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Neoliberismo e colonialità a Puerto Rico

Dall’inizio del XXI secolo, l’isola caraibica di Puerto Rico è impantanata tra recessione, crisi fiscale ed espansione del debito pubblico. La grave situazione è giunta al fondo negli ultimi due anni, tra il discorso del Governatore Padilla – nel giugno 2015 – che dichiarò «impagabile» il debito e la dichiarazione di bancarotta del maggio scorso, sotto il nuovo Governatore Rosselló. In mezzo, il passaggio dei portoricani sotto le forche caudine di Washington che, nel 2016, dopo aver già impedito – tramite il Congresso e il Tribunale Federale – che il governo portoricano potesse dichiararsi autonomamente insolvente e quindi avviare le trattative per la ristrutturazione del proprio debito, con la Legge PROMESA (Puerto Rico Oversight Management Economic Stability Act – https://www.congress.gov/bill/114th-congress/house-bill/5278/text) ha imposto all’isola una Giunta di Supervisione Fiscale con il compito di vagliare i Piani Fiscali dell’esecutivo territoriale e approvare ogni eventuale rinegoziazione del debito. Uno degli effetti recenti di questo nuovo organismo è stato l’avvio di un duro piano di austerità, con copiosi tagli alla spesa in educazione e sanità e progetti di privatizzazione delle aziende pubbliche.

Inoltre, entro questa tragica situazione, la questione dello status dell’isola è nuovamente oggetto di dibattito: nel novembre 2016, Ricardo Rosselló è stato eletto governatore (con 660510 voti, il 41.8% del totale) con un programma volto a ottenere l’ingresso di Puerto Rico nell’Unione, come 51° Stato; lo scorso giugno, il referendum sulla questione, ampiamente disertato dagli elettori e boicottato dai contrari all’annessione, ha visto prevalere l’opzione della «Estadidad» con il 97.2% dei voti. Al di là della scarsa affluenza (22.9%), rimane un fatto rilevante che quasi 500000 persone (1/4 circa degli elettori) sostengano esplicitamente la fusione con gli USA e una parte ancora più ampia della società abbia votato per un candidato governatore che pone questa prospettiva come indispensabile per la risoluzione dei problemi del Paese. Come vedremo, i seguaci della «americanizzazione» sono sempre esistiti, trovando espressione politica in uno dei due partiti egemoni, che oggi si chiama Partido Nuevo Progresista.

Nella crisi sono ravvisabili gli elementi coloniali che caratterizzano la relazione tra Puerto Rico e gli Stati Uniti sul piano economico, politico ed ideologico. Questi possono essere riassunti dalle dichiarazioni di Pedro Pierluisi, ex rappresentante – senza diritto di voto – dell’isola in Campidoglio, poco dopo l’approvazione di PROMESA: «indispensabile (…) costituisce l’unica alternativa reale per prevenire il collasso del governo di Puerto Rico (…) proteggere i suoi cittadini (…) per creare le condizioni necessarie perché l’economia di Puerto Rico ritorni a crescere» (http://www.univision.com/puerto-rico/wlii/noticias/proyecto-de-ley/pierluisi-y-votacion-de-promesa-en-el-senado-el-voto-de-hoy-fue-un-gran-exito).

In queste parole è chiaro come l’ennesima violazione della sovranità popolare sia inserita entro una narrazione che vede i portoricani come responsabili dei propri mali, incapaci di governarsi tanto da necessitare del paternalista aiuto e controllo nordamericano. Ideologia che omette l’evoluzione storico-economica dell’isola, che ha condotto alla sua struttura economica coloniale definita secondo gli interessi del capitale statunitense. Il neoliberismo, anche stavolta, si sposa bene con il colonialismo: negando i danni prodotti dal capitalismo predatorio, definisce i portoricani come indolenti, poco intraprendenti, a causa della grande ingerenza del settore pubblico in economia; per cui, la soluzione non può che essere la riduzione del peso di quest’ultimo sulla pelle dei più poveri e dei lavoratori in generale – nel programma di Rossellò si prevede anche una riforma del mercato del lavoro – e in nome degli interessi del capitale (in questo caso, dei creditori).

Negli anni’60 del XX secolo, il tasso annuale di crescita del PIL portoricano era del 7.6%; l’isola convergeva con gli Stati Uniti d’America e i più ottimisti ed entusiasti parlavano di Puerto Rico come la «Quinta Tigre», paragonando la performance economica dell’isola a quella che contemporaneamente registravano alcuni Paesi dell’Asia Orientale. Nel giro di mezzo secolo, oggi Puerto Rico è spesso definita come la «Grecia dei Caraibi». Come è stato possibile? Per comprenderlo è necessario conoscere le cause storico-economiche dell’attuale crisi: mentre Paesi come Taiwan e Corea del Sud hanno potuto proteggere la crescita di un proprio settore industriale, Puerto Rico – non essendo politicamente sovrana – non ha potuto fare altrettanto, rimanendo in balia delle scelte del governo statunitense e del suo capitale.

La prima fase della dominazione coloniale nordamericana

L’incontro tra i boricuas e gli Stati Uniti avvenne nel 1898, nell’ambito della Guerra Ispano-Americana, che segnò il definitivo crollo della Spagna come potenza coloniale e l’ascesa dell’imperialismo nordamericano sull’America Latina dietro l’uso violento della Dottrina Monroe con la politica del Big Stick (grosso bastone). Gli USA cancellarono l’autonomia concessa, soltanto un anno prima, da Madrid e imposero un governo civile nominato dal proprio Presidente (Foraker Act, 1900); soltanto nel 1917 i portoricani acquisirono la cittadinanza americana (Jones Act), appena in tempo per partecipare alla mattanza della Grande Guerra in Europa. Si tratta di una cittadinanza di secondo ordine, che non consente di eleggere il Presidente dell’Unione o di avere dei propri rappresentanti eletti, con diritto di voto nella Camera dei Rappresentanti o al Senato di Washington.

Alla coltura del caffè e del tabacco, vigente sotto la dominazione spagnola, fu sostituita la «monocoltura» dello zucchero che dominerà l’isola sino alla fine degli anni’40, sotto l’egemonia del capitale nordamericano che – protetto dalle tariffe governative – investirà milioni di dollari per acquistare piantagioni e costruire zuccherifici. In favore degli investimenti giunse anche la Section 262 del 1921, che consentì il rimpatrio dei guadagni senza pagare imposte. Dal 1903 al 1930 si passò da 200000 a 900000 tonnellate di zucchero semiraffinato prodotto; 11 zuccherifici su 41 appartenevano a 4 imprese statunitensi che controllavano la metà della produzione totale. Inoltre, l’isola era soltanto un anello della catena produttiva: dato il divieto di importare nel continente zucchero raffinato a Puerto Rico, la funzione dell’isola sarà innanzitutto quella di fornitrice di materie prime, senza proprie raffinerie. Con il superamento della vecchia produzione agricola e l’ascesa della borghesia assenteista statunitense, la già debole borghesia autoctona fu definitivamente marginalizzata; un altro ostacolo allo sviluppo endogeno era rappresentato dalla Merchant Marine Act (1920) che, proibendo a flotte di bandiera straniera di trasportare merci tra il continente e i territori d’oltremare, legò l’isola all’importazione di beni nordamericani a prezzo molto alto. Nel 1929, l’isola dipendeva dagli USA per l’87% delle sue importazioni e il 97% del suo export.

La crisi economica degli anni’30 fu l’inizio dell’epoca di transizione tra colonialismo vecchio e nuovo. Tra il 1929 e il 1948 vi fu non solo un notevole intervento pubblico in economia ma anche il coinvolgento della classe dirigente locale nella elaborazione di un progetto per lo sviluppo dell’economia dell’isola. Una delle cause di questo cambio di rotta nella politica coloniale, probabilmente, è dovuto alla crescita del Partido Nacionalista de Puerto Rico che, a partire dall’elezione a segretario di Pedro Albizu Campos (1930) e approfittando della contingenza della recessione, riuscì a crescere nei consensi con un progetto anticolonialista e indipendentista.

L’Agenzia Federale per la Ricostruzione di Puerto Rico coinvolse l’Università locale nella scrittura di un piano per il ripopolamento rurale, la diversificazione agricola, l’elettrificazione nelle campagne ed un progetto di industrializzazione. Nel 1938, Luis Muñoz Marín, tra i responsabili della pianificazione di cui sopra, fondò il Partido Popular Democratico, che diverrà il protagonista della costruzione dell’Estado Libre Asociado e del boom economico del secondo dopoguerra con un programma riformista in ambito sociale ed economico. Il governatore Rexford Tugwell (1941-1946) creò numerose Società Pubbliche, le quali saranno poi le protagoniste dell’alto livello di indebitamento che andrà fuori controllo negli anni 2000; tra queste, la Compagnia di Sviluppo Industriale che finanziò numerosi investimenti in fabbriche e infrastrutture. L’economia fu ravvivata. Con la nomina a governatore di Jesus Piñero (1946-1949), il PPD di fatto entrò di fatto nell’esecutivo dell’isola, promosse la nascita di imprese orientate al mercato locale e facenti uso di risorse endogene (fabbriche di cemento, vetro, cartone, scarpe, argilla, rhum).

Il «colonialismo lite»

Dopo la Seconda Guerra Mondiale divennero ormai maturi i tempi per instaurare un colonialismo leggero – «colonialismo lite», la definizione che il politologo Juan Flores ha dato al periodo dello Stato Libero Associato – diverso da quello la cui polizia militare nel 1937, a Ponce, aveva massacrato i nazionalisti, uccidendo 19 dimostranti e ferendone quasi 200, durante una manifestazione per la scarcerazione del leader indipendentista Albizu Campos. Il movimento anticoloniale, tra la fine degli anni’40 e la prima metà degli anni’50 era in crescita: dopo il 10.2% dei voti preso dal Partido Indipendentista alle prime elezioni democratiche dell’isola, nel 1948, i nazionalisti tentarono un’insurrezione nel 1950 e due anni dopo – alle prime elezioni del neonato Estado Libre Asociado – divennero la seconda forza politica dell’isola con il 19% dei voti totali. Insomma, il dominio coloniale non poteva essere garantito soltanto con la repressione: il Partido Popular Democratico di Luis Munoz Marin, governatore di Puerto Rico dal 1949 al 1965, svolse un ruolo molto importante nel neutralizzare il nazionalismo politico contrapponendogli un populismo nazionalista culturale, innocuo per l’egemonia statunitense ma capace di coinvolgere una larga fetta di società portoricana dietro le promesse di progresso e crescita economica. Già la nascita dello Stato Libero Associato e l’instaurazione di un esecutivo democratico avevano occultato la relazione coloniale, comportando la rimozione di Puerto Rico dall’elenco dei territori da decolonizzare stilato dalle Nazioni Unite.

L’industrializzazione dell’isola ha avuto due fasi, con al centro la crisi petrolifera della prima metà degli anni’70. La strategia utilizzata è sempre stata caratterizzata da tre strumenti: incentivi fiscali agli investimenti statunitensi nell’isola; accesso preferenziale al mercato nordamericano per le merci prodotte localmente; basso costo della manodopera rispetto agli Stati Uniti. Dagli anni’50 alla prima metà degli anni’60 a dominare è stata l’industria leggera ad alta intensità di manodopera (alimenti, tessile, pelli, lavorazione del legno), accompagnata da investimenti pubblici in infrastrutture e nel capitale umano. Si tratta di una fase apparentemente vincente, dato il tasso di crescita del PIL (5.4% negli anni’50 e 7.6% negli anni’60) ma la transizione da un’economia prevalentemente agricola ad una dominata da industria e servizi ha portato all’espulsione dalle campagne di una notevole quantità di forza-lavoro che tra il 1950 ed il 1965 emigrerà negli Stati Uniti (circa 530000 persone), mentre la partecipazione lavorativa calerà dal 55.5 al 45.4%, malgrado la riduzione della disoccupazione dal 15.4 al 11.7% (pur sempre un tasso piuttosto alto). Oltre a ciò, era chiaro come una «crescita dipendente», come l’ha chiamata l’economista Joaquin Villamil, non avesse solide basi e fosse sensibilmente esposta alle strategie di investimento del capitale esogeno, che non reinvestiva nell’isola i propri profitti (potendoli rimpatriare senza alcun costo sul continente). Tuttavia, negli anni’60 furono raggiunti gli obiettivi politici principali della classe dirigente locale e quella degli USA: il consenso creatosi sull’onda della crescita economica fu tale da marginalizzare elettoralmente l’indipendentismo, che per tutto il decennio (elezioni 1960, 1964, 1968) crollò ad una percentuale intorno al 3% degli elettori, venendo così escluso anche dagli organi legislativi, saldamente in mano al duopolio PPD e PNP; gli USA hanno ora in Puerto Rico una vetrina capitalista da contrapporre, sul piano propagandistico, ai movimenti progressisti latinoamericani affascinati dalla vicina Cuba socialista.

Dal 1965 al 1975 si passerà dall’industria leggera a quella pesante (petrolchimica), sino alla crisi petrolifera. Il lungo periodo di crescita termina così negli anni’70; tra il 1965 e il 1980, l’aumento dei trasferimenti federali e dell’impiego nel settore pubblico (2/3 dei 198000 impieghi netti generati durante questo periodo) riusciranno, con l’emigrazione, a limitare i danni della disoccupazione e a garantire livelli minimi di consumo. La crisi ha imposto la necessità di una nuova fase di industrializzazione, basata su alta tecnologia e alto valore aggiunto, in particolare l’industria farmaceutica. Questo nuovo settore sarà favorito dalla Section 936 (1976) che garantì crediti fiscali, con obbligo di rimpatriare i profitti negli Stati Uniti, oltre a prevedere esenzioni dalle imposte sugli interessi maturati dagli investimenti finanziari nell’isola. Così, dagli anni’80 alla metà degli anni’90 l’economia si riprese: quello tra il 1986 e il 2002 fu un nuovo periodo di convergenza verso gli USA, con una notevole crescita della manifattura – nel 1995, picco della crescita indotta dalla Section 936, questa rappresentava il 42% del PIL, da essa dipendevano il 30% dei depositi bancari e il 17% dell’occupazione diretta – unica nell’area latinoamericana e caraibica (prodotti chimici, metalli, macchinari). Tuttavia, si esasperarono tutti i difetti strutturali della modernizzazione portoricana, ponendo l’isola del tutto in balia dell’industria incentivata statunitense, priva di connessioni con il resto dell’economia: il rapporto tra PNL e PIL (cioé tra quanto prodotto nell’isola da attività autoctone e quanto prodotto nella stessa da attività di proprietà straniera) tra il 1980 al 2000 divenne il più bassio dell’America Latina e dei Caraibi (dallo 0.76 del 1980 al 0.67 del 2000).

La crisi fiscale

Il periodo attuale della storia economica portoricana inizia nel 1996, con la fine dei benefici garantiti alle multinazionali statunitensi dalla Section 936. Il Congresso decise il prolungamento per altri dieci anni, ma solo per le imprese che già ne usufruivano. L’opinione generale nordamericana è che si tratti di privilegi troppo onerosi per le casse federali; inoltre, la globalizzazione ha reso Puerto Rico poco appetibile per le multinazionali che possono accedere – a condizione di maggior favore e potendo utilizzare una manodopera ancora meno costosa – ad altre parti del mondo con uguale vantaggio. Le imprese iniziano così ad abbandonare l’isola per altri lidi come l’Irlanda, il Messico, la Costa Rica. La conseguenza di questi cambiamenti nella politica fiscale nordamericana e nelle strategie aziendali è la deindustrializzazione di Puerto Rico e la sua recessione, entrambi evidenti dal 2000. Qui cominciò la crisi fiscale e quindi l’ampio ricorso al debito pubblico per farvi fronte. A differenza della crisi del’29 e di quella del ’73, a quella attuale non ha seguito alcun nuovo progetto per l’industrializzazione e la crescita; il capitale internazionale si interesserà all’isola innanzitutto per i suoi vantaggiosi bond.

Jose Carabello e Juan Lara, ricercatori dell’Università di Puerto Rico, hanno mostrato (2016) come il debito insostenibile di oggi sia direttamente collegato con la deindustrializzazione dell’isola, più che con la pletoricità del settore pubblico e del lavoro creato dalle ramificazioni governative: la grande maggioranza del debito (70%) è stata creata dalle aziende pubbliche; pur essendo, dalla loro nascita negli anni’40, la principale fonte di indebitamento del Paese, soltanto dal 2002 il debito reale è aumentato notevolmente in correlazione con il calo dell’occupazione nella manifattura. Infatti, la scomparsa di numerose imprese manifatturiere ha lasciato le aziende pubbliche senza gli introiti necessari per continuare ad erogare i propri servizi (ad esempio, la fornitura di elettricità e di acqua potabile). Inoltre, i tagli alla spesa pubblica, le privatizzazioni e i licenziamenti voluti dai governi neoliberali di Pedro Rossellò (1993-2001) e Luis Fortuno (2009-2013) non hanno affatto impedito al debito di continuare a crescere.

Il debito di Puerto Rico è oggi costituito da 74 miliardi di dollari, più altri 49 miliardi di obbligazioni collegate alle pensioni dei lavoratori pubblici. Una parte consistente del debito (37.8 miliardi) è costituita da Capital Appreciation Bonds, cioè obbligazioni ad interesse composto (tanto che 33.5 miliardi sono costituiti da interessi), in gran parte emesse da COFINA, l’azienda della Banca Gubernamental del Fomento, nata nel 2006 al solo scellerato scopo di emettere buoni al fine di ripagare le vecchie obbligazioni.

Arriviamo così ai giorni nostri; come detto nell’introduzione, nel 2015, il governatore dell’epoca Alejandro Garcia Padilla (PPD) dichiarò che il debito, matematicamente, non potrà mai essere ripagato alla luce della situazione economica, annunciando la creazione di un gruppo di lavoro per la ripresa economica, composto da elementi superpartes con l’obiettivo di giungere ad una moratoria negoziata con i creditori al fine di dilazionare i pagamenti (https://www.elnuevodia.com/noticias/politica/nota/mensajedelgobernadoralejandrogarciapadillasobresituacionfiscaldepuertorico-2066574/). Nel 2016, con PROMESA, gli USA scavalcano completamente i diritti democratici di Puerto Rico, imponendo una Giunta di Supervisione Fiscale, composta da sette membri, di cui uno nominato dal Presidente (Obama), quattro espressi dal Partito di maggioranza (Repubblicani) nel Congresso e nel Senato e due espressi dalla minoranza (Democratici) delle due Camere. L’obiettivo chiaro della Giunta è quello di garantire che dalla ristrutturazione del debito venga fuori la migliore soluzione possibile per i creditori. Alcune associazioni come Hedge Clippers e il Centro para la Democracia Popular hanno denunciato il conflitto di interessi di due esponenti dell’organo chiamato a controllare i piani fiscali dei governi portoricani: Garcia e Gonzalez; questi sono già stati degli importanti dirigenti del Banco Santander e hanno svolto degli incarichi di rilievo entro la BGF, contribuendo all’espansione del debito pubblico in entrambi i ruoli (guidando la domanda dei fondi di investimento verso i bond portoricani ed emettendo gli stessi).

L’influenza nefasta della Giunta è evidente nel Piano Fiscale (http://www.aafaf.pr.gov/assets/planfiscal13demarzo2017.pdf) varato dal governo Rossellò nel marzo scorso, più austero di quanto ci si potesse aspettare dal programma elettorale con cui il leader del PNP eletto nel novembre 2016. Tra le altre cose, il Piano prevede 45 milioni di dollari di tagli al fondo per l’Università di Puerto Rico (con il conseguente aumento delle tasse universitarie del 189%); riordino del sistema sanitario volto a garantire gratuitamente esclusivamente non meglio precisati servizi di base, con taglio della spesa sanitaria pari a 6 miliardi in dieci anni; privatizzazione dei trasporti marittimi dell’area metropolitana di San Juan, autostrade, edifici pubblici; ingresso dei privati nell’autorità portuale; riduzione delle pensioni pubbliche del 10%. Inoltre, è stata recentemente annunciata la chiusura di 184 scuole pubbliche, sempre entro la generale politica di tagli alle spese sociali.

Americanizzazione e nazionalismo culturale: l’ideologia coloniale portoricana

I due partiti politici portoricani, egemoni dagli anni’60, rappresentano anche le due tendenze dominanti in merito alla concezione dell’identità nazionale portoricana, in bilico tra cittadinanza statunitense e appartenenza al territorio isolano. «Nazione in viavai», sarebbe Puerto Rico secondo la definizione dell’antropologo Jorge Duany che ha analizzato come la massiccia emigrazione negli Stati Uniti (tanto che oggi ci sono 3.7 milioni di portoricani nell’isola e 3.4 milioni negli USA) abbia incentivato questo rapporto duale tra cultura e territorio portoricani e la cittadinanza nordamericana: è emerso come la maggioranza dei portoricani, pur sentendosi parte di una comunità culturalmente distinta, non intenda rinunciare alla propria appartenenza politica statunitense, in quanto connessa all’accesso a diritti civili e programmi sociali finanziati con i trasferimenti federali.

Il Partido Nuevo Progresista è fautore dell’annessione agli Stati Uniti, mentre il Partido Popular Democratico vuole mantenere una forma di associazione agli USA analoga a quella attuale, seppure migliorata. I loro modi di concepire l’identità portoricana sono comunque uniti dalla condivisione di un’ideologia coloniale, stigmatizzante il popolo portoricano, ritenuto incapace di essere politicamente indipendente, e considerante la propria cittadinanza nordamericana come un marchio modernizzatore, colmante le mancanze civili e politiche dei portoricani – ritenute intrinseche per via di ragioni quali l’insularità, la demografia e la povertà – e garante di un benessere economico e sociale senza pari in America Latina. I fondatori dell’orientamento filostatunitense – José Celso Barbosa e Luis Ferré Aguayo – esaltano la cittadinanza nordamericana, ritenendola la base per un patriottismo della ragione (connesso alla libertà democratica e al miglioramento economico) contrapposto ad un patriottismo degli istinti, irrazionale (il nazionalismo portoricano). Hanno affermato entrambi che la patria della libertà e dei diritti vale più del territorio in cui si nasce. Si tratta di dichiarazioni di un chiaro stampo razzista, giacché non considerano minimamente che i portoricani possano autonomamente elaborare una concezione politica democratica senza l’apporto nordamericano: solo grazie agli Stati Uniti i portoricani conoscerebbero il principio della libertà umana come base della società. Inoltre, il primo giunse anche a negare l’esistenza di nazionalità e cultura portoricane completamente formate. Per Barbosa, infatti, può esserci un regionalismo portoricano esattamente come un regionalismo texano: essere portoricani è solo uno dei tanti modi per essere statunitensi. Ferré, fondatore del PNP e primo governatore espresso da questo partito (1969-1973), ci ha lasciato interessanti dichiarazioni in favore dell’ingresso dell’isola come 51° Stato Americano: «Estadidad significa progresso assicurato»; «qui il principio della libertà e della democrazia si stabilì insieme alla bandiera a stelle e strisce». Un altro governatore del PNP, Pedro Rossellò (1993-2001) negò l’esistenza di una nazione portoricana: solo gli USA sono una nazione, in quanto dotati di sovranità e cittadinanza. Luis Munoz Marin, primo governatore democraticamente eletto ed architetto del ELA, affermò che l’indipendenza sarebbe un suicidio.

Il 25 luglio 1898 è la data di nascita del pensiero coloniale portoricano. Il Generale Statunitense Miles – comandante la campagna militare di Puerto Rico, contro la Spagna – scrisse un proclama al popolo portoricano in cui definendosi portatore di prosperità e citando gli Stati Uniti come sede di libertà, giustizia, umanità: la guerra avrebbe portato la civilizzazione nell’isola. Dopo il conflitto, l’obiettivo statunitense – emergente da inchieste del Senato e dalla stampa – è quello di americanizzare i portoricani: questo popolo di «ignoranti, luridi, bugiardi, pigri, infidi, assassini, brutali e neri», deve essere trasformato in «cittadini redditizi». Il sottosviluppo economico era ritenuto figlio di un sottosviluppo culturale, determinato dai secoli di malgoverno ispanico che avrebbe abbandonato i portoricani ad uno stato selvaggio.

Proprietari terrieri, commercianti, imprenditori autoctoni guardarono agli Stati Uniti come ad un Redentore: rappresentano la repubblica democratica, il progresso, un grande mercato per gli isolani più intraprendenti. Sostengono così l’americanizzazione culturale, la quale avrà – tra il 1898 e il 1950 – la sua espressione nel tentativo di imporre la lingua inglese, strumentale all’educazione dei portoricani ai valori nordamericani, ritenendo la cultura anglosassone superiore a quella ispanica. Tra il 1916 e il 1936 la scuola prevedeva una immersione graduale degli alunni nella lingua inglese, passando dai primi quattro classi di istruzione con insegnamento veicolare completamente in spagnolo alle tre più alte completamente in inglese. Solo nel 1948 sarà ripristinata la lingua spagnola come la principale entro l’ordinamento scolastico, con l’inglese come secondaria.

Come abbiamo visto, sino alla prima metà del XX secolo a predominare è un rapporto coloniale di vecchio stampo, che punta a negare la stessa soggettività culturale e storica dei portoricani. Con la nascita dello Stato Libero Associato, invece, a dominare è un nazionalismo culturale funzionale a marginalizzare quello politico indipendentista: da un lato si diffondono ed esaltano – con i mezzi della nuova istituzione – i simboli identitari della portoricanità, dall’uso della lingua spagnola all’arte cattolica, l’eredità indigena e l’iconografia del contadino – lo jibaro, il lavoratore di sussistenza nelle piantagioni di caffè e tabacco su cui gli intellettuali borghesi, emarginati dal capitale nordamericano, hanno costruito l’identità portoricana – il quale è presente nello stesso simbolo del PPD; la propaganda politica chiama i portoricani ad una solidarietà astratta tra loro ma stabilizza il rapporto coloniale tra l’isola agli USA, sino ai giorni nostri.

Nel referendum sullo status del 2012, per la prima volta dalla prima consultazione in merito nel 1967, ha prevalso l’opzione annessionista con il 61.2% dei voti, circa 800000 portoricani. Le elezioni politiche del 2016 le ha vinte un candidato annessionista e sempre l’opzione della Estadidad ha prevalso nell’ultimo referendum dello scorso giugno. Insomma, durante questa dura crisi economica, l’ideologia coloniale degli Stati Uniti come salvezza di Puerto Rico si è rafforzata in un’ampia fascia di portoricani.

Conclusioni

Il drastico calo dell’affluenza delle elezioni politiche 2016 (55.4% votanti, -22.7% rispetto alle elezioni precedenti), in un’isola dove la partecipazione elettorale è sempre stata molto alta, e la notevole diserzione alle urne del referendum del giugno scorso sono i segnali di una crescente opposizione popolare allo stato di cose presenti. Questa, tuttavia, non ha trovato ancora uno sbocco politico. Durante le ultime elezioni, due candidati indipendenti – Alexandra Lugaro e Manuel Cidre – hanno preso assieme il 17% dei consensi, mostrando come i partiti egemoni potrebbero essere entrati in una crisi di legittimità, destinata ad acuirsi a causa dell’impopolare piano di austerità approvato dal governo e dalla giunta di supervisione fiscale.

A maggio i sindacati e i partiti di opposizione hanno attuato uno sciopero generale contro il suddetto piano. Probabilmente, è solo il primo atto di una dura lotta tra il popolo portoricano e il suo esecutivo, da cui potrebbero nascere nuovi spazi per movimenti politici alternativi e rivoluzionari. Indipendentisti e socialisti, per ora, rimangono ai margini, incapaci di svolgere un ruolo. La mia percezione è che il Partido Indipendentista sia privo di un progetto a breve-medio termine capace di creare consenso contro i partiti di sistema e di rendere appetibili le ragioni di una lotta di emancipazione nazionale; incapaci di incrementare la crescita elettorale del 2000 (5.7%, oltre 100000 voti), ottenuta sull’onda della vittoriosa lotta contro la base militare americana di Vieques, dalle elezioni successive – durante gli anni della crisi attuale – il PIP non è riuscito mai a toccare il 3%. È necessario che il nazionalismo politico si inserisca entro il conflitto sociale che diverrà più forte nei prossimi anni, con la crescita di povertà e diseguaglianze già in atto dal 2005 ad oggi.

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