi); ciononostante l'Islam in questione si riduce alla statuto di istituzione pubblica dominata e manipolata dal nuovo potere di Ankara.
Le guerre condotte dai kemalisti dal 1919 al 1922 contro le potenze imperialiste hanno permesso l'adesione al nuovo nazionalismo turco delle masse contadine turche (e curde) dell'Anatolia. I Curdi non si distinguevano allora dai Turchi: combattevano insieme nell'esercito kemalista. Il nazionalismo kemalista turco diventa antimperialista per forza di cose. Capisce quindi che l'Impero Ottomano e il Califfato non proteggevano i popoli dell'Impero (Turchi, Curdi e Arabi); al contrario ha facilitato la penetrazione dell'imperialismo occidentale e la riduzione dell'Impero allo status di regione capitalista periferica dominata. Cosa che nega quello che i nazionalismi balcanici ed arabi dell'epoca non avevano capito: questi fanno apertamente appello al sostegno delle potenze imperialiste contro il potere della Sublime Porta. Il nazionalismo kemalista antimperialista dà quindi il colpo di grazia all'ottomanismo.
Il carattere antimperialista del sistema kemalista delle origini doveva comunque indebolirsi velocemente. L'opzione dell'origine in favore di un capitalismo di Stato a vocazione autocentrata indipendente perdeva respiro a mano a mano che progrediva un modo di sviluppo capitalista periferico dipendente. La Turchia pagava il prezzo dell'illusione del suo nazionalismo borghese, della sua confusione d'origine. Il kemalismo credeva di potere costruire una nazione capitalista turca ad immagine di quella dell'Europa avanzata; non capiva che la realizzazione di questo progetto era votata alla sconfitta, in Turchia come altrove in tutte le regione del capitalismo periferico. La sua ostilità verso il socialismo, aggravata dal timore dell'Unione Sovietica, ha condotto Ankara a cercare il sostegno degli Stati Uniti; la Turchia dei generali kemalisti – come la Grecia dei Colonnelli – ha immediatamente aderito alla Nato, ed è diventata uno degli Stati clienti di Washington. L'accelerazione dei processi di sviluppo del capitalismo periferico si è manifestata attraverso l'emersione di una nuova agricoltura capitalista in Anatolia, a beneficio di una classe di contadini ricchi, e attraverso la messa in opera di industrie di subfornitura.
Queste evoluzioni sociali erodevano la legittimità del kemalismo. Le elezioni pluripartitiche a partire dal 1950, fortemente suggerite da Washington, rinforzavano il potere politico delle nuove classi contadine e compradore, uscite dal mondo rurale anatolico tradizionale ed estranee alla laicità della classe politica kemalista rumeliana. L'emergere dell'Islam politico turco e i successi elettorali dell'Akp ne sono stati il prodotto. Queste evoluzioni non hanno favorito la democratizzazione della società, ma al contrario hanno confortato le aspirazioni alla dittatura del Presidente Erdogan e la rinascita dell'ottomanismo strumentalizzato, come il suo predecessore, dalle potenze imperialiste maggiori, oggi in particolare degli Stati Uniti.
Simultaneamente queste stesse evoluzioni sono all'origine dell'emergere in Turchia della questione curda. L'urbanizzazione dell'Anatolia orientale, l'emigrazione in massa dei suoi contadini rovinati verso le città dell'Ovest, hanno alimentato l'emersione della nuova questione curda in Turchia, con la presa di coscienza che non erano dei “turchi della montagna” ma che si distinguevano per l'uso di un'altra lingua di cui rivendicavano il riconoscimento ufficiale. Una soluzione della questione attraverso l'opzione in favore di un'autonomia culturale autentica del Kurdistan turco sarebbe senza dubbio stata possibile se la nuova classe dominante fosse essa stessa evoluta verso una dimensione democratica. Ma non è stato questo il caso, e non lo è nemmeno oggi. I Curdi sono quindi stati costretti, in certe circostanze, a rispondere alla repressione aspra delle loro rivendicazioni attraverso la lotta armata. È interessante fare notare a questo punto che il PKK che anima questa lotta rivendica una tradizione socialista radicale come indicato dal suo nome (Partito dei Lavoratori Curdo!), associato probabilmente al suo reclutamento tra il nuovo proletariato delle città della Turchia. Si sarebbe potuto immaginare che avrebbe scelto per questo una linea di condotta internazionalista, e che avrebbe tentato di associare il proletariato curdo e turco nella stessa lotta allo stesso tempo per il socialismo, per la democrazia e per il riconoscimento del carattere binazionale dello Stato. Ma non lo ha fatto.
Sebbene il popolo curdo occupi un territorio in continuità (Anatolia orientale, un piccola striscia della lunga frontiera siriana, il nord est dell'Iraq, le montagne dell'Ovest dell'Iran), la questione curda si pone in altri termini in Iran e in Iraq rispetto alla Turchia.
I popoli curdi – i Medi e i Parti (che hanno dato il loro nome al fiume Eufrate) dell'antichità – condividevano con i persiani lingue indoeuropee vicine. Sembra che, forse a causa di questo fatto, la coesistenza dei Curdi e dei Persiani non abbia creato problemi in passato. Qui ancora la questione curda emerge con l'urbanizzazione recente della regione. Per giunta lo sciismo, ufficiale in Iran più che giammai, è ugualmente all'origine del disagio di cui è vittima la maggioranza sunnita dei Curdi d'Iran.
L'Iraq, nelle frontiere definite dal mandato britannico, ha separato i Curdi del Nord-Est del paese da quelli dell'Anatolia. Ma qui ancora si faceva strada la coesistenza dei Curdi e degli Arabi, grazie tra l'altro a un internazionalismo reale di un Partito Comunista relativamente potente nelle città e in seno al proletariato plurinazionale. La dittatura del Baath – caratterizzato da uno sciovinismo arabo – ha purtroppo fatto arretrare i progressi fatti precedentemente.
La nuova questione curda è il prodotto dello sviluppo recente della strategia degli Stati Uniti che si è data l'obiettivo di distruggere lo Stato e la società in Iraq e in Siria, nell'attesa dell'attacco all’Iran. Il discorso demagogico di Washington (senza relazione con la presunta democrazia invocata) dà la priorità assoluta all'esercizio del “diritto delle comunità”. I discorsi dei difensori dei “diritti dell'uomo”, che fanno la stessa scelta e ai quali ho fatto riferimento in questo articolo, cascano quindi a proposito. Il potere centrale iracheno è quindi stato distrutto (dal gaulaiter Bremen dei primi anni dell'occupazione del paese) e i suoi attributi sono stati devoluti a quattro pseudo-stati, due dei quali fondati su delle interpretazioni ottuse e fanatiche delle versioni sciite e sunnite dell'Islam, mentre gli altri due erano fondati sul preteso particolarismo delle “tribù curde” d'Iraq! L'intervento dei paesi del Golfo, che sostenevano – con gli Stati Uniti – l'Islam politico reazionario che ha creato il presunto Califfato di Daesh (l'Isis), ha contribuito al successo del progetto di Washington. È divertente fare notare che gli Stati Uniti sostengono i Curdi d'Iraq in nome della “democrazia”, ma non quelli turchi, alleato importante delle Nato. Due pesi, due misure, come al solito.
I due partiti politici che esercitano i loro poteri sulle particelle differenti del territorio del Kurdistan iracheno sono essi “democratici”, o sono uno migliore dell'altro? Sarebbe ingenuo credere a queste scemenze della propaganda di Washington. Non si tratta qui che di cortesie di politici/capi di guerra (e che dovrebbero arricchirsi attraverso di essa). Il loro supposto “nazionalismo” non è antimperialista; poiché essere antimperialista è combattere la presenza americana in Iraq, e non iscriversi in questa per far avanzare qualche pedina personale.
Non parlerò qui del progetto di dominazione degli Stati Uniti sulla regione, di cui ho analizzato altrove gli obiettivi reali.
L'analisi proposta aiuterà forse a comprendere meglio la natura del (o dei) nazionalismi curdi all'opera oggi, i limiti che loro si impongono ignorando l'esistenza di una lotta antimperialista nella regione, delle riforme sociali radicali che devono accompagnare questa lotta, come l’esigenza della costruzione dell'unità di tutti i popoli interessati (Curdi, Arabi, Iraniani) contro il loro nemico comune: gli Stati Uniti e i loro alleati locali (islamisti o altri).
Parlo di nazionalismo curdo al plurale. Poiché in effetti gli obiettivi dei movimenti (spesso armati) che agiscono oggi in suo nome non sono definiti: un grande Stato pan-Curdo indipendente? Due o tre o quattro o cinque Stati Curdi? Una dose di autonomia all'interno degli Stati? C'è qualche ragione che potrebbe spiegare questo sfarinamento e la vaghezza che lo accompagna? A mio avviso si. Gli Arabi e i Persiani hanno proceduto a una splendida modernizzazione/rinnovamento delle loro lingue rispettive nel 19° secolo, i Turchi l'hanno fatto più tardi, negli anni '20-'30. I Curdi non sono stati posti nelle condizioni che sarebbero state richieste! Non c'è quindi una lingua curda, ma delle lingue certamente vicine, ma sempre distinte e senza dubbio non ancora all'altezza dell'esigenze del loro uso nel mondo moderno. Questa debolezza trova la sua contropartita nell'assimilazione linguistica delle élites, che hanno adottato il persiano, l'arabo o il turco, nel bene o nel male!
Nota
*https://en.wikipedia.org/wiki/Samir_Amin
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa