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Dai Cie al decreto Minniti: ecco la “sinistra” che odia i poveri

L’ultimo provvedimento in materia sicurezza del governo Gentiloni è in perfetta sintonia con il solco tracciato in questi ultimi 15 anni da un centrosinistra che ha inseguito la peggior destra populista. Misure securitarie e liberticide che non fanno altro che prendersela con gli ultimi: migranti, rom ed emarginati.

In un’intervista pubblicata pochi giorni fa dall’edizione locale del Corriere della Sera, l’assessore bolognese Matteo Lepore ha fatto molto arrabbiare i suoi colleghi di partito affermando che gli elettori non vedono più la differenza tra il Pd e gli altri partiti di centrodestra come Lega Nord e Forza Italia.

Non è chiaro se l’esponente democratico parlasse di un problema solo ideologico oppure si riferisse a questioni molto pratiche, dal momento che sono ormai vent’anni che, nonostante programmi elettorali nominalmente dalla parte dei segmenti più deboli della società, illustri esponenti del centrosinistra, quasi tutti oggi iscritti al Pd, hanno dichiarato guerra ai poveri e agli emarginati a suon di provvedimenti legislativi ed ordinanze.

Oggi fa discutere il decreto Minniti. Il ministro degli Interni democratico ha preparato una legge sulla sicurezza da fare invidia a quella targata Maroni e Berlusconi del 2009.
Il nuovo decreto, in realtà, è solo la ciliegina sulla torta di un processo che è cominciato nel 1998, quando due attuali esponenti del Pd scrissero una legge da molti ritenuta spaventosa: la Turco-Napolitano.

La detenzione amministrativa per migranti

Con l’obiettivo dichiarato di riordinare la materia dell’immigrazione, l’attuale presidente emerito della Repubblica e l’ex ministra delle Solidarietà Sociale firmarono una legge che introdusse i Cpt (Centri di Permanenza Temporanea), gli antenati dei Cie: veri e propri centri di detenzione per migranti in attesa di espulsione.

Per la prima volta nell’Italia repubblicana si sanciva la reclusione di persone che non avevano commesso reati penali, ma erano semplicemente sprovvisti di un documento. E le modalità del trattenimento hanno fatto assomigliare queste strutture a veri e propri lager etnici.

Sebbene l’articolo 14 della legge, quello che istituiva i centri, affermasse anche che “Lo straniero é trattenuto nel centro con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità. (…) È assicurata in ogni caso la libertà di corrispondenza anche telefonica con l’esterno”, la realtà dei fatti si è dimostrata ben diversa.
Numerose inchieste, in diversi Cpt sparsi per lo Stivale, hanno certificato che i migranti reclusi erano oggetto di pestaggi, condizioni igienico-sanitarie indecorose, fino a sedazione non consapevole con farmaci mischiati agli alimenti.

La stagione dei sindaci-sceriffo

Il livello statale, però, non fu l’unico su cui agirono esponenti del centrosinistra in questa guerra ai poveri. Per tutto il primo decennio del secolo, in tantissime città italiane amministrate dal centrosinistra, fioccarono provvedimenti e ordinanze contro le fasce più emarginate della popolazione: mendicanti, lavavetri, clochard, tossicodipendenti e migranti.
Uno degli esempi più simbolici riguarda Padova, dove nel 2006 il sindaco dem Flavio Zanonato, ordinò la costruzione di un muro per separare la città dal ghetto di via Anelli.
Il muro, per quanto simbolico, non fu l’unico elemento urbanistico messo in campo per scoraggiare la presenza di indigenti.

In quegli anni fiorì una vera e propria architettura ostile su e giù per il Paese. Dalle panchine con braccioli per impedire ai clochard di sdraiarsi alla chiusura o rimozione di fontanelle pubbliche, dalle toilette a pagamento nelle stazioni agli spuntoni metallici davanti ai portoni per impedire il bivacco: stratagemmi per allontanare il degrado – questa la parola più utilizzata in quegli anni – rappresentato dagli individui più poveri.

Nel novembre del 2009, a Firenze, il sindaco della città, un certo Matteo Renzi, firmò un’ordinanza anti-accattonaggio che vietava di chiedere l’elemosina in molti luoghi e, non potendo vietare in toto la questua, la consentiva solo in alcune zone purché non fosse “aggressiva”, cioè non disturbasse i cittadini “normali”. La pena ai trasgressori, in un paradosso implicito, era una multa da 80 a 480 euro.
Lo stesso Renzi, però, era già intervenuto l’anno precedente sul tema dei lavavetri fermi ai semafori con un’ordinanza che prevedeva sempre multe e allontanamenti.

Il tema dei lavavetri fu molto caro ai sindaci-sceriffo, come furono ribattezzati in quella stagione politica. E nei primi cittadini di centrosinistra si registra una sorta di primato. Appena insediato, il neo-sindaco di Bologna Sergio Cofferati dichiarò guerra ai lavavetri, arrivando ad ipotizzare che dietro di loro ci fosse il racket. Un’inchiesta della Procura di Bologna sul tema fu archiviata perché non riuscì a trovare riscontri.

Cofferati invocò fortemente più poteri al Ministero, presieduto allora da Roberto Maroni. E fu accontentato. Nel frattempo, preconizzando uno slogan di Matteo Salvini, fece rombare le ruspe contro baracche e insediamenti di fortuna abitati da disperati sull’argine del fiume Reno.

L’accoglienza disincentivante

L’accanimento contro i poveri dell’ex sindacalista, che curiosamente oggi si colloca a sinistra del Pd, fu però più organico e strutturale. La giunta Cofferati postulò e realizzò la “accoglienza disincentivante”, un’espressione ossimorica che si tradusse con una riorganizzazione (e numerosi tagli) dei servizi sociali, al fine malcelato di escludere e allontanare dalla città gli indigenti.
Fin dal suo insediamento, nel 2004, Cofferati sostenne che Bologna era una città troppo tollerante e accogliente e che, se lo fosse stata meno, non si sarebbe dovuta accollare il peso dell’assistenza a senza tetto provenienti da altre città.

Nel 2007 la vicesindaco Adriana Scaramuzzino affermò pubblicamente che i dormitori pubblici sarebbero stati a pagamento. Una sorta di selezione per privilegiare una “elite” tra i clochard.
In questo clima anti-poveri, lo stesso anno Mariano Tuccella, un homeless noto in città, fu pestato a sangue in strada da due ragazzini, agonizzò in coma alcune settimane e morì.

Il cambio di passo, però, si registrò con la riforma del decentramento dei servizi. Anche in questo caso il proposito era nobile: avvicinare i servizi comunali ai cittadini trasferendo competenze ai Quartieri.
La traduzione concreta fu il vincolo della residenza per l’accesso ai servizi sociali, con la conseguenza che chi non era residente (i senza dimora) incontrava grosse difficoltà ad usufruirne. Parallelamente furono tagliati servizi a bassa soglia: il drop in che distribuiva metadone ai tossicodipendenti, la mensa dei poveri di via del Porto, l’asilo notturno di via Lombardia e un laboratorio informatico destinato ai clochard.

Il 5 gennaio del 2011, con la città commissariata e guidata da Anna Maria Cancellieri, la riforma del decentramento mostrò l’effetto più nefasto. Devid Berghi, un neonato di pochi giorni, figlio di una coppia che, insieme ad altri due figli, trovava riparo diurno nella centralissima biblioteca Sala Borsa, morì di polmonite e di freddo.
A produrre la tragedia fu anche e soprattutto un cortocircuito burocratico. Il Quartiere Santo Stefano aspettava la documentazione del Quartiere San Donato sull’affido dei primi due figli della coppia. Il Quartiere Saragozza scrisse al Santo Stefano per segnalare la presenza in Sala Borsa della famiglia con i tre figli ma, come spiegò l’amministrazione commissariale, “non risulta che in seguito ci sia stato l’intervento dei servizi sociali”.

Il Piano Casa

La guerra ai poveri, però, è continuata anche a livello nazionale ed ha avuto un nuovo apice nel 2014 con il Piano Casa.
Se è vero che la stesura fu in capo a Maurizio Lupi, ex ministro di Ncd, ora Ap, il premier Renzi e il gruppo parlamentare del Pd avallarono il decreto.
L’ormai famoso articolo 5 della legge, oggi messo in discussione, recita: “Chiunque occupa abusivamente un immobile ai sensi dell’articolo 633, primo comma, del codice penale, non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge”.
Una misura che ha generato numerosi contenziosi, dubbi di costituzionalità e persino inchieste giudiziarie.
Ancora a Bologna, l’attuale sindaco Virginio Merola fu oggetto di indagine giudiziaria, poi archiviata, per aver disposto il riallaccio dell’utenza idrica in due occupazioni abitative cittadine in cui erano presenti minori.

I provvedimenti xenofobi

L’altro fronte caldo italiano ed europeo, i flussi migratori, non ha mancato di registrare prese di posizione e provvedimenti discutibili di amministratori locali di centrosinistra. Se le barricate anti-profughi dei cittadini di Gorino, nel ferrarese, hanno avuto un risalto nazionale diventando simbolo di xenofobia, non altrettanto clamore ha fatto il gesto di Raffaele Scarinzi, sindaco dem di Vitulano (provincia di Benevento), che non molto tempo fa fece scaricare camionate di terra sulla strada dalla quale dovevano transitare alcuni richiedenti asilo inviati dalla Prefettura per raggiungere una struttura sul territorio comunale.

Pochi mesi prima il sindaco di Ventimiglia, Enrico Ioculano, firmò un’ordinanza che vietava alla popolazione di dare da mangiare o da bere ai migranti che speravano di varcare la frontiera con la Francia.
Fastidio dal sapore xenofobo, inoltre, è trapelato dalle dichiarazioni di Dario Nardella, attuale sindaco di Firenze, che pochi giorni fa lamentava un’eccessiva presenza di cittadini di origine straniera negli alloggi popolari.

Il decreto Minniti

Oggi si discute del decreto Minniti sulla sicurezza. Il provvedimento arriva dopo l’intervento sui migranti, in cui viene recepita l’idea del Guardasigilli Andrea Orlando, oggi candidato della sinistra nel congresso Pd, che limita le garanzie per i richiedenti asilo. La misura riduce da due a uno il numero dei ricorsi che un richiedente asilo può presentare in tribunale qualora la sua domanda di protezione fosse stata respinta dalla commissione territoriale. Inoltre ripropone, con una formulazione leggermente differente, la detenzione amministrativa alla base dei vecchi Cpt e Cie, ora Cpr.

Il decreto sicurezza, invece, allarga lo spettro a tutti i settori della diversità sociale considerata deviante, consentendo ai sindaci di disporre l’allontanamento e il divieto di accesso nei centri cittadini di tutti coloro che discrezionalmente vengono ritenuti un problema per il decoro urbano, oltre a multe pecuniarie per i medesimi.

Alle critiche avanzate da molti, Roberto Saviano in primis, il ministro replica che il provvedimento non sarebbe di destra perché “non aumenta le pene e non introduce nuovi reati”. Eppure l’allontanamento di persone è di per sé una pena. È quanto avveniva con il confino su base politica o etnica. Su questo versante la formulazione della legge è generica e ambigua, proprio per lasciare massima discrezionalità ai sindaci. Gli interventi sono “diretti a prevenire e contrastare situazioni che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi o di illegalità”, quali spaccio, sfruttamento della prostituzione e accattonaggio con minori e disabili.

La legge, inoltre, prevede l’istituzione di “zone rosse” o “zone vip”, a cui è vietato l’accesso a persone che rappresentano una minaccia per il decoro: aree museali, luoghi turistici e parchi pubblici. Insomma: tutti i luoghi dove la “gente comune” non deve essere disturbata anche solo dalla presenza di emarginati.
Minniti chiede anche: “è di destra una legge che sottrae la definizione delle politiche della sicurezza nelle nostre città alla competenza esclusiva degli apparati, trasformando la sicurezza in bene comune e chiamando alla sua cogestione i rappresentanti liberamente eletti dal popolo, vale a dire i sindaci?”.

La risposta è sì, dal momento che storicamente in Italia sono i partiti conservatori a pretendere più poteri e più discrezionalità per gli organi esecutivi. In uno stato di diritto le leggi valgono per tutti, da Aosta a Siracusa, e il potere giudiziario, quello che può disporre l’allontanamento di una persona da un luogo perché ha commesso un reato, non funziona sulla base di un consenso raccolto nelle urne, né spetta al sindaco, ma ai tribunali. Secondo questa logica, i sindaci potrebbero discrezionalmente e potenzialmente decidere di rimuovere tutto il dissenso con un pretesto legato al decoro.

Proprio attraverso il concetto di decoro, il testo della legge, pur evocandola, sposta di un passo dalla condotta allo status il criterio della punibilità.
Il provvedimento, ora al vaglio del Senato, asseconda dunque le pulsioni populiste e la guerra fra poveri, marginalizzando sempre più il disagio senza alcuna intenzione di risolverlo.

* da micromega online

(21 marzo 2017)

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