Le condizioni di un processo apparentemente irreversibile di autodistruzione (*)
Tempi di cambiamento e di disordine
Il mondo si trova in una fase di cambiamento e grande disordine. Il modello del capitalismo neoliberista e la ricetta dell’egemonia nelle relazioni internazionali non funziona da tempo, però la sua inerzia continua ad essere forte e ci porta contro le rocce.
Quest’anno abbiamo avuto tre cambiamenti principali che faranno tendenza:
1) La sconfitta occidentale in Siria (che riflette le tensioni del passaggio dal disordine egemone monopolare a quelle del mondo multipolare).
2) Il cambio di orientamento negli Stati Uniti, con il suggerimento di cambiare l’“America World” con l’“America First” di Trump, il che apre la porta a liti interne nella prima potenza mondiale e a tutta una serie di altri “first´s” nel mondo; “Cina first”, “USA first”, etc.
3) La scomparsa di ogni progetto comune in Europa, fallimento che induce a cercare nemici (Russia) e a incrementare la militarizzazione dell’“Europa della difesa”. (1)
Tutto questo è molto per un solo anno e spiega d’avanzo la vertigine che c’è nell’ambiente.
SENZA PRECEDENTI E IRRISOLVIBILE
“Se l’UE vuole affrontare ciò che la distruggee (vale a dire gli esasperanti referendum e il progresso dell’estrema destra antiliberale), dovrebbe rinnegare se stessa. Se, al contrario, preferisce non fare niente e restare com’è, allora sembra condannata a continuare ad alimentare ciò che la distrugge”. La citazione è da Fréderic Lordon, l’autore che meglio ha descritto la situazione nel dibattito francese. (2)
L’Unione Europea ha perso il grosso delle sue illusioni e miti fondatori. La crisi finanziaria del 2007/2008 ha dimostrato che non è un club democratico di uguali, bensì una costruzione oligarchica e antidemocratica. Il suo disegno degli ultimi trent’anni sotto quel sigillo, i difetti di nascita dell’euro e la nazionalizzazione delle perdite bancarie a spese delle classi medio basse, si sono abbattute sulla promessa di prosperità e giustizia che era alla base del discorso europeista e della sua narrazione narcisista.(3)
Il disincanto è evidente, specialmente nell’Europa del Sud, antica beneficiaria di fondi di coesione, ma pure, e sicuramente ancora di più, nell’Est, la cui integrazione nell’UE è stata un fallimento in termini economici e politici.
Nel Sud, l’Europa dei fondi di coesione, la modernità e le “infrastrutture” ha ceduto il passo all’Europa dei tagli nelle loro più dure modalità.
Nell’Europa dell’Est dopo 27 anni di vita europea (più della metà del tempo passato sotto il giogo sovietico) l’evidente guadagno d’ossigeno che la società aveva ottenuto con l’uscita dalle dittature sociali ha perso lucentezza a causa del ritorno dall’ex blocco allo statuto di periferia subordinata e dipendente che aveva nel periodo tra le due guerre: riserva di mano d’opera a basso costo e completa dipendenza finanziaria e industriale. Non c’è un barlume di convergenza economica e sociale livellatrice con l’Europa Occidentale, e, a differenza del Sud, nemmeno di fondi di coesione. (4)
Nel Nord c’è abbondanza e una evidente animosità verso quelli del Sud che hanno le mani bucate: “Vendete le vostre isole”, dice il Bild tedesco, mentre si compra a prezzo di saldo gli aeroporti greci più succosi obbligati a privatizzarsi.
Tutto questo mantiene, ovviamente, una relazione diretta con l’incompatibilità generale della logica di mercato con la livellazione sociale e territoriale -il sistema capitalista è intrinsecamente disuguale- però nel caso del particolare sistema UE si parte da una contraddizione essenziale: la democrazia e la sovranità popolare risiedono negli stati nazionali, però nell’UE quasi tutto ciò che conta rimane fuori da quel contesto:
-Le banche centrali sono “indipendenti”, la moneta comune impedisce aggiustamenti e svalutazioni, i ministeri dell’economia sono meri esecutori di direttive decise nella UE, OMC [n.d.t.WT0], e FMI…
-Il diritto europeo ha maggior rango di quello nazionale, malgrado sia carente di un fondamento democratico: è legale, ma non legittimo.
-E la politica estera e di difesa viene inquadrada da una strategia (americana) organizzata attraverso la NATO che è non solo esterna alla nazione, ma alla stessa UE.
Che rimane alla sovranità popolare, al soggetto che vota nelle elezioni nazionali? Molto poco. E per di più, questa espropriazione è stata santificata, blindata in norme e trattati per renderla irreversibile.
Il maltrattamento della Grecia, castigata la sua società con un programma di austerità ancora più stretto per aver rifiutato quello precedente con un referendum, ha offerto l’ultimo esempio di disprezzo della volontà popolare. La Brexit ha dimostrato la stretta gerarchia e disiguaglianza di trattamento, perchè la volontà popolare espressa dal referendum britannico (molto più comoda di quella greca), sì che è stata riconosciutaa, anche se di malavoglia.
“Non ci può essere opzione democratica contro i trattati europei”, ha detto Jean-Claude Juncker. (5)
Che razza di club è quello dal quale non si può uscire, nè proporre riforme ai suoi statuti, senza provocare convulsioni e minacce? Manifestamente non solo un club difettoso nella sua impostazione, ma anche autoritario. Questa storia del disprezzo dei referendum ha già 24 anni e 9 consultazioni a suo carico. (6)
BALCANIZZAZIONE
È l’ora della balcanizzazione. Ovunque si assiste a una disintegrante frammentazione. La Brexit (UK first) è stato un anticipo del contagioso “America First” di Donald Trump, però il processo già aveva una sua propria dinamica interna non solo nelle nazioni dell’UE -e persino all’interno dei suoi stessi stati in alcuni casi- ma anche nei suoi conglomerati e club informali.
I paesi del Sud tengono timidi vertici in cui i loro timorosi dirigenti, del momento, mettono in comune la loro impotenza. Nell’Est, s’incrementa la concertazione di club come quello di Visegrado (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Nel Nord, con centro a Berlino -senza dubbio il club più di rilievo e discreto- si danno numeri circa l’idea di una Kerneuropa, l’Europa di matrice luterana e virtuosa, separata dalla zavorra. I numeri non escono e la conclusione continua ad essere la stessa segnalata nel 2012 dai documenti interni del Ministero delle Finanze tedesco: al momento non conviene. Di tutti i “first” europei, il “Kerneuropa first” della Germania e dei suoi compagni di fede nella “regola d’oro” e il principio, “per l’esportazione verso la Dio-crescita ”, è sicuramente il più rilevante…
Se la tesi del dilemma irrisolvibile è corretta, il vettore di questa balcanizzazione è inequivocabile: lo smembramento è solo questione di tempo.
SICUREZZA: INTEGRARE O ESCLUDERE
In materia di sicurezza e relazioni internazionali, la situazione è ovvia: quando bisogna inventare qualcosa di nuovo e condiviso tra gli attori della multipolarità per affrontare le sfide del secolo (agire contro il riscaldamento globale, diminuire la disuguaglianza e affrontare il disarmo della sempre più generalizzata capacità di distruzione di massa), in Occidente constatiamo la persistenza di tutta una generazione politica (e la rete degli esperti al suo servizio) formata nella vecchia egemonia e senza esperienza e nemmeno ricordo dell’essenza dell’azione diplomatica e del multilateralismo.
Dopo settant’anni di facile dominio, gli Stati Uniti sono molto mal preparati per quel cambio di atteggiamento che la realtà del mondo multipolare esige. Scontrandosi con la Russia in Occidente e la Cina in Oriente, ha suscitato l’avvicinamento tra quei due paesi, che non desiderano un ritorno alla logica dei blocchi ma che, al medesimo tempo, ormai si dichiarano disposti ad opporsi militarmente all’assedio delle loro frontiere più immediate (Ucraina/Mar della Cina meridionale). Si constata la forza d’inerzia di tutta quella gente (nella politica, i think tanks e i mezzi di comunicazione) aggrappata alla politica del castigo militare, delle sanzioni, del disprezzo del diritto internazionale e all’invocazione fraudolenta –in quanto selettiva e truffaldina- dei diritti umani come argomento d’ingerenza e guerre. (7)
Vari stati sono stati già dissolti e sostituiti da buchi neri, principalmente in operazioni occidentali di cambiamenti di regime in Medio Oriente, con il risultado di centinaia di migliaia di morti. (8)
In Europa quella stessa tendenza ha contribuito a esacerbare i drammi dello smembramento della Yugoslavia e la proliferazione di conflitti e tensioni militari nel continente: Croazia, Bosnia, Serbia, Kossovo, Macedonia, Transnistria, Abkazia, Ossezia e Donnbas.
Nel contesto di grave crisi interna nell’UE, quando c’è un’urgente necessità di trovare “spiegazioni” a tutto ciò, è estremamente pericolosa la ricerca di nemici praticata da Bruxelles, con la Russia nel mirino. (9)
Es necessario fare mente locale e ricordare l’alternativa integrare/escludere della storia europea.
Dopo le guerre napoleoniche i vincitori coinvolsero la Francia sconfitta nelle decisioni, e questo aprì un lungo periodo di pace e stabilità continentale. L’esempio contrario è quello che si è fatto con la Germania post-guglielmina dopo la prima guerra mondiale e pure con la Russia bolscevica dopo la Rivoluzione del 1917. In entrambi i casi, le politiche di esclusione -e di forte interventismo militare nella guerra civile russa- ebbero conseguenze nefaste per ciò che poi furono il nazismo e lo stalinismo.
Ciò che abbiamo visto nei confronti della Russia in Europa dalla fine della guerra fredda è un nuovo avvertimento sui pericoli di escludere una grande potencia dalle decisioni e trattarla a base d’imposizioni e sanzioni.
L’integrazione dell’ex blocco dell’Est è stata fatta in modo fraudolento. Dall’agenda occulta dell’espansionismo della NATO, tradendo gli accordi taciti raggiunti con Mosca in cambio della sua ritirata imperiale, è stata offerta a quei paesi l’entrata in un blocco militare antirusso come anticamera dell’ingresso nell’UE. (10)
Per trent’anni, quel processo d’infilare un dito nell’occhio all’orso russo ha creato tensioni artificiali che sono andate accumulandosi. Quando quelle tensioni sono esplose militarmente, la reazione instintiva dell’orso, che è stata denunciata como dimostrazione dell’aggressività della Russia, della cattiveria del suo dirigente (un nazionalista di destra, popolare nel suo paese per averlo stabilizzato, senza aver redistribuito rendita petrolifera nè rivisto la criminale privatizzazione degli anni novanta) o della sua mitica volontà di “ricostruire l’URSS”. La denunciata “aggressività” russa, in realtà un riflesso difensivo largamente annunciato e ignorato, è stata una profezia indotta e che si avvera. (11)
Per rimediare a questo è imprescindibile che l’Europa eserciti l’indipendenza strategica e si organizzi un sistema di sicurezza continentale, libero dalla logica dei blocchi e nel quale la sicurezza di ciascuno non si costruisca a spese della sicurezza di altri. Cioè: applicare esattamente l’intenzione che è stata sottoscritta nel novembre del 1990 con la Carta di Parigi per una nuova Europa dell’OSCE.
Per arrivare a una cosa così è imperativo sciogliere la NATO come blocco militare. Però, quale politico dell’establishment europeo attuale assumerebbe oggi quella causa nelle instabili condizioni attuali, quando lo stesso comando della NATO si dedica a seminare quell’instabilità promuovendo la tensione con la Russia per giustificare la propria esistenza?
I due politici che in Germania e in Francia parlano di quello e gridano contro il vettore della guerra -Oskar Lafontaine e Jean-Luc Mélenchon- hanno un’intenzione di voto tra il 10% e il 15%… Perciò vedo una grande necessità e una scarsa possibilità.
Ma immaginiamo che l’UE arrivi ad essere un polo autonomo e sovrano nel mondo con la grande potenza e influenza mondiale che si deduce dai suoi parametri fondamentali della popolazione, PIL e potenza culturale e militare. La domanda che s’impone è: tutto questo per fare cosa? Per contribuire a che mondo? Continuare a fare sovranamente quello che si è fatto fin’ora in qualità di “aiutante dello sceriffo” significa contribuire in modo più concreto ed autonomo al disastro, alla prospettiva degli imperi combattenti. Avere per esempio un esercito europeo integrato per poter fare la guerra in Siria, in Libia, in Ucraina, etc.
La mia conclusione è che se l’Europa risultasse incapace di elaborare un progetto d’azione esterna in sintonia con le sfide del secolo, bisogna dirlo con chiarezza: è meglio che non esista come grande potenza, che sia un conglomerato il più debole possibile per ridurre la sua capacità di fare danni.
L’ASSE FRANCO-TEDESCO NON ESISTE
Per molti anni una Germania che vedeva nell’Europa l’unica possibilità di recuperare la propria sovranità e una Francia che aveva timore a lasciarla sola, hanno formato il grande asse fondante d’interesse comune dell’Unione Europea. In quell’epoca di fondazione, in entrambi i paesi la destra difendeva politiche economiche e sociali che oggi sarebbero considerate di “sinistra radicale”.
In Francia l’ispirazione sociale del gollismo era il programma del Consiglio Nazionale della Resistenza del marzo 1944. In Germania l’Economia sociale di mercato era la dottrina della coalizione dei cristiani ed ex nazisti della CDU con cui si evocava l’alternativa dell’altra Germania, la RDA, con il suo miscuglio di socialismo e dittatura che metteva l’assistenza e la livellazione sociale al centro del suo progetto.
Quella base storica dell’asse ormai non corrisponde al mondo di oggi.
Da quando la Germania ha recuperato la sua piena sovranità con la riunificazione nazionale del 1990 e l’annessione della RDA da parte della RFA, la sua visione dell’UE è cambiata. L’Europa non era più la soluzione all’handicap ereditato dal disastro nazista, bensì il primo spazio sul quale proiettare la sua sovranità dominante.
È scomparsa la generazione politica di quelli che hanno vissuto la guerra: Brandt, Kohl e Schmidt.
È stata iniziata la riabilitazione del nazionalismo tedesco in termini completamente nuovi e impensabili nella fase precedente (12)
E il quadro generale di questo cambiamento nei rapporti franco-tedeschi non è una “economia sociale di mercato” / Consiglio nazionale della resistenza con lo sfondo della paura del “comunismo”, bensì la dottrina neoliberista, cioè: la demolizione programmata e sostenuta delle conquiste sociali vigenti dal dopoguerra.
In quel contesto di salita nazionalista e finanziando con due miliardi di euro l’annessione della RDA, la Germania ha imposto al resto del club europeo la sua strategia nazional esportatrice, completamente mancante di qualsiasi desiderio di sovvenzionare i soci. Via dumping salariale, tutto ciò che era tedesco è diventato più competitivo di fronte ai (e a spese dei) suoi soci. Il denaro che è stato generato dalla sua eccedenza commerciale è stato investito. Negli anni novanta investire era, in gran parte, finanziare bolle immobiliari che trovavano il terreno più fertile in paesi con grande corruzione e pessimo governo come la Spagna.
Quando questo è esploso mettendo in pericolo i fondi pensione tedeschi e le banche, i politici germanici hanno dato a vedere che loro non avevano niente a che fare con quella storia, che era tutta colpa di una serie di “Pigs” meridionali con le mani bucate che mancavano di riforme. Cioè: hanno offerto una spiegazione nazionale in linea con l’ortodossia neoliberista a un problema sistemico internazionale.
La cancelliera che ha governato tutto questo con ottusità, Angela Merkel, ha danneggiato seriamente i tre pilastri che avevano riabilitato la politica tedesca dopo la Seconda Guerra Mondiale: lo Stato sociale, l’integrazione dell’Unione Europea e la politica di distensione verso la Russia conosciuta come Ostpolitik. Il fatto che, malgrado ciò, la Merkel passi per essere la grande leader continentale riassume molto bene la situazione nell’UE, ma soprattutto dimostra che ci troviamo di fronte a un’altra Germania. (13)
E la Francia? Nel 1983 Mitterrand ha rinunciato alla politica del programma comune della sinistra con cui aveva vinto le elezioni del 1981, un programma nazionale di trasformazione, per abbracciare la linea europeista neoliberista sopra descritta. A differenza della Germania, la Francia non aveva alcuna strategia economica nazionale propria. La moneta comune fu salutata da Mitterrand come meccanismo per evitare sorprese tedesche ma si è rivolta contro la Francia. Tutto il terreno guadagnato dall’esportazione tedesca nell’ultimo periodo corrisponde, aprossimatamente, a quello perduto dai soci europei, con la Francia in primo luogo.
I politici francesi sono diventati subalterni della linea tedesca. Il giornalista Romaric Gordin descrive la situazione come, “una specie di Vichy postmoderna”. “In Europa, la Francia serve solo come socio collaborazionista della Germania”, dice. Sotto questa collaborazione la vita sociale francese e la convivenza interna si sono degradate.
Stranamente, in Francia non si conosce molto bene la Germania. È un paese associato a brutte esperienze storiche che mai ha interessato troppo. Magrado il sistema educativo promuova intensamente l’insegnamento del tedesco, è significativo che si studi molto più lo spagnolo (4 miloni di alunni contro mezzo milione). Su questo misconoscimento e disinteresse, si è imposta, con l’aiuto dei mass media, la leggenda che in Germania tutto va bene, persino molto meglio che in Francia. In quel contesto si è fatta strada, sordamente, a livello popolare, non nelle élites, l’idea che nel matrimonio attuale, la Germania è il maschio e la Francia la moglie maltrattata. Prende forza l’idea che non siamo più di fronte a un matrimonio in crisi, ma davanti a un caso di violenza di genere. C’è una soluzione?
PIU’ EUROPA O DECOSTRUZIONE ORDINATA
La mia impressione è che Fréderic Lordon abbia ragione quando parla di una situazione chiusa nella quale eliminare ciò che sta distruggendo il sistema dellUnione Europea passerebbe per la negazione dello stesso sistema.
La riflessione può applicarsi alla Germania: non sarà capace di fare marcia indietro senza che la sua classe politica, i suoi mass media, tutto il suo establishment neghi se stesso dicendo: “quello che abbiamo fatto fin’ora è un errore madornale”.
È immaginabile che la Francia sia in grado di convincere la Germania a rinunciare all’europeizzazione della sua strategia economica nazionale per esempio smantellando l’euro e tornando al Sistema Monetario Europeo, SME (come propone Oskar Lafontaine), la regola d’oro dei deficit di bilancio o lo statuto della BCE? Mi pare di no, perciò siamo di fronte a qualcosa che somiglia a un processo irreversibile di autodistruzione.
In Francia c’è la sensazione che sempre più gente pensi, a sinistra e a destra, che l’unico modo di cambiare l’Europa è cominciare a cambiare la Francia. Logicamente tenendo conto dell’assenza di un “demos” europeo, soggetto della sovranità, e la forza della tradizione sociale francese. Senza aspettare un coordinamento automatico tra paesi, quel ritorno agli stati nazionali, cioè al contesto della sovranità popolare, è quello che a lunga scadenza potrebbe sfociare in una ridefinizione del progetto europeo. Il problema è che, oggi come oggi, quel ritorno allo stato nazionale lo sta capitalizzando l’estrema destra. Anche in Francia.
Mi pare che uno degli scenari che ha più futuro nell’Europa di oggi (“presente” se si sta a quello che stanno facendo i toryes nel Regno Unito) è quello della “lepenizzazione della Goldman-Sachs”: una sintesi e un’intesa tra l’estrema destra e l’establishment neoliberista.
Ma, benchè l’estrema destra stia capitalizzando questo ritorno allo stato nazionale, ciò non vuol dire che una soluzione decente alla crisi europea (sociale, ecologista e internazionalista e in linea con le sfide del secolo) non passi per quel vettore di ritorno. I passi indietro, ciò che Lordon definisce come un processo ordinato di decostruzione dell’Unione Europea, per uscire dal pantano, saranno una soluzione più efficace del più Europa e più federalismo autoritario la cui ultima risorsa è la guerra che presuppone l’“Europa della difesa”.
Dappertutto si risponde all’idea di quel ritorno agli stati nazionali con l’anatema: “isolamento”, “ripiego”, “nazionalismo escludente”, “fascismo”, però le nazioni d’Europa hanno vissuto in pace e creato cose come Airbus e il programma Erasmus per molti anni senza moneta unica e senza l’ingessatura degli attuali trattati. Alcuni dei paesi europei più prosperi (Islanda, Norvegia o Svizzera) non sono neanche membri dell’UE. Molti altri non partecipano all’euro, senza che questo li trasformi in qualcosa anche solo remotamente simile a emarginati dalla globalizzazione. Sicchè, se si vogliono mettere al centro del progetto europeo altre cose diverse dalla libera circolazione delle merci/ capitali e i benefici oligarchici che hanno dominato e rovinato tutto negli ultimi decenni, una disintegrazione certa mi pare ineludibile.
Per rimediare alla situazione il primo passo è dissacrare l’Unione Europea, farla scendere dall’altare e collocarla alla portata di una critica realista.
MORTI VIVENTI, LA SOCIETA’ DELLE NAZIONI
Che può succedere se manca questa decostruzione ordinata che permetta di riformulare il progetto Europa a lunga scadenza? Continuerà quello che abbiamo ora: il crollo graduale dell’attuale UE.
In quello scenario l’UE diventerebbe una specie di morto vivente sempre più privo di rilievo a tutti gli effetti. Potrebbe essere un po’ come la Società delle Nazioni, antenata dell’ONU. Ricordate? Anche quella è nata da un buon proposito, nel 1919, per imporre la pace tra gli europei ed ha finito per essere uno strumento degli interessi degli imperi coloniali occidentali.
La Società dele Naioni è stata completamente inoperante nella genesi della Seconda Guerra Mondiale, il riarmo tedesco e l’invasione giapponese della Cina, e quando è stata sciolta nell’aprile del 1946 nel panorama di un’Europa e un Giappone in rovine, nessuno ne ha sentito la mancanza perchè era già morta da tempo.
(*) Questo testo segue le note della conferenza “Crisi dell’asse franco-tedesco, terminale o recuperabile?” pronunciata il 26 gennaio nel Palau Macaya di Barcelona su invito del Consell Català del Moviment Europeu.
NOTE
(1) Vedere le previsioni per il 2017 del LEAP, raro think tank europeista indipendente che si fa notare per il suo critico realismo. In: GEAB, 111. 15/01/2017.
(2) Per la posizione di Lordon, vedere qui e qui i suoi due articoli fondamentali.
(3) Sulla narrazione narcisista dell’UE e la sua legittimazione, contrastata dalle realtà della storia europea, vedere: Europa, si fa o si disfa?
(4) L’evoluzione dell’opinione negativa sull’UE è rivelatrice: 71% in Grecia, 61% in Francia (24 punti in più del 2007), 41% in Spagna (34 punti in più del 2007) e 39% in Italia (23 punti in più del 2007). Vedi Pew Research Center, giugno 2016. Per il fallimento dell’integrazione dell’ex blocco dell’Est: Joachim Becker, Europe´s other periphery. NLR, maggio/giugno 2016. La delusione che riflettono le inchieste del BERD nell’Est è ancora più notevole: Nel gruppo di Visegrado, quello più di successo dell’ex blocco, la misurazione del miglioramento o meno della vida rispetto al 1989 divide a metà cechi, slovacchi e polacchi, mentre l’80% degli ungheresi pensano che le cose siano peggiorate. In Romania alcune inchieste hanno dato un appoggio fino all’80% allo stato della situazione sotto il regime di Ceaucescu, uno dei peggiori del blocco alla fine degli anni ottanta.
(5) In Le Figaro, 29/01/2015.
(6) Qui la serie completa (percentuali dei partecipanti):
-1992: il 50,7% dei danesi hanno votato contro il Trattato die Maastricht. Li hanno fatti tornare a votare.
-2001: il 53,9% degli irlandesi votano contro eil Trattato di Nizza. Li hanno fatti tornare a votare.
-2005: il 55% dei francesi e il 61% degli olandesi rifiutano il trattato costituzionale europeo. Non li hanno fatti tornare a votare (troppo rischioso) e si include l’essenza di quanto rifiutato nel Trattato di Lisbona, due anni dopo.
-2008: il 53,4% degli irlandesi tornano a votare contro quello che ora si chiama Trattato di Lisbona.
-2015: Referendum greco contro l’austerità (61,3%). Gliene impongono ancora di più.
-2016: Il 61,1% degli olandesi rifiutano l’accordo di associazione dell’UE con l’Ucraina.
-2016: Brexit (51,9%)
-2016: 59,4% degli italiani rifiutano la riforma costituzionale.
(7) In Siria siamo tornati a vedere in azione quella coalizione di falchi militaristi, giornalisti, e difensori dei diritti umani ben intenzionati che chiedono più guerra.
(8) Questo è il sommario bilancio:
-Afganistan: 15 anni di guerra (per non dire 30, se includiamo i sovietici), 230.000 morti / i talebani continuano ad essere forti/ catastrofe della sicurezza e assenza di migliormento delle condicioni di vita. Al Qaeda nasce lì.
– Irak: 13 anni di guerra/un milione di morti/ divisione del paese in tre pezzi e condizioni di vita peggiori che con Saddam. Lo Stato Islamico nasce lì.
-Libia: 5 anni di caos/ 40.000 morti/ paese diviso in tre e condizioni di vita peggiori che con Gheddafi. Ulteriore destabilizzazione delll’Africa subsahariana.
-Siria: 5 anni di guerra / 350.000 morti/ probabile divisione in due o tre pezzi/ Situazione generale molto peggiore di prima della ribellione.
(9) La risoluzione del Parlamento Europeo del 14 ottobre 2016, accusa i mass media russi di mettere in pratica, su scala molto minore, verso l’UE (con l’obiettivo di “indebolire la coerenza della politica estera dell’Unione”), le stesse cose che i mass media occidentali fanno con la Russia da sempre, illustrare il naufragio europeo in alcuni media russi, come il canale RT, che hanno migliorato la loro influenza in Occidente, contribuendo a un pluralismo di propaganda. La risoluzione colloca la minaccia della propaganda russa insieme a quella dello Stato Islamico ed è un attacco molto significativo al pluralismo informativo.
(10) Per una cronaca dei termini dei negoziati che misero fine alla guerra fredda in Europa, vedi R. Poch-de-Feliu, La rottura ottimista dell’ordine europeo, in La Gran Transición. Russia 1985-2002. Barcelona Crítica 2003.
(11) Il discorso di Putin alla Conferenza della Sicurezza di Monaco del 10 febbraio 2007, dieci anni fa, è stato la più chiara espressione della posizione della Russia. Per una lettura interna del machismo estero di Putin e i rischi dello “scenario 1905” per il suo regime, vedi: Rusia, riesgos y agravios.
(12) Il segretario generale della CDU, Volker Kauder, può, per esempio, vantare ora che “l’Europa parla tedesco” e ricevere per questo un’ovazione in un congresso del suo partito. Brandt, Kohl e Schmidt, mai si sarebbero permessi tale licenza.
(13) Su questo vedi, Poch-de-Feliu/Ferrero/Negrete: La Quinta Alemania. Un modelo hacia el fracaso europeo. Icaria, Barcelona 2013.
Da http://rebelion.org/noticia.php?id=222401
(traduzione di Rosa Maria Coppolino)
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