Nelle note di copertina, che troviamo in epigrafe a quel libro fondamentale per la storia del pensiero occidentale contemporaneo e per la comprensione delle società moderne e dei loro dispositivi giuridico-repressivi, il cui titolo emblematico è “Sorvegliare e Punire”, scritto dallo psichiatra e filosofo francese, Michel Foucault, si può leggere:
«Si imprigiona chi ruba, si imprigiona chi violenta, si imprigiona anche chi uccide. Da dove viene questa strana pratica, e la singolare pretesa di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni? Forse una vecchia eredità delle segrete medievali? Una nuova tecnologia, piuttosto: la messa a punto, tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo, di tutto un insieme di procedure per incasellare, controllare, misurare, addestrare gli individui, per renderti docili e utili nello stesso tempo. Sorveglianza, esercizio, manovre, annotazioni, file e posti, classificazioni, esami, registrazioni. Tutto un sistema per assoggettare i corpi, per dominare le molteplicità umane e manipolare le loro forze, si era sviluppato nel corso dei secoli classici negli ospedali, nell’esercito, nelle scuole, nei collegi, nelle fabbriche: la disciplina. Il Diciottesimo secolo ha senza dubbio inventato la libertà, ma ha dato loro una base profonda e solida, la società disciplinare, da cui dipendiamo ancora oggi».
Insomma, con l’uscita dal medioevo e l’entrata nell’evo moderno, cui corrisponde la nascita delle prime società mercantili, di capitali e per azioni, nonché il perfezionamento degli istituti di credito, e con i primi vagiti di quello che diverrà, poi, il Capitalismo, le organizzazioni statali si dotarono di strumenti e apparati giudiziali, normativi e legali di controllo e repressivi, di pena e di esecuzione della stessa, sempre più sofisticati e sempre meno cruenti, con cui, ancor prima di colpire i corpi è l’anima, la psiche, la vita emotiva a subire una coercizione.
Una vera e propria tecnologia dell’anima, un’organizzazione del dominio e della gestione microfisica del potere sui cittadini che, nel XX secolo, ha assunto proporzioni abnormi, tanto da configurare il concetto di biopolitica, con la sua pervasività culturale ed esistenziale, coniato proprio da Foucault. Una pianificazione strutturale dei coefficienti sanzionatori, repressivi e punitivi messa a punto, con esiti spesso disumani, non solo agli inizi del secolo scorso, ma che ha trovato larga applicazione, susseguentemente, in quelle che ipocritamente amano definirsi “democrazie liberali”.
Anzi, ad essere sinceri, sono proprio queste ultime a perfezionare ed incentivare, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale e con il conseguente trionfo del pensiero neoliberista – dunque per motivi economici e politici, anzi di economia-politica – tecniche, sistemi, apparati e strutture di controllo (Intelligence), repressione (Polizia), punizione (Tribunali), indottrinamento ideologico (Media e stampa) che oggi, sotto il nome di governamentalità, si prefiggono l’obiettivo della più completa normalizzazione sociale e politica; prevenendo, contenendo esoffocando, se necessario, ogni eventuale conflitto o dissenso con le linee guida imposte dalle classi dirigenti.
Strutture e apparati di cui i manicomi, prima, e le carceri, prima e dopo, hanno rappresentano solo il punto più estremo della coartazione; o, se si preferisce, quel non luogo che funge da discarica entro cui sversare, come sostanze tossiche, per lo più quei soggetti marginali e quelle anomalie del tessuto epiteliale collettivo che ne impedirebbero – secondo i parametri imposti dagli organi istituzionali – il sano sviluppo, la crescita regolare (Pil?) e il tranquillo andamento.
Manicomi e carceri sono divenuti, però, nel corso del tempo, anche dei laboratori dove sperimentare nuove forme di asservimento, di restrizione corporale e di persuasione, attraverso cui ottenere una sorta di guarigione, di riparazione ortopedica dell’anima e della psiche del recluso, finalizzate ad un reinserimento nel corpo economico della società, ampiamente intesa come esclusivo sistema produttivo, ancor prima che ad un rinnovato rapporto intersoggettivo con la collettività.
Oppure, come nel caso dei prigionieri politici, l’ortopedia carceraria punta a un’abiura delle proprie idee, da parte del detenuto condannato al 41 bis, con annessa confessione, collaborazione e delazione, tale da dimostrare la resa di fronte al Potere costituito e l’adesione al pensiero dominante; una resa che gli consentirebbe di lasciare quella che, a tutti gli effetti, possiamo definire Tortura di stato.
Laboratori. quindi, all’interno dei quali saggiare anche le possibilità di ridisegnare il perimetro entro cui comprimere, al di fuori dei luoghi di detenzione, le libertà democratiche. Non sono poche, infatti, le ricadute politiche che il sistema carcerario, l’organizzazione dell’ordinamento penitenziario e l’utilizzo del codice penale, producono sulla società civile.
In Italia, ad esempio, è innegabile che il vento giustizialista e forcaiolo che, da anni, spira sull’intero paese, alimentato da forze politiche di destra o qualunquiste, come anche il Movimento 5 Stelle – e giustificato con la persistenza di un sistema di corruzione talmente profondo da riprodursi più pervicacemente di prima, diventando per giunta l’alibi per invocare manette e pene severissime, ad ogni minima infrazione del codice – sta progressivamente riducendo gli spazi democratici, comprimendo sempre più i diritti civili e dilatando, invece, a dismisura il ricorso a tribunali e magistrati. Questi ultimi appaiono a volte trasformati nei veri arbitri di una partita politica incattivita, fatta di vendette trasversali, e giocata su una piazza virtuale sempre più caratterizzata da pulsioni punitive e fascistoidi. La cui virulenza viene pagata, nella concretezza della realtà, dai ceti più deboli – che fungono, come sempre, da capro espiatorio – o da quei movimenti sociali conflittuali, generalmente di matrice marxista e comunista, che, nella piazza reale, si trovano puntualmente a fronteggiare austerity imposte dal Governo e dall’UE.
Quell’apparato repressivo esteso dal Ministro degli Interni, Marco Minniti (ex Pci, piccolo particolare da non sottovalutare!) il cui “decreto sicurezza” rischia di far somigliare l’Italia attuale all’Argentina di Videla o, ben che vada, all’Ungheria dell’ultranazionalista Orban.
Appare chiaro, dunque, che, all’interno di questo quadro non certo confortante – cui si aggiungono i CPR (Centri Permanenti per i Rimpatrio) veri e propri campi di concentramento per i migranti – l’utilizzo dell’articolo 41bis rappresenta un vessillo da sventolare, da parte delle “Istituzioni democratiche” per dimostrare la propria forza d’impatto, apparente, innanzitutto sul crimine organizzato e sui presunti reati di terrorismo.
Insomma, la cosiddetta ciliegina sulla torta – in una fase storica particolarmente critica – alla quale lo Stato borghese non vuole rinunciare.
Un dispositivo nato da una legislazione emergenziale, in teoria per combattere la mafia ma esteso, in effetti, a tutta una serie di reati e di soggetti detenuti, che ha assunto le caratteristiche di una vera e propria forma di tortura. Deprivazione sensoriale, isolamento prolungato in celle insufficienti per un letto, ore d’aria ridotte al minimo, riduzione dei gruppi di interazione sociale, un solo colloquio al mese con i familiari, con vetro divisorio e registrazione audio, impossibilità di tenere oggetti personali, niente televisione, libri, carta e interdizione della parola, costituiscono gli obblighi e i divieti cui si trova sottoposto un condannato a tale misura.
La quale, per queste ragioni, è costata più volte all’Italia la condanna del Tribunale Europeo per i Diritti Umani, nonché quella dell’Onu; una misura inumana, cui sono sottoposti ancora alcuni compagni, condannati all’ergastolo per reati legati a quell’esperienza di lotta armata chiusa da tempo, mentre su di loro pesa ancora la vendetta dello Stato.
Uno Stato che già nel 1975 aveva introdotto, nelle pieghe di una riforma carceraria moderatamente “riformista” quell’articolo 90 – padre del 41bis – che prevedeva la creazione dei cosiddetti carceri speciali per i reati di “terrorismo”; con la “legislazione d’emergenza” vi furono poi condannati molti appartenenti a Brigate Rosse, Nuclei Armati Proletari, Prima Linea, ecc.
Ebbene, se come comunista mi batto per la liberazione dei compagni in galera, sempre come comunista trovo indegno di un qualunque ordinamento, che si ispiri agli ideali democratici, il mantenimento, per chiunque, di uno strumento detentivo il cui unico effetto è la morte in vita del prigioniero. E arrivo a dire che un paese che si dichiara contrario alla pena di morte, ma mantiene un simile strumento, uccide due volte: Il corpo e l’anima del condannato.
Il 41bis, dunque, ben lungi dall’essere soltanto “un mezzo efficace per combattere la mafia” – la cui pericolosità e infiltrazione nelle istituzioni o nel tessuto sociale italiano non sono affatto diminuite opo l’entrata in vigore di tali provvedimenti – si delinea unicamente come strumento universale di vendetta e di ricatto nelle mani dello Stato, che se ne serve come deterrente per condizionare sul nascere qualunque conflitto.
Questi ed altri temi, dunque, sono stati al centro di un dibattito tenutosi, alcuni giorni fa, al Civico 7 di Napoli, convocato dalla Piattaforma Eurostop, che ha visto la partecipazione dell’avvocatessa Caterina Calia, legale di Nadia Desdemona Lioce (attualmente detenuta, presso il carcere di L’Aquila, in regime di 41bis); dell’avvocato Nicola Nardella, anch’egli impegnato sul fronte della cancellazione del carcere duro; e dell’ autore del libro Cella 0, Pietro Ioia.
In quell’occasione, i rappresentanti della Piattaforma Eurostop, anche candidati per la lista Potere al Popolo, hanno ribadito il loro No senza mezzi termini al 41 bis; sebbene non manchino all’interno della lista alcune contraddizioni, specie in merito ai reati di mafia, per i quali qualche candidato più moderato avrebbe proposto, come già in passato, di “non abbassare la guardia”. Una precisazione irricevibile, dal mio modesto punto di osservazione, che aprirebbe la porta ad ambiguità giuridiche e concettuali verso le quali, un movimento comunista che voglia avere un approccio rivoluzionario a simili problematiche, non può consentirsi cedimenti.
Fondamentale, pertanto, mi è parso l’intervento chiarificatore dell’avvocatessa Caterina Calia, la quale afferma che il 41bis
«è, di fatto, un regime che ha assunto, negli anni, un’evidente natura segregativa, incidendo, tanto pervasivamente, fino ad annullarla del tutto, su quel minimo di vita di relazione che il detenuto può e deve intrattenere con la popolazione carceraria, così menomando ogni forma di espressione della personalità umana, fino a giungere addirittura a segregare la parola. Accanto alle restrizioni imposte dalla norma, evidentemente in conflitto con i principi costituzionali del nostro Ordinamento, s’inseriscono una serie di ulteriori e più vessatori divieti, che privano di umanità l’esistenza quotidiana delle detenute, perché comprimono i diritti fondamentali, incidendo su un piano che opera prima e oltre il diritto, che attiene alla sfera dei diritti naturali e delle prerogative intangibili che spettano all’uomo come persona e che discendono dalla sua stessa natura ed intima essenza, tali essendo il diritto di leggere, informarsi e di parlare. Diritti tutti inibiti di fatto. In sostanza, ci si trova di fronte ad un arbitrio senza misure».
Particolarmente inquietante è il fatto che per alcuni giudici risultassero «allarmanti parole come comunismo, lotta di classe, controrivoluzione ecc. Non si comprende perché un detenuto non possa avere e coltivare le sue idee politiche, quando queste non mettano in alcun modo in pericolo l’ordine intramurario. è evidente – continua la Calia – come la censura di manifestazioni del pensiero, di espressioni, idee, parole costituisca un effetto di quello straripamento del potere amministrativo che, attraverso una progressiva degradazione delle condizioni di detenzione, è giunto fino a renderle inumane».
Censure e divieti, insomma, incomprensibili, paradossali, inumani e colmi di contraddizioni. Come incomprensibile ed inumana è apparsa la decisione di proroga del regime restrittivo, assunta dai giudici, in occasione del processo tenutosi contro Nadia per disturbo delle altre detenute, tramite la battitura sulle sbarre di ferro di una bottiglietta di plastica. Processo che ha determinato, dinanzi al Palazzo di Giustizia di L’Aquila, manifestazioni di solidarietà e protesta contro il 41 bis.
L’avvocatessa Calia sostiene, giustamente, che non si può non rilevare, in quella proroga di regime restrittivo, una volontà di operare, da parte dei giudici, nella direzione di una deterrenza nei confronti di quei movimenti e manifestazioni di pensiero e solidarietà: «Una finalità disvelata nel decreto in cui si legge che un’eventuale mancata proroga del regime detentivo speciale, nei confronti della detenuta Lioce, potrebbe essere interpretata dal variegato movimento protagonista delle iniziative di solidarietà, come un attestato dell’efficacia della campagna di sostegno condotta; mentre dai terroristi in carcere come un segnale della ripresa della capacità rivoluzionaria della classe».
In poche parole, proprio come sostenevo più sopra, il 41 bis diventa strumento di ricatto e di repressione preventiva delle lotte e del conflitto. Insomma, lo Stato vorrebbe farci intendere che la Rivoluzione è impossibile.
Di notevole interesse anche l’intervento dell’avvocato Nicola Nardella più centrato sulla questione giuridica e sul ruolo dei tribunali, all’interno del conflitto di classe in un sistema di stampo capitalistico:
«Mi sembra che i Tribunali svolgano una funzione rilevante nel quadro generale del sistema capitalistico. Prendiamo, ad esempio, tutti quei reati di scarso allarme sociale contro il patrimonio o, ad esempio, l’invasione d’immobili. Tali reati, raramente, nei fatti, portano ad una pena carceraria; essi, però, possono portare ad una condanna economica anche significativa. Appare quindi evidente la funzione esercitata: mantenere alto il livello di povertà. Ciò è funzionale, inoltre, alla produzione di quello sterminato esercito di riserva industriale, necessario per mantenere basso il costo del lavoro o, peggio, per ingrossare le fila della criminalità. Purtroppo, spesso, parlando genericamente, finiamo per cogliere un elemento puramente sovrastrutturale ed invece bisognerebbe andare al cuore della relazione di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. è proprio in quello spazio strutturale che può essere letta la funzione dei tribunali».
Anche Nardella, quindi, conferma quanto si diceva più su rispetto ai dispositivi giuridici e normativi approntati dalla governamentalità neoliberista.
Nel corso della serata, la compagna e attrice, Marcella Vitiello, ha poi letto alcuni passaggi tratti dal libro di Pietro Ioia, Cella 0, in cui l’autore fornisce una testimonianza sconvolgente delle atroci violenze subite dal reparto dei GOM (Gruppo Operativo Mobile) di Polizia Penitenziaria –istituiti, nel 1999, dall’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Oliviero Diliberto – all’interno del carcere di Poggioreale, dove i detenuti venivano condotti all’interno della cella 0, appunto, e torturati senza sosta.
La Vitiello ha anche letto, di seguito, uno stralcio del documento redatto da Nadia Desdemona Lioce sulla sua permanenza al regime di 41 bis e una commovente, dolorosa e spietata testimonianza di Vittorio Bolognesi – ex Br.-PG – riguardante il momento del suo arresto e le indicibili crudeltà (waterboarding, per dirne una) messe in atto dalla squadretta di torturatori alle dipendenze dell’allora questore Nicola Ciocia – meglio conosciuto con il soprannome di Dottor de Tormentis, aguzzino di molti compagni, il quale, in un’intervista, si dichiara ancora “fascista mussoliniano”, col busto del duce sulla libreria – e dei vice questori Ciccimarra e Improta.
Infine, vorrei chiudere con una riflessione personale. Oggi, i detenuti sottoposti al 41bis non possono leggere né scrivere, perché i regolamenti carcerari vietano loro, tra altri impedimenti e vessazioni (schiaffi, calci, pugni, manganellate, perquisizioni corporali eseguite con denudamento totale, ecc) – di possedere libri, carta e penna.
Durante il fascismo, Antonio Gramsci – dissidente, comunista e condannato alla reclusione e al confino – poté invece lasciarci nientemeno che I quaderni dal carcere. Un paradosso inconcepibile!
Questa è la “democrazia” liberal-borghese delle elite finanziarie – bianche, razziste e classiste – che invocano, a chiacchiere e ad ogni pie’ sospinto, i diritti umani, mentre reprime nel sangue, il dissenso nelle strade e relega e nasconde, nella tante Celle 0 disseminate nei carceri speciali italiani, destinati al 41 bis, non solo i mafiosi (enorme alibi con cui giustificare ogni iniquità giudiziaria), ma anche gli oppositori politici, la povertà, i diseredati, insomma quelli che vengono considerati gli scarti inutili di una società che si vorrebbe esclusivamente efficiente, bella, pulita, uniforme, opulenta. Umanamente disumana.
Questa è una democrazia totalitaria. Questa è una democrazia fondata sulla giustizia di classe!
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