Queste brevi citazioni estrapolate da Giuseppe Sini, e postate su Facebook, provano ad illuminare un singolare rovesciamento tra produzione di merci e loro valorizzazione sul mercato che avviene quotidianamente senza che nessuno ci faccia caso.
Sul piano della teoria marxiana, il fatto che merci prodotte con un tasso di composizione organica molto basso (nei vari Sud del mondo, quelli metropolitani compresi) siano vendute a prezzi eccedenti molte volte il costo del lavoro e delle materie prime in esse contenuto, non è una novità sorprendente.
La novità (relativa) sta nel fatto che viene pesantemente distorto il rapporto tra il Pil effettivamente prodotto in un paese e il suo riconoscimento ufficiale da parte degli istituti sovranazionali.
Ricordiamo, en passant, che il Pil è uno dei criteri principali per la valutazione dello stato di salute di un paese, della solidità del suo debito pubblico e privato, del suo ruolo nel mondo. Ossia la base per la definizione di politiche economiche sia a livello globale che nazionale.
Dite la vostra.
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“I consumatori che indossano indumenti prodotti nelle fabbriche tessili del Bangladesh sono posti di fronte al concreto legame con coloro le cui mani hanno realizzato tali merci, nonché alla disperata esistenza di questi ultimi. Come un intenso fascio di raggi x, l’onda d’urto del Rana Plaza ha portato alla luce la struttura interna dell’economia globale, mettendo bruscamente in rilievo un fatto fondamentale, e generalmente oscurato, circa il capitalismo globale: ovvero, che la sua buona salute si basa sui tassi estremi di sfruttamento nei paesi a basso salario, nei quali è stata trasferita la produzione di beni di largo consumo e di fattori produttivi intermedi.
[…]
I salari da fame, le fabbriche simili a trappole mortali e i fetidi slum del Bangladesh, sono rappresentativi della condizione di centinaia di milioni di lavoratori in tutto il Sud globale, fonte del plusvalore che sostiene i profitti e alimenta l’insostenibile sovraconsumo dei paesi imperialisti. La popolazione del Bangladesh, inoltre, è in prima linea rispetto a un’altra disastrosa conseguenza dello sconsiderato sfruttamento capitalistico del lavoro vivo e della natura: “il cambiamento climatico”, il quale si dovrebbe definire più accuratamente come distruzione capitalistica della natura.”
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Il crollo del Rana Plaza, tuttavia, non ha solo fato luce sullo spietato ed estremo sfruttamento dei lavoratori del Bagladesh, ma ha anche esposto la struttura nascosta dell’economia capitalistica globale, rivelando quanto il rapporto capitale-lavoro si divenuto ormai un rapporto tra capitale del Nord e lavoro del Sud. L’industria tessile è stato il primo settore a spostare la produzione nei paesi a basso salario, ma potere e profitti rimangono saldamente nelle mani delle aziende dei paesi imperialisti. Una realtà ben differente dalle fantasie profuse dagli apologeti del neoliberismo.
[…]
Soffermandosi brevemente a riflettere, emergono altri beneficiari: i capitalisti commerciali che possiedono gli edifici affittati dai rivenditori, la miriade di compagnie che forniscono loro pubblicità, sicurezza ed altri servizi; ancora, i governi, che ne tassano i profitti ed i salari dei dipendenti, incassando l’IVA su ogni vendita. Eppure, secondo i dati commerciali e finanziari, non un solo centesimo dei profitti delle aziende statunitensi, europee e Giapponesi, e delle entrate fiscali dei governi, deriverebbe dal duro lavoro di coloro che realizzano effettivamente i loro beni. Gli enormi margini (mark up) sui costi di produzione appaiono come “valore aggiunto” in Gran Bretagna e altri paesi, nei quali tali beni vengono consumati. Il perverso risultato è che ogni capo d’abbigliamento espande il PIL del paese in cui viene consumato, ben più di quello in cui viene prodotto. Solo un economista può pensare che in tutto ciò non vi sia niente di sbagliato.”
John Smith, Imperialism in the Twenty-First Century, Globalization, Super-Exploitation, and Capitalism’s Final Crisis, Montlhy Review Press, 2016, (1. The Global Commodity, pp. 9, 10, 11).
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