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La “nostra” Africa. missioni italiane e…

e guerre ai migranti a Sud del Mediterraneo

Il ridimensionamento della presenza militare in Iraq e Afghanistan e sei nuove operazioni, cinque nel continente africano e una in ambito NATO per la sorveglianza dello spazio aereo alleato. È quanto previsto dal decreto di finanziamento delle missioni internazionali delle forze armate predisposto dal governo Gentiloni-Minniti-Pinotti per il periodo compreso tra l’1 gennaio e il 30 settembre 2018, poi prorogate senza modifiche dall’esecutivo Conte-Salvini-Di Maio sino alla fine dell’anno. Per gli impegni del tricolore in terra africana è prevista una spesa di oltre 118 milioni di euro in nove mesi, il 15% dell’ammontare dei costi delle missioni di guerra in mezzo mondo; i 1.234 militari impiegati costituiscono il 19% di tutto il personale della Difesa schierato fuori dai confini nazionali.

Per comprendere le ragioni del rilancio delle avventure coloniali italiane in Africa è utile riportare alcuni dei passaggi della Relazione delle Commissioni Affari Esteri e Difesa della Camera dei Deputati sulla Delibera del Consiglio dei Ministri in merito alla partecipazione alle operazioni militari internazionali, approvata il 16 gennaio 2018. “Le nuove missioni si concentrano in un’area geografica – l’Africa – che riveste interesse strategico prioritario per l’Italia, che, oltre a dover gestire i flussi migratori provenienti da tale continente, deve affrontare il rischio che un rallentamento del processo di pacificazione e di consolidamento delle istituzioni politiche della Libia sfoci in un nuovo fattore di minaccia per i propri interessi nazionali e per la sicurezza del bacino del Mar Mediterraneo”, riporta il documento.

“Gli interventi previsti in Africa si concentrano su attività utili a incrementare la sicurezza e la stabilità internazionali (costruzione di capacità – capacity building) a favore di Paesi impegnati nella lotta al terrorismo e ai traffici illegali internazionali (…) Nella regione del Sahel molti Paesi continuano ad incontrare difficoltà nel controllo dei rispettivi territori e frontiere e si trovano a far fronte ad una minaccia terroristica che si salda con traffici criminali e disagio sociale ed economico di ampie fasce di popolazione; nel Corno d’Africa la minaccia di al Shabab rimane sempre molto alta e impedisce un avvio più deciso di una ripresa in Somalia”.

Nello specifico, le nuove operazioni che vedono protagoniste le forze armate italiane nel continente sono scaturite da accordi bilaterali (le missioni di assistenza in Libia e Niger) o da impegni assunti con le Nazioni Unite (United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara MINURSO), l’Unione europea (European Union Training Mission nella Repubblica Centrafricana – EUTM RCA) e la NATO (Tunisia). A queste si aggiunge anche il “rafforzamento” della presenza italiana nelle operazioni avviate dall’Unione europea nella regione del Sahel (EUCAP NigerEUCAP Mali ed EUTM Mali) e, contestualmente, il comando della Cellula di Coordinamento Regionale delle tre missioni stesse.

“La nuova missione di assistenza e supporto in Libia, che integra le attività della precedente missione denominata Operazione Ippocrate, conferma il carattere prioritario dell’impegno dell’Italia per la pace e la stabilità del Paese”, aggiungono le Commissioni Esteri e Difesa della Camera dei Deputati nella loro relazione di gennaio. “La riorganizzazione degli impieghi nella nuova missione militare su base bilaterale in Libia ha l’obiettivo di rendere l’azione italiana di assistenza e supporto del Governo nazionale libico più incisiva ed efficace; l’ulteriore nuova linea di impegno militare dell’Italia, rivolta al Niger, avviene nel contesto di un complessivo innalzamento di livello delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, legati tra loro da una solida alleanza di tipo strategico corroborata da un impegno di lungo corso nella regione saheliana e nello stesso Niger attraverso gli strumenti della cooperazione allo sviluppo, anche grazie alle risorse stanziate con il cosiddetto Fondo Africa, nell’obiettivo di promuovere il controllo del territorio ed il contrasto dei traffici illeciti, a partire da quello di essere umani (…) Le missioni in Libia ed in Niger sono, quindi, strategicamente rivolte anche a contrastare l’endemizzazione di questo fenomeno, che sovrappone terrorismo e attività criminale…”.

Nero su bianco, si ripropone la falsa narrazione del binomio terrorismo-migrazioni, mentre per fronteggiare la presunta minaccia rappresentata dai terroristi-migranti si fondono insieme l’intervento militare e gli “aiuti allo sviluppo”, le strategie bellico-sicuritarie e la “cooperazione”.

Il gran ritorno in Libia per governare e arrestare le migrazioni

La sicurezza del Mediterraneo necessita di una Libia unita, stabile e pacificata. L’Italia ha assunto un ruolo di primo piano nella gestione della crisi, sviluppando con Tripoli una partnership multisettoriale che ha già conseguito risultati importanti nel campo del contrasto al terrorismo e della riduzione dei flussi migratori. Ci muoviamo sulla base di alcuni principi cardine: ricerca di una soluzione politica alla crisi; sostegno alle Istituzioni previste dall’Accordo Politico Libico; appoggio all’azione delle Nazioni Unite per promuovere, nel rispetto dell’ownership libica, un processo inclusivo di riconciliazione nazionale”. Così si legge nel rapporto dal titolo La strategia italiana nel Mediterraneo. Stabilizzare le crisi e costruire un’agenda positiva per la regione, redatto dal Ministero degli Affari Esteri in occasione del meeting MED – Mediterranean Dialogues, tenutosi a Roma nel luglio 2017.

L’Italia si è fatta portavoce delle richieste libiche di assistenza anche in ambito UE, ottenendo che il Paese beneficiasse, dal 2016 ad oggi, di oltre 160 milioni di euro per interventi di stabilizzazione, emergenza e protezione dei migranti”, prosegue il rapporto della Farnesina. “Abbiamo proposto alla Commissione un vasto progetto di sostegno alle autorità libiche nella gestione integrata delle frontiere (IBM) e nella promozione di iniziative di sviluppo economico-sociale nelle aree lungo i confini meridionali. Il progetto IBM prevede un finanziamento per il primo anno di 46,3 milioni di euro, cui l’Italia contribuisce con 12,2 milioni di euro. La collaborazione con le autorità libiche nel contrasto al traffico di esseri umani è sempre più efficace grazie all’intenso lavoro della Commissione Congiunta prevista dal memorandum del 2 febbraio 2017 (…) La Commissione ha identificato inoltre, tra le priorità strategiche dell’azione congiunta dei due Paesi, il rafforzamento del sistema di controllo dei confini meridionali della Libia, quale misura complementare per prevenire il traffico illegale di esseri umani”.

Oltre a contribuire al progetto di gestione integrata delle frontiere, lo scorso anno l’Italia ha assicurato alle autorità di Tripoli 5,2 milioni di euro in “interventi di sviluppo” e 15 milioni di euro in “aiuti umanitari e attività di emergenza”. Quattro motovedette sono state consegnate alla Guardia costiera della Marina militare libica, mentre nell’aeroporto militare di Mitiga, a pochi chilometri da Tripoli, è stata installata una torre di controllo mobile e il personale italiano sta formando i controllori di volo libici.

Con il coordinamento e il supporto tecnico della Marina Militare italiana, le unità fedeli al governo libico hanno esercitato sino allo scorso mese di luglio, in forma limitata, il controllo sulla zona SAR (Search and Rescue) di ricerca e salvataggio dei naufraghi e di tutte le persone in situazioni di pericolo in mare. L’area d’intervento era stata determinata in precedenza dalle autorità marittime italiane su mandato dell’Unione europea. Oggi ufficialmente sono i libici ad aver assunto la responsabilità di intervenire in quella che è divenuta la Regione Marittima Lybia SAR, assai simile a un grande trapezio scaleno con il vertice superiore sinistro che sfiora l’arcipelago tunisino di Kerkenna, mentre con quello destro l’isola di Creta. In quest’area Tripoli dovrebbe coordinare autonomamente le risposte di pronto intervento, assicurando altresì il personale e i mezzi perché i migranti soccorsi in mare possano raggiungere un “porto sicuro”.

Quando esse si verificano, gli interventi si trasformano in vere e proprie deportazioni manu militari dei richiedenti asilo verso le città costiere e i lager-hotspot sparsi in tutto il paese nordafricano. Tra i primi effetti del trasferimento di competenze SAR da Roma e Tripoli c’è ovviamente la forte riduzione del numero di persone che hanno raggiunto il sud Italia dalle coste libiche, cosa che ovviamente ha soddisfatto governo e parlamentari di maggioranza e opposizione ma che ha invece prodotto conseguenze drammatiche sulle condizioni di vita (o sulla vita stessa) di decine di migliaia di cittadini africani o mediorientali.

Nel 2018 il numero dei migranti riportati in Libia è stato superiore a quello dei migranti che sono riusciti ad approdare in Italia. Secondo i dati forniti dalla Guardia costiera di Tripoli le persone intercettate dalle motovedette libiche dall’inizio dell’anno sono state 14.500, mentre solo 12.543 sono quelle che, sulla rotta libica, sono sbarcate in Italia. Di contro si assiste al cinico balletto sui dati dei morti in mare: secondo le ultime cifre diffuse dall’OIM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, nei primi dieci mesi dell’anno sono 1.839 le persone che hanno perso la vita nel loro tentativo di attraversare il Mediterraneo.

Intanto l’Italia continua a recitare la parte di piccola potenza neocoloniale in terra libica. Dal gennaio 2018 la presenza delle forze armate italiane è stata potenziata in uomini, mezzi e funzioni nell’ambito della Missione bilaterale di assistenza e supporto (MIASIT) al Governo di accordo nazionale di Fayez Serraj. La nuova missione in Libia prevede un impiego massimo di 400 militari (compresi i 300 già precedentemente schierati con l’Operazione Ippocrate), più 130 tra mezzi terrestri, navali e aerei, questi ultimi provenienti dal dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro.

Il contingente comprende unità con compiti di addestramento, consulenza, assistenza, supporto e mentoring; unità per il supporto logistico generale e per lavori infrastrutturali; una squadra rilevazioni contro minacce chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari (CBRN); unità con compiti di force protection; personale sanitario. Il fabbisogno finanziario della missione è stato stimato in 34.982.433 euro per il solo periodo compreso tra l’1 gennaio e il 30 settembre 2018.

MIASIT ha l’obiettivo di sostenere le autorità libiche nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento delle attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, in armonia con le linee di intervento decise dalle Nazioni Unite”, ha specificato il Governo italiano. Diverse le attività svolte dal personale impiegato: si va dalla formazione delle forze di sicurezza locali all’organizzazione di corsi di sminamento, all’assistenza sanitaria, al ripristino dell’efficienza degli assetti terrestri, navali ed aerei comprese le relative infrastrutture, alle attività di capacity building, ecc.. Sono previste pure la “possibilità di svolgere attività di collegamento e consulenza a favore della Marina e Guardia costiera libica e la collaborazione per la costituzione di un Centro operativo marittimo in territorio libico per la sorveglianza, la cooperazione marittima e il coordinamento delle attività congiunte”.

Attraverso la nuova missione in Libia si è inteso riconfigurare in un unico dispositivo le attività di supporto sanitario e umanitario previste dall’Operazione Ippocrate e di alcuni compiti previsti dalla missione in supporto alla Guardia costiera, fino ad ora inseriti tra quelli svolti dal dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro, a cui si aggiungono ulteriori attività richieste dal Governo di Accordo nazionale libico”, spiegano le autorità italiane. La missione “sanitaria” dell’Esercito è operativa nella città di Misurata con un ospedale da campo con 30 posti letto, dove i medici italiani curano i combattenti e i civili libici feriti durante i combattimenti nell’area di Sirte, mentre la Marina opera ad Abu Sittah, il porto militare di Tripoli, assistendo le operazioni della Guardia costiera libica equipaggiata con quattro motovedette donate dall’Italia. Tre mesi fa, il parlamento italiano ha autorizzato la cessione di altre 12 motovedette alla Guardia costiera libica (dieci della classe 500 e due della classe Corrubia già in dotazione alla Guardia costiera italiana) per “contenere il flusso di immigrati clandestini verso l’Europa e ad assicurare il controllo della zona SAR libica senza l’aiuto delle forze navali straniere”. La prima unità dotata di cannone e mitragliatrici è stata consegnata il 21 ottobre scorso; l’Italia s’incaricherà della manutenzione di tutte le imbarcazioni e dell’addestramento degli equipaggi per una spesa di 2,5 milioni di euro. Prevista un’opzione per la consegna ai libici di altre 17 motovedette.

Sempre a Tripoli si alternano periodicamente le navi ausiliarie della Marina italiana destinate alle attività di ripristino dell’efficienza di mezzi navali libici e che dal luglio 2017 ad oggi hanno consentito di riparare sei unità della Marina e tre della Guardia costiera, “consentendo di incrementare la capacità della forze marittime nel contrastare i traffici illeciti e la tratta di esseri umani nelle aree di propria responsabilità”. La manutenzione delle motovedette è realizzata grazie ai tecnici della nave officina Caprera. L’unità della Marina Militare svolge anche compiti di coordinamento tra le forze navali libiche e quelle italiane ed europee per la ricerca e soccorso (SAR). In acque territoriali libiche viene inoltre schierato periodicamente un dispositivo aeronavale “integrato da capacità ISR”, ovvero di acquisizione di informazioni operative (intelligence), sorveglianza (surveillance) e ricognizione degli obiettivi (reconnaissance). Anche l’Aeronautica Militare è coinvolta nelle attività di assistenza tecnica degli avieri libici per rimettere in condizioni di volo i cargo militari C-130H “Hercules” basati nell’aeroporto di Mitiga.

Quest’anno tra le novità più rilevanti della partnership italo-libica spicca l’invio di istruttori e consiglieri militari per addestrare le milizie fedeli al governo. La scelta della Difesa è caduta sugli uomini del 2° Reggimento “San Marco”, l’unica unità specializzata nelle operazioni di interdizione marittima con capacità assalto ogni tempo. Il contingente inviato in Libia è composto da 151 fanti di Marina e da due unità cinofile addestrate alla difesa delle installazioni e alla ricerca esplosivi. Intanto proseguono in Italia e nel paese africano le attività addestrative della Guardia costiera locale: ad oggi sono stati “formati” oltre 220 addetti. Presso il Comando della Marina Militare di Brindisi sono stati avviati i corsi d’indottrinamento anfibio per i marinai libici addetti alla gestione delle frontiere e alla lotta al traffico di migranti, a seguito di un accordo tecnico firmato nel novembre 2017 tra il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) ed il Ministero della Difesa. I corsi hanno una durata di sei settimane e vedono i partecipanti impegnati in esercitazioni presso la sede della Brigata Marina “San Marco” e in alcune aree addestrative pugliesi (Torre Cavallo, Massafra, San Vito dei Normanni, ecc.). Ulteriori attività di formazione delle forze armate libiche sono in corso presso le installazioni della Marina nell’isola de La Maddalena, Sardegna.

Come abbiamo visto, l’addestramento dei militari libici in funzione anti-migrazione o lo stesso supporto tecnico alla Guardia Costiera e alla Marina Militare nazionale, sono svolti anche nell’ambito di Mare Sicuro, l’operazione avviata nel marzo 2015 con lo schieramento di un dispositivo navale nel Mediterraneo centrale. Le unità d’altura impiegate operano in un’area di mare di circa 160.000 km quadrati, “assicurando la tutela degli interessi nazionali, la protezione delle linee di comunicazione e delle navi commerciali in transito, la protezione delle fonti energetiche strategiche e la sorveglianza dei possibili movimenti delle formazioni jihadiste, ecc.”. Anche Mare Sicuro ha visto crescere il numero degli effettivi e dei mezzi impiegati rispetto al 2017: da 700 a 745 militari e da cinque a sei navi, mentre restano cinque i velivoli aerei, per una spesa complessiva nei primi nove mesi del 2018 di 63,4 milioni di euro (66,78 milioni il costo dell’operazione in tutto il 2017). Alle attività “controllo e contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani” connesse con l’Operazione Mare Sicuropartecipano con sempre maggiore frequenza gli equipaggi del 41° Stormo Antisom dell’Aeronautica Militare di stanza nella base siciliana di Sigonella, con il nuovo pattugliatore marittimo ognitempo P-72A.

È stato ampliato anche l’intervento della Guardia di Finanza a favore della Guardia costiera libica: il numero degli addetti militari è passato da 25 nel 2017 a 35 nel 2018 (più un mezzo navale), per un costo complessivo di 1,6 milioni. Lo scorso anno la Guardia di Finanza aveva intensificato le iniziative addestrative realizzando nove corsi rivolti a circa 200 funzionari delle Agenzie di law enforcementlibiche e di altri Paesi dell’Africa sub-sahariana (Niger, Ciad, Burkina Faso, Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Mauritania, Seychelles). Va inoltre rilevato che a fine 2017 un team di istruttori e mezzi terrestri italiani è stato inviato nel sud del paese per addestrare le guardie di confine. Nello stesso periodo, ufficiali del Comando operativo interforze dello Stato Maggiore della Difesa e del genio dell’Esercito, in coordinamento con il Dipartimento centrale dell’Immigrazione e il supporto finanziario dell’Unione europea, hanno effettuato i primi sopralluoghi a Ghat, nella Libia sud-occidentale al confine con Algeria, Niger e Ciad, in vista di una nuova missione multinazionale UE e/o NATO nella vasta regione del Fezzan, interessata dalle principali rotte migratorie africane e dove le centrali d’intelligence occidentali hanno segnalato la presenza di “miliziani dello Stato Islamico”.

Personale italiano opera infine nell’ambito di EUBAM Libia (European Union Integrated Border Management Mission in Libya), la missione istituita nel maggio 2013 dall’Unione europea per garantire alle autorità libiche formazione, consulenza strategica e capacità nella “gestione integrata delle frontiere terrestri, marine e aeree”. Le attività vengono svolte per ragioni di sicurezza in territorio tunisino, ma nel luglio 2017 Bruxelles ha approvato la revisione strategica del mandato di EUBAM, estendendone i compiti anche alla pianificazione di una futura missione Ue in territorio libico.

Altro settore chiave dell’impegno italiano in Libia è quello relativo alla “cooperazione allo sviluppo e di sminamento umanitario”. Come riporta la relazione tecnica a cura del Ministero Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale allegata al decreto di autorizzazione delle nuove missioni internazionali, fra le priorità figura “in continuità con le attività in corso, il sostegno all’assistenza e alla protezione della popolazione migrante e rifugiata attualmente nei centri libici, nonché le attività volte a rafforzare le capacità delle comunità ospitanti di garantire i servizi essenziali, soprattutto in campo sanitario (…) Si conta anche di proseguire nella realizzazione di attività in concorso con organismi internazionali attivi nel campo della sicurezza alimentare, della salute e della protezione”. Attualmente Roma contribuisce finanziariamente al Fondo fiduciario del Dipartimento per gli Affari Politici delle Nazioni Unite per “sostenerne gli sforzi per la soluzione delle crisi in Libia, Siria e Yemen e consentire le attività di mediazione, stabilizzazione e a sostegno di transizioni democratiche”; al Fondo ONU per il “consolidamento della pace e gli interventi a favore di Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente che si trovano in situazioni di post-conflitto”; al Fondo fiduciario UNDP Immediate Assistance to the Libyan Political Dialogue and the Government of National Accord, “per rafforzare le istituzioni libiche, fornendo sostegno al Consiglio presidenziale libico e al Governo di accordo nazionale”.

Ovviamente continua ad essere il controllo del petrolio e del gas il motivo centrale del rafforzamento della partnership politico-militare tra Italia e Libia. Il 3 novembre 2018 il capo del Consiglio del Governo libico di unità nazionale, Fayez al-Sarraj, ha incontrato a Tripoli l’amministratore delegato di ENI, Claudio Descalzi. “Durante i colloqui le parti hanno discusso della situazione generale del paese, affrontando in particolare il tema della sicurezza”, riporta il comunicato emesso dall’azienda petrolifera italiana. “L’AD di ENI ha illustrato le iniziative intraprese nel settore della generazione di energia elettrica, in particolare soffermandosi sulle attività di assistenza tecnica per la manutenzione di alcune centrali nell’area di Tripoli. ENI è il principale fornitore di gas al mercato locale, interamente destinato ad alimentare le centrali elettriche del paese per una capacità di generazione elettrica di oltre 3 GW. Si è inoltre fatto il punto della situazione sullo stato dei progetti in corso di ENI in Libia. Per quanto riguarda Bahr Essalam Fase 2, avviato a luglio, continuano le attività di collegamento dei rimanenti sette pozzi che saranno concluse entro la fine del 2018. Per il progetto di aumento della capacità di compressione dell’impianto di Wafa il first gas è previsto nei prossimi giorni (…) Fatto il punto sull’andamento del negoziato dell’Exploration and Production Sharing Agreement, a seguito della lettera d’intenti firmata a ottobre tra ENI, NOC (National Oil Corporation) e BP, per l’assegnazione a ENI di una quota del 42,5% e con l’obiettivo di ricominciare le attività nel primo semestre del 2019. Il presidente di NOC e l’AD di ENI hanno infine colto l’opportunità per discutere anche di importanti progetti futuri, in particolare lo sviluppo delle strutture offshore A & E di cui è previsto a breve il lancio della gara per lo studio di ingegneria. L’implementazione di tale progetto consentirà di estendere il plateau di produzione di gas dall’offshore libico, con un notevole risparmio per il paese relativamente all’importazione di combustibili liquidi”. La società italiana a capitale pubblico si conferma così come il principale produttore internazionale di idrocarburi in Libia, dove attualmente produce 280.000 barili di petrolio al giorno.

Disavventure neocoloniali sulla rotta Tunisi-Niamey

Cresce intanto pure l’impegno militare italiano in Tunisia sempre in nome della lotta all’immigrazione irregolare. Il rapporto tra Roma e Tunisi si è consolidato sia in chiave bilaterale attraverso le attività della Commissione militare mista italo-tunisina e sia grazie alla cosiddetta Iniziativa 5+5 (formato Difesa) istituita alla fine del 2004 da dieci Paesi che si affacciano sul Mediterraneo occidentale (Algeria, Francia, Italia, Libia, Malta, Mauritania, Marocco, Portogallo, Spagna e Tunisia) e che vede attualmente l’Italia alla Presidenza di turno. L’Iniziativa 5+5 ha come obiettivo il “miglioramento della reciproca comprensione e fiducia nell’affrontare i problemi della sicurezza nell’area di interesse, tramite la realizzazione di attività pratiche e attraverso lo scambio di idee ed esperienze”.

Per l’anno in corso, la Commissione bilaterale italo-tunisina ha previsto la realizzazione di diverse operazioni militari, “con un’enfasi particolare orientata alla sicurezza marittima in termini di condivisione delle informazioni, della conoscenza dell’ambiente marino e di prevenzione e di gestione degli incidenti”. In particolare l’Aeronautica militare tunisina è stata invitata a partecipare a metà ottobre ad una vasta esercitazione aerea multinazionale nel Mediterraneo centrale (Circaete 2018), per “promuovere un uso coordinato dei relativi centri di comando e controllo, dei siti radar e dei caccia intercettori”, con il coordinamento del Comando operazioni aeree di Poggio Renatico (Ferrara).

Dai primi mesi del 2019, l’Italia prenderà parte in Tunisia ad una nuova missione multinazionale sotto il comando della NATO finalizzata a “costituire un comando interforze per la contro insurrezione e la lotta al terrorismo”. Previsto l’invio di una task force di 50-60 unità, con funzioni similari a quelle già in atto in Libia: addestramento, consulenza, assistenza e supporto delle forze armate e di sicurezza tunisine in particolare nelle attività di controllo delle frontiere; sarà pure inviato un mezzo aereo e il costo annuale dell’operazione sfiorerà i 5 milioni di euro. Attingendo dal bilancio dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, sarà finanziato pure il Fondo fiduciario della NATO per la cosiddetta iniziativa Defense capacity building (DCB) di “rafforzamento delle istituzioni e degli enti di sicurezza e difesa” dei Paesi partner dell’Alleanza. Al recente Summit di Bruxelles (11-12 luglio 2018), i capi di Stato e di governo della NATO hanno annunciato nuove misure di Defense Capacity Building per “sviluppare ulteriormente le capacità di difesa tunisine”. Il supporto della NATO, si legge nel documento finale del Summit, “includerà difesa cibernetica, dispositivi per il contrasto agli esplosivi improvvisati e la promozione di trasparenza nella gestione delle risorse”. Si prevedono attività di formazione e addestramento congiunte che potrebbero essere estese anche alle forze armate della confinante Libia.

Il governo di Tunisi è oggi uno dei più attivi partner NATO della sponda meridionale mediterranea. Nell’ambito del cosiddetto programma alleato di Dialogo Mediterraneo, dal 2014 il paese è entrato a far parte del NATO Individual Partnership and Cooperation Programme (IPCP) per rafforzare le capacità delle proprie forze armate nella lotta al terrorismo e “migliorare le condizioni di sicurezza ai propri confini”. Nel luglio 2016 il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg ha annunciato l’intenzione di realizzare un Centro di Intelligence in Tunisia (Tunisian Intelligence Fusion Centre) e di avviare l’addestramento delle forze per le operazioni speciali nazionali con un contributo finanziario di tre milioni di dollari. Il nuovo centro d’intelligence è stato approvato dal Governo il 30 dicembre 2016: avrà sede nella città portuale di Gabès e vedrà operare congiuntamente personale tunisino e della NATO. Il suo primo compito sarà quello di raccogliere ed elaborare i dati d’intelligence, ma si occuperà anche di topografia, meteorologia, transport data, elettronica, telecomunicazioni, minacce nucleare-batteriologica-chimica NBC, cyber defence, contro-spionaggio, ecc.. Al centro sarà riservata anche la raccolta e analisi delle “informazioni sensibili politiche ed economiche” relative alle “attività d’affari e finanziarie dei maggiori attori economici del paese”.

Sempre in merito all’intervento militare neocoloniale e anti-immigrazione dell’Italia nel continente africano va segnalato che il 20 settembre 2018 è definitivamente partita la Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger – MISIN, con area geografica di intervento allargata anche a Mauritania, Nigeria e Benin. La missione era stata “congelata” dalle autorità di Niamey probabilmente a seguito del pressing del governo francese preoccupato della crescente presenza italiana in una regione storicamente sotto l’influenza economica e politica di Parigi, ma alla fine è stata sbloccata anche grazie alla campagna “umanitaria” avviata nella primavera 2018 dalle forze armate italiane, concretizzatasi con la consegna alle autorità nigerine di 12 tonnellate di materiale sanitario e farmaci.

Secondo il portavoce del Ministero della difesa italiano, la missione in Niger “è stata varata nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area e il rafforzamento delle capacità di controllo del territorio da parte delle autorità nigerine e dei Paesi del G5 Sahel (Niger, Mali, Mauritania, Ciad e Burkina Faso), lo sviluppo delle Forze di sicurezza nigerine per l’incremento di capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza; per concorrere alle attività di sorveglianza delle frontiere e di sviluppo della componente aerea della Repubblica del Niger”. A metà ottobre si è concluso il primo corso per “istruttori di ordine pubblico” condotto da un Mobile Training Team dell’Arma dei Carabinieri, a cui hanno preso parte 25 tra ufficiali e sottufficiali nigerini che costituiranno il primo nucleo di formatori per i reparti della Gendarmeria. “Il corso fa parte di un più ampio pacchetto formativo che coinvolge anche le altre Forze di difesa e sicurezza del Niger addestrate anche dai militari dell’Esercito e dell’Aeronautica militare su attività di Security Force Assistance, oltre allo sviluppo di moduli formativi dedicati all’apprendimento del diritto internazionale umanitario e delle tecniche di pronto soccorso”, spiega il ministero della Difesa italiano.

Come per Libia e Tunisia, l’interventismo militare italiano nel paese dell’Africa sub-sahariana trova giustificazione nell’ottica della guerra globale e contestuale al terrore e all’immigrazione “clandestina”. Una valutazione geostrategica condivisa sia dalla maggioranza parlamentare della scorsa legislatura che da quella odierna. “In quell’area operano gruppi terroristici jihadisti (come Al-Quaeda nel Maghreb arabo – AQIM e Al-Morabitun) che traggono nuovi fondamentali canali di finanziamento, diretto e indiretto, grazie a vari tipi di traffici, tra cui quello di migranti…”, riporta la Relazione delle Commissioni Esteri e Difesa della Camera dei Deputati sulle missioni internazionali per il 2018. “L’obiettivo della missione italiana in Niger sarà quello di arginare, insieme alle forze nigerine, la tratta di esseri umani e il traffico di migranti che attraversano il Paese, per poi dirigersi verso la Libia e in definitiva imbarcarsi verso le nostre coste”, ha invece dichiarato lo scorso 20 settembre la ministra pentastellata della Difesa, Elisabetta Trenta.

Per MISIN è prevista inizialmente una presenza in Niger di 120 militari per poi giungere a 470 entro la fine dell’anno, più 130 mezzi terrestri e due aerei. Al momento non è stata rivelata la composizione del contingente, anche se si tratterà principalmente di addestratori, personale del Genio, delle trasmissioni e raccolta delle informazioni, ecc.. Secondo il sito specializzato Difesaonline.it, sarà schierata presumibilmente anche una task force con personale del 66° Reggimento aeromobile “Trieste” e i paracadutisti della Brigata “Folgore”, per “intervenire con grande celerità lungo il confine grazie all’impiego di elicotteri NH-90 e AH-129D”. Il costo annuale dell’operazione è stimato in 30 milioni di euro circa.

Le unità italiane opereranno inizialmente all’interno della base militare USA realizzata alla periferia della capitale Niamey (Air Base 101); una parte di esse si trasferirà poi anche presso l’ex fortino della Legione straniera di Madama, località settentrionale del Niger a un centinaio di chilometri dalla frontiera con la Libia. “Costruito dai francesi nel 1931 per contrastare l’espansionismo coloniale italiano, in una presunta ottica post-coloniale, invece, Madama rappresenta oggi un avamposto strategico della presenza francese nel Sahel (Operazione Barkhane, che conta 4.000 uomini e basi sparse dalla Mauritania al Ciad) nella lotta al terrorismo di stampo neo-jihadista”, scrive il giornalista Andrea de Georgio, ricercatore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) di Milano. “Questa remota località, infatti, si trova al centro delle piste sahariane attraversate da ingenti traffici illegali, soprattutto di armi, droga ed esseri umani. Se la potenza francese è presente nella regione nigerina di Agadez dal 2014 con obiettivi prettamente anti-terrorismo, l’intento sbandierato dall’Italia è quello di contrastare i flussi migratori in transito verso l’Europa. Sostanzialmente si mette in pratica il mix di dimensione esterna della sicurezza e repressione delle migrazioni irregolari sancito dal Summit di Abidjan che a fine novembre ha ridefinito i rapporti fra Europa e Africa”.

A dispetto di una diffusa retorica fondata sulla presunzione di un nesso fra criminalità organizzata e terrorismo, non è affatto detto che in Niger queste due agende siano facilmente conciliabili”, scrive Luca Ranieri, altro ricercatore dell’ISPI di Milano. “Da una parte, infatti, la lotta alla migrazione irregolare non ha fatto economia di misure repressive volte allo smantellamento delle infrastrutture di supporto alla migrazione della regione di Agadez. Impropriamente definite organizzazioni di trafficanti, tali infrastrutture presentano in realtà un’organizzazione fluida e orizzontale, più simile alla fornitura di servizi – ancorché informali – che alla struttura gerarchica della criminalità organizzata. Agli occhi delle popolazioni dell’inospitale settentrione nigerino, in effetti, l’economia della migrazione costituisce non già una minaccia, ma un’opportunità di resilienza in cui hanno trovato impiego anche molti ex-ribelli delle insurrezioni Tuareg dei decenni passati. Non a caso, al giro di vite nei confronti dei passeurs è seguito un incremento considerevole della violenza armata nella regione di Agadez, cui si accompagna un senso di frustrazione dilagante nei confronti di un governo percepito come indifferente alle esigenze della popolazione e supino ai desiderata dell’Occidente. Come dimostrato da numerose ricerche, tali dinamiche costituiscono uno dei principali fattori che concorrono alla radicalizzazione dei giovani africani verso l’estremismo jihadista”. Ricerche e analisi ovviamente del tutto ignorate dai politici e dai vertici delle forze armate, evidentemente più interessati a offrire in quest’area copertura e “difesa” militare agli interessi petrolifero-energetici del capitale pubblico e privato nazionale (ENI in testa). Con tanto di imprevedibili e pericolose conseguenze all’orizzonte. “Al di là dei mutevoli equilibri geopolitici, il Niger pare soggetto a una spirale di militarizzazione, sospinta sia dalla presenza sempre più visibile – e sempre più contestata – di forze militari straniere, sia dall’aumento vertiginoso delle spese nazionali per la difesa, aumentate di cinque volte durante la presidenza di Mohamadou Issoufou fino a sfiorare il 12% del budget statale”, aggiunge il ricercatore Luca Ranieri. “D’altra parte, l’accesso alle armi e il sostegno di potenti alleati internazionali alimentano una crescente deriva autoritaria che consente di soffocare le aspirazioni di una popolazione stremata da crisi umanitarie persistenti: arresti arbitrari, corruzione rampante, limitazione della libertà di stampa e repressione del dissenso sono in rapido e inquietante aumento”.

Ciononostante, con i 686 milioni di euro previsti dal Fondo Europeo di Sviluppo, i 220 milioni impegnati due anni fa dalla Commissione europea attraverso il Fondo fiduciario d’emergenza (Emergency Trust Fund for Africa) per affrontare le cause della migrazione in Africa ed altri finanziamenti minori per progetti di “emergenza umanitaria e riduzione dei conflitti”, il Niger è oggi il primo beneficiario nel mondo di aiuti Ue per spesa pro capite. Oltre 100 milioni di euro di finanziamenti giunti da Bruxelles (e in parte anche da Roma), sono stati utilizzati dalle autorità e dai militari nigerini per le operazioni di controllo e repressione dei flussi migratori nella regione di Agadez. E la guerra per procura dell’Unione europea ha già ottenuto i primi “successi”; secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, nel 2016 erano stati censiti in Niger 290mila migranti diretti verso la Libia, mentre nei primi cinque mesi del 2018 essi sono stati appena 24mila. Una drastica riduzione che rende perlomeno inutile (o meglio, sospetta) la missione tricolore in terra nigerina.

Dall’Atlantico al Corno d’Africa, vecchie e nuove operazioni d’oltremare

Tra le missioni in Africa che vedono operare per la prima volta da quest’anno personale italiano, compaiono quella promossa dall’Unione europea nella Repubblica Centrafricana (European Union Training Mission nella Repubblica Centrafricana – EUTM RCA) per “garantire un’adeguata formazione alle forze armate del paese” (tre militari impegnati per una spesa nei primi nove mesi del 2018 di 324mila euro) e quella delle Nazioni Unite per la “stabilizzazione del Sahara occidentale” occupato illegalmente dal Marocco nel 1976 (MINURSO – United Nation Mission for the Referendum in Western Sahara). Quest’ultima missione è stata varata con la risoluzione ONU del 1991 in conformità di una proposta di accordo accettata dal Marocco e dal Frente Polisario in vista di un referendum in cui il popolo sahrawi avrebbe scelto tra indipendenza e integrazione con Rabat, referendum che però non si è mai svolto per dirette responsabilità politiche e militari marocchine. Ignoto il motivo per cui proprio adesso l’Italia ha deciso di partecipare alla missione internazionale con due addetti militari e una spesa di oltre 302mila euro in nove mesi.

Sempre in Africa occidentale vanno segnalate pure le tre missioni delle forze armate italiane in Mali. La prima (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali – MINUSMA) ha preso il via nel 2013 a seguito delle Risoluzioni n. 2100 e 2164 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per sostenere il processo politico di transizione e aiutare la stabilizzazione del Mali; garantire la sicurezza, la stabilizzazione e la protezione dei civili; addestrare le forze di sicurezza maliane, ecc.. MINUSMAvede lo schieramento di oltre 13.000 militari di 57 Paesi; l’attuale contributo nazionale prevede, dal 1° gennaio al 30 settembre 2018, un impiego massimo di sette militari nel Quartier Generale militare dell’operazione a Bamako.

L’Italia partecipa poi a European Union Training Mission Mali (EUTM Mali), la missione di assistenza, addestramento, formazione e supporto logistico alle forze armate del Mali “al fine di concorrere al ripristino delle capacità militari necessarie alla riacquisizione dell’integrità territoriale del Paese”, varata il 17 gennaio 2013 dai Ministri degli Affari Esteri dell’Unione Europea. Sotto il comando di un generale francese (Parigi schiera autonomamente in Mali oltre 2.000 militari con l’Operazione Serval), EUTM conta su 500 militari europei, 12 dei quali italiani. Nel gennaio 2015, il Consiglio Europeo ha avviato pure EUCAP Sahel Mali per “contribuire alla stabilità e alle riforme istituzionali del Mali” e “fornire consiglio strategico e addestramento alla Polizia, alla Gendarmerie e alla Guardia Nazionale”. Anche in questo caso il contributo italiano è pressoché simbolico: quattro militari per una spesa nei primi nove mesi dell’anno di 460mila euro circa.

Da segnalare infine pure gli interventi realizzati con fondi del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale (MAECI) a “sostegno dei processi di pace, stabilizzazione e rafforzamento della sicurezza” nell’Africa sub-sahariana. “Nel Sahel si continuerà a supportare le missioni di peacekeeping e di contrasto al terrorismo quali MINUSMA in Mali, come pure la Forza G5 Sahel, la Multinational Joint Task Force per la lotta a Boko Haram nella regione del lago Ciad, nonché le principali strutture di coordinamento regionale anche in materia di sicurezza quali il Segretariato del G5 Sahel”, riporta la Relazione tecnica del MAECI sul bilancio di previsione per il 2018. La Forza congiunta dei Paesi del G5 Sahel – con militari e agenti di polizia di Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Mauritania – è stata istituita di recente per “mettere in sicurezza le frontiere, soprattutto alla luce dell’impatto della crisi libica, e lottare contro terrorismo, traffico di esseri umani, e criminalità organizzata”, grazie a un contributo finanziario straordinario di 50 milioni di euro e all’organizzazione di attività di formazione e consulenza da parte dell’Unione europea.

La Cooperazione Italiana ha individuato in Senegal, Burkina Faso e Niger i Paesi prioritari del proprio intervento, anche se alcuni progetti sono destinati pure a Guinea, Mali, Nigeria, Camerun e Ciad. “Le iniziative si concentrano prevalentemente nei settori della sicurezza alimentare, dell’educazione, della sanità, del sostegno alle fasce più vulnerabili della popolazione, della lotta ai cambiamenti climatici e del rafforzamento del settore privato locale”, spiega la Farnesina. “Una tematica trasversale è la lotta alle cause profonde delle migrazioni irregolari, che viene affrontata mediante interventi volti a creare maggiori opportunità economiche e di impiego nei Paesi di origine e transito dei migranti. In tema migratorio, la Cooperazione Italiana interviene nel Sahel anche con un’iniziativa di emergenza regionale che coinvolge Senegal, Mali, Guinea Conakry, Guinea Bissau e Gambia…”.

Particolarmente rilevanti per il numero del personale impiegato ed i relativi costi le missioni delle forze armate italiane in Corno d’Africa. Con la possibilità di impiegare contestualmente sino a 407 militari, due mezzi navali e due aerei per una spesa di poco meno di 23 milioni e mezzo di euro nei primi nove mesi del 2018, l’operazione “antipirateria” EUNAVFOR Atalanta è certamente la più grande. Decisa dal Consiglio Europeo nel 2008, essa è la “prima operazione militare a carattere marittimo a guida europea con l’obiettivo di prevenire e reprimere gli atti di pirateria nell’area del Corno d’Africa (Mar Rosso, Golfo di Aden e bacino somalo) che continuano a rappresentare una minaccia per la libertà di navigazione del traffico mercantile e in particolare per il trasporto degli aiuti umanitari del World Food Program”, riporta il Ministero della difesa. Tra i compiti di EUNAVFOR Atalanta rientrano anche le attività di addestramento a favore delle forze armate e di polizia di buona parte dell’Africa orientale nel “contrasto alle attività illecite”. I gruppi navali attivati dall’Unione europea possono operare inoltre nel pattugliamento e nella sorveglianza aero-marittima dell’area d’intervento accanto a quelle attivate “su chiamata” dall’Alleanza Atlantica (Operazione Ocean Shield), sotto il comando e controllo NATO/UE. L’Italia, oltre a fornire una fregata multi missione FREMM, contribuisce ad EUNAVFOR Atalanta con il contingente interforze che opera a Gibuti, composto da 90 militari e 17 mezzi terrestri.

Sempre in Corno d’Africa è operativa la missione EUTM Somalia, avviata dall’Unione europea nell’aprile 2010 per “contribuire, in cooperazione con altri partner internazionali, allo sviluppo delle istituzioni preposte al settore della sicurezza in Somalia”. Nei primi due anni di vita la missione si era articolata in attività di addestramento delle unità somale destinate al controllo di Mogadiscio presso il Bihanga Training Camp in Uganda. A partire del maggio 2013, EUTM Somalia ha schierato pure un team di assistenza e formazione presso l’aeroporto internazionale di Mogadiscio. Dal 16 febbraio 2014 il comando della missione europea è affidato ad un generale italiano; il nostro paese impiega annualmente sino a un massimo di 123 militari e 20 mezzi terrestri, per un costo mensile che sfiora il milione di euro.

Altra missione è EUCAP – European Union Capacity Building Mission in Somalia (fino al febbraio 2017 denominata EUCAP Nestor), avviata dall’Ue nel dicembre 2011 come “operazione civile” anche se vede la partecipazione di personale militare in qualità di advisor per “rafforzare la capacità degli Stati della regione del Corno d’Africa e dell’Oceano Indiano occidentale nella gestione delle rispettive acque territoriali, nell’applicazione del diritto marittimo, nel contrastare i traffici e combattere la pirateria, ecc.”. L’attuale contributo nazionale è di tre militari.

In seguito all’accordo sottoscritto una decina di anni fa tra le autorità italiane e quelle della Repubblica di Gibuti e della Somalia è stata attivata la Missione bilaterale di addestramento delle forze di polizia somale e gibutiane – MIADIT Somalia; essa è affidata ad un team di militari specializzati dell’Arma dei Carabinieri di stanza a Gibuti, con l’obiettivo di “creare le condizioni per la stabilizzazione della Somalia e dell’intera Regione del Corno d’Africa, mediante l’accrescimento delle capacità operative delle forze di polizia somale e l’addestramento delle forze di polizia gibutiane”. I cicli formativi prevedono lezioni di antiterrorismo, tecniche investigative, intelligence, controllo dell’ordine pubblico con istruttori del Gruppo Intervento Speciale dell’Arma (GIS) e dal 1° Reggimento Paracadutisti “Tuscania”. Secondo Il Comando generale dei Carabinieri, sino ad oggi sono stati addestrati 1.500 poliziotti somali e 850 gibutiani; il contributo nazionale prevede un impiego massimo di 53 militari e la fornitura di quattro mezzi.

Oltre ad essere attiva in prima persona in Corno d’Africa, l’Arma dei Carabinieri opera nella “formazione” delle forze armate e di sicurezza di numerosissimi paesi africani grazie all’hub addestrativo/dottrinale di eccellenza in tema di polizia di stabilità realizzato all’interno della caserma “Chinotto” di Vicenza e cogestito attraverso tre diversi organismi strategici internazionali: CoESPU (Centre of Excellence for Stability Police Units); NATO SP COE (Stability Policing Centre of Excellence); la Forza di Gendarmeria Europea (Eurogendfor). Il CoESPU è stato istituito nel 2005 in occasione del Vertice G8 di Sea Island (USA) e vede i Carabinieri operare congiuntamente con l’esercito statunitense di stanza a Vicenza per incrementare le capacità delle forza di polizia, “soprattutto del continente africano” nel contrasto delle “minacce derivanti dalla criminalità, dai perturbamenti all’ordine pubblico e dal terrorismo”. Il Centro di Eccellenza NATO per le Polizie di Stabilità (NATO Stability Policing Centre of Excellence) è stato istituito recentemente e posto alle dipendenze funzionali del NATO Allied Command for Transformation (ACT) di Norfolk, Virginia, con lo scopo di “fornire all’Alleanza Atlantica uno strumento di pensiero e di formazione in tema di polizia di stabilità e accrescere il contributo militare della NATO alla ricostruzione in scenari post bellici”. Al Centro di Vicenza sono attualmente distaccati militari di Italia, Francia, Spagna, Paesi Bassi, Romania, Turchia, Repubblica Ceca e Polonia.

Nell’hub della “Chinotto” trova anche collocazione il quartier generale di Eurogendfor, struttura di comando e di pianificazione con “naturale vocazione” verso l’Unione Europea, ma attiva anche nei confronti di altre organizzazioni internazionali (ONU, NATO, OSCE, ecc.). “La Forza di Gendarmeria Europea è un’organizzazione multinazionale di Forze di Polizia a statuto militare, nata da un’iniziale intesa tra i cinque Paesi Membri dell’Unione Europea in possesso di tali capacità di gendarmeria: Francia, Italia, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna, ai quali si è aggiunta la Romania nel 2008 e la Polonia nel 2012 e costituita, per Trattato, con lo scopo di rafforzare le capacità di gestione delle crisi internazionali e contribuire alla Politica di Difesa e Sicurezza Comune”, riporta il sito ufficiale di Eurogendfor. “Una delle caratteristiche principali è la flessibilità dei suoi assetti, dedicati allo svolgimento di attività di polizia di stabilità, sia di tipo esecutivo che di rafforzamento, e che possono essere posti sia sotto catena di comando militare, in caso di conflitto ad alta intensità, che sotto catena di comando civile e sono in grado di agire autonomamente o unitamente ad altre forze”.

In prima linea in Corno d’Africa anche l’Agenzia della Cooperazione Internazionale allo Sviluppo. “Si intende continuare a rafforzare le strutture di sicurezza della Somalia e in particolare la polizia, per contribuire alla stabilizzazione del nuovo Stato federale”, riporta la Relazione finanziaria di fine 2017 del Ministero Affari Esteri e della Cooperazione. “Una forza di polizia ben strutturata ed equipaggiata è infatti determinante per rispondere alle minacce asimmetriche a cui la Somalia deve far fronte. Pur nel quadro di una exit strategy di AMISOM, la Missione dell’Unione Africana in Somalia, si confermerà il contributo italiano allo sforzo delle Nazioni Unite a favore delle Forze Armate somale”.

Nel Mediterraneo le flotte UE e NATO fanno la guerra ai migranti

Per quella che ormai può essere definita a ragione la guerra globale dell’Unione europea (e relativi partner) alle migrazioni e ai migranti, è operativa nel Mediterraneo centrale dal giugno 2015 EUNAVFOR MED, la flotta aeronavale varata dal Consiglio Europeo come misura chiave per “individuare, fermare e mettere fuori uso imbarcazioni e mezzi usati o sospettati di essere usati dai trafficanti di esseri umani nel pieno rispetto del diritto internazionale”, così come si legge nel sito ufficiale del Ministero della difesa italiano. In una prima fase l’intervento militare Ue era stato orientato alla raccolta di informazioni di intelligence e alla “caccia attiva ai trafficanti di essere umani, prima in acque internazionali, poi nelle acque territoriali e interne della Libia, previo mandato delle Nazioni Unite e approvazione del paese interessato”. Il 20 giugno 2016 il Consiglio Europeo ha rinforzato il mandato di EUNAVFOR MED: alla soprannominata Operazione Sophia sono stati aggiunti altri importanti compiti: l’addestramento della Guardia costiera e della Marina militare libica; lo scambio di informazioni e intelligence con il governo di Tripoli; il “contributo all’embargo marittimo delle armi dirette alla Libia” in accordo alla risoluzione delle Nazioni Unite 2292 del 2016. Oggi sono 26 i Paesi dell’Unione europea che contribuiscono alla missione, il cui mandato scade formalmente alla fine dell’anno ma che prevedibilmente sarà prorogata almeno sino al dicembre 2019. L’Italia fornisce il contributo maggiore alla missione con 470 militari, un mezzo navale e due mezzi aerei; il quartier generale di EUNAVFOR MED – Sophia è situato all’interno dell’aeroporto militare di Roma Centocelle, mentre dal 1° febbraio 2018 l’unità da trasporto anfibio “San Giusto” ha assunto il compito di nave-comando. A consolidare il ruolo chiave del nostro paese nelle attività aeronavali UE anche l’utilizzo dello scalo di Sigonella come Forward Operating Base (Base Operativa Avanzata) di EUNAVFOR MED. Dalla grande stazione aeronavale siciliana (già a disposizione delle forze armate USA e NATO) operano gli assetti stranieri impiegati dall’Operazione Sophia e provenienti da Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Spagna e Svezia. Al personale del 41° Stormo dell’Aeronautica italiana sono assegnate le funzioni di “supporto di tutte le operazioni a terra di accoglienza e ricovero degli equipaggi, dal rifornimento di carburante, al servizio meteorologico, al controllo del traffico aereo, alla sicurezza delle infrastrutture”. Dal settembre 2013 tra gli assetti internazionali operativi a Sigonella ci sono pure i contingenti aerei di Frontex/Triton, con lo scopo di coordinare il pattugliamento delle frontiere degli Stati membri e “favorire gli accordi per la gestione dei migranti”. Sempre per monitorare le acque del Mediterraneo e individuare le imbarcazioni in rotta verso le coste dell’Italia meridionale, a partire del marzo 2014 l’Aeronautica Militare ha rischiarato a Sigonella alcuni velivoli a pilotaggio remoto “Predator” provenienti dalla base aerea di Amendola (Foggia); per gestire le operazioni dei droni, il 10 luglio 2017 è stato attivato nella base siciliana il 61° Gruppo Volo AMI. Questi velivoli si interfacceranno con l’AGS (Alliance Ground Surveillance), il sistema di sorveglianza terrestre in via di implementazione da parte della NATO, basato sui droni-spia “Global Hawk” di ultima generazione. Nella stazione di Sigonella saranno dislocati il comando e cinque droni AGS, più le componenti dell’Alleanza che si dedicheranno alla manutenzione dei velivoli, all’analisi e diffusione dei dati raccolti e all’addestramento del personale operativo.

I mezzi impiegati nell’operazione EUNAVOR MED/Sophia si coordinano con le attività delle unità NATO schierate nel Mediterraneo. Per “assicurare maggiori sinergie e sfruttare le peculiarità di ciascuna organizzazione”, è stata avviata una partnership con la NATO Sea Guardian, l’operazione varata al summit dell’Alleanza Atlantica di Varsavia del luglio 2016 e operativa dal novembre dello stesso anno grazie ad un cospicuo numero di uomini, unità navali, aerei e sottomarini forniti da dieci paesi alleati. “Noi intendiamo lavorare a stretto contatto con l’Operazione Sophia nel Mediterraneo centrale, sulla base di una rapida ed effettiva cooperazione con l’Unione europea per interrompere le rotte del traffico internazionale di esseri umani”, ha dichiarato il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg. “Sea Guardian è un’operazione altamente flessibile con un ampio spettro di compiti: dalla sorveglianza degli spazi marittimi di interesse, al contrasto al terrorismo marittimo, alla formazione a favore delle forze di sicurezza dei paesi rivieraschi. Oltre a queste attività, le forze navali possono effettuare attività di interdizione, tutela della libertà di navigazione, protezione delle infrastrutture marittime sensibili e contrasto alla proliferazione delle armi di distruzione di massa”.

Utile per comprendere le ragioni geostrategiche e le finalità della nuova missione NATO anche il report predisposto dal Ministero degli Affari Esteri italiano alla vigilia del Meeting Mediterraneo tenutosi a Roma nel luglio 2017. “L’operazione di sicurezza marittima Sea Guardian, che attualmente svolge principalmente compiti di situational awareness marittimo – con attività potenziali di counter-terrorism capacity building, è un’altra testimonianza del ruolo della NATO nel Mediterraneo”, scrive la Farnesina. “Dal punto di vista italiano, l’operazione – a cui partecipiamo con due unità navali che si avvicenderanno nel corso dell’anno e che saranno coadiuvate da due unità aeree, con un impiego complessivo di 75 unità in media di personale militare – è particolarmente significativa in quanto banco di prova della collaborazione tra NATO e Unione Europea. Sea Guardian si svolge infatti in sinergia con la Missione europea EUNAVFORMED Sophia; l’interazione tra queste due missioni – cui si accompagna il coordinamento tra Frontex e le Standing Naval Forces della NATO nell’Egeo – è un modello che siamo interessati a sviluppare per collocare il Mediterraneo al centro della collaborazione NATO-UE”. Proprio le attività dello Standing NATO Maritime Group 2 (il gruppo navale NATO attivato nel febbraio 2016 nel mar Egeo per assistere l’agenzia europea anti-migranti Frontex e le autorità turche e greche nella gestione dell’emergenza migranti) hanno fatto da modello sperimentale per la successiva operazione Sea Guardian che ha così integrato le attività di sorveglianza, monitoraggio e intelligence “contro le reti di trafficanti” con quelle di contrasto al terrorismo e cooperazione alla sicurezza marittima che avevano giustificato nel 2001 il varo dell’allora missione navale NATO Active Endehavour.

Per conseguire un ruolo sempre più flessibile in campo politico-militare e strategico in quello che è ormai definito il Mediterraneo allargato (dal mar Mediterraneo vero e proprio all’Europa orientale e a buona parte del continente africano e del Medio oriente), il 15 febbraio 2017 i ministri della Difesa dell’Alleanza hanno deciso di costituire presso l’Allied Joint Force Command – JFC Naples l’Hub NATO per il Sud. “Il centro operativo dal dicembre 2017 all’interno della base di Lago Patria-Napoli ha come obiettivo principale quello di comprendere e coordinare le risposte alle sfide strategiche che l’Alleanza deve affrontare sul fronte sud”, ha spiegato il segretario generale NATO, Jens Stoltenberg. “L’Hub per il Sud non coordinerà grandi operazioni militari, ma si occuperà di raccogliere informazioni, migliorare la comprensione della situazione e coordinare le attività nell’area”. In pratica, un pool di un centinaio di analisti internazionali avrà il compito di studiare le minacce enfatizzate dalla nuova pianificazione avanzata dell’Alleanza per il fronte meridionale, quali “il terrorismo, la destabilizzazione, la radicalizzazione, le migrazioni, l’inquinamento ambientale e i disastri naturali”, agendo contemporaneamente “come centro di coordinamento per la collaborazione tra i comandi NATO e le organizzazioni governative e non governative internazionali che si occupano di sicurezza”.

Come convertire gli aiuti allo sviluppo in azioni militari e sicuritarie anti-migranti

Per dare maggiore concretezza e continuità all’impegno italiano nella collaborazione con i Paesi di origine e transito dei flussi migratori, è stato istituito, con Decreto ministeriale, il Fondo per l’Africa. “Si tratta di un fondo straordinario che serve per finanziare iniziative di: supporto tecnico; formazione; assistenza nella lotta contro il traffico di esseri umani; sviluppo delle comunità locali; informazione sui diritti umani e sui rischi di affidarsi ai passeurs; protezione a favore di rifugiati e di altre categorie vulnerabili di migranti, specialmente minori”, spiega la Farnesina. Grazie al Fondo per l’Africa, sono stati finanziati numerosi interventi in diversi Paesi africani di transito e di origine dei flussi, “privilegiando il sostegno alle organizzazioni internazionali competenti in materia migratoria (in particolare OIM e UNHCR)”. Nella lista dei Paesi destinatari degli interventi della cooperazione italiana compaiono Senegal. Gambia, Guinea-Bissau, Guinea, Mali, Niger, Ciad, Libia, Tunisia, Sudan, Etiopia. Con quasi tutti questi paesi (più la Nigeria), la Commissione europea ha avviato un processo per negoziare specifici accordi (compact) a sostegno dei loro sforzi nella “gestione congiunta del fenomeno migratorio e nella riduzione delle sue cause profonde”. In occasione del vertice UE-Africa sulle migrazioni tenutosi nel novembre 2015 a Malta, l’Unione europea ha lanciato il Fondo Fiduciario di emergenza per l’Africa, dotandolo di 1,8 miliardi di euro; l’Italia ne è il primo contributore nazionale con 104 milioni di euro. Superfluo aggiungere che la maggior parte di questi contribuiti Ue-Italia è destinata proprio ai paesi dell’Africa sub-sahariana disponibili agli accordi in materia di contenimento dei flussi migratori.

Tra le missioni internazionali autorizzate e finanziate per il 2018 compare pure un capitolo relativo ad una serie d’interventi di “cooperazione allo sviluppo e di sminamento umanitario” in diversi paesi dell’Asia (Afghanistan, Libano, Myanmar, Pakistan, Palestina, Siria e Yemen), dell’Africa (Burundi, Etiopia, Repubblica centrafricana, Libia, Mali, Niger, Somalia, Sudan, Sud Sudan) e “nei Paesi ad essi limitrofi (in particolare Libano e Giordania, interessati dai flussi di profughi provenienti dalla Siria) nonché, più in generale, nei Paesi destinatari d’iniziative internazionali ed europee in materia di migrazione e sviluppo”. In tali ambiti, il governo italiano intende promuovere interventi di “miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e dei rifugiati e a sostegno alla ricostruzione civile in Paesi in situazione di conflitto”; iniziative europee e internazionali in materia di migrazioni e sviluppo; programmi integrati di sminamento umanitario, che prevedono campagne informative, l’assistenza alle vittime e la formazione di operatori; “opere di protezione e acquisizione di equipaggiamenti, anche al fine di accrescere l’attività di cooperazione con le forze di sicurezza locali”. Per tali esigenze è stata autorizzata una spesa di 65 milioni di euro nel solo periodo gennaio-settembre 2018.

Il Parlamento ha autorizzato pure un capitolo di spesa relativo agli interventi di sostegno ai processi di pace, stabilizzazione rafforzamento della sicurezza in Nord Africa e Medio Oriente (in particolare Libia, Tunisia, Giordania e Libano), Afghanistan, Africa sub-sahariana (Somalia e altri Paesi del Corno d’Africa, Mali e regione del Sahel), ecc.. “Gli obiettivi di tali interventi – spiega il Governo – sono la facilitazione del percorso di riconciliazione nazionale e sostegno alla transizione democratica in Libia, tramite attività di institution building a beneficio delle municipalità elette nel 2015, e promuovendo la partecipazione delle donne alla ricostruzione del Paese (…); la salvaguardia e valorizzazione del patrimonio archeologico in Afghanistan, Iraq, Libia e Tunisia, finanziando missioni promosse da università e centri di ricerca italiani; il sostegno alle iniziative di pace dell’ONU (la missione MINUSMA in Mali), alle attività dell’IGAD – l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo del Corno d’Africa; nonché il rafforzamento delle istituzioni democratiche e dello Stato di diritto in Africa sub-sahariana (Corno d’Africa e Sahel), tramite programmi di capacity-building nel settore della sicurezza”. Altro settore dove si mescolano finte finalità di “cooperazione pacifista” e autentiche operazioni militari in ambito internazionale e NATO è quello relativo alla partecipazione ad “interventi delle organizzazioni internazionali per la pace e la sicurezza in Nord Africa e Medio Oriente ed in altre aree di crisi in cui l’ONU svolge attività di prevenzione dei conflitti e sostegno ai processi di pace, stabilizzazione e transizione democratica; Paesi destinatari di programmi della NATO di rafforzamento delle istituzioni e degli enti di sicurezza e difesa; Paesi in cui si svolgono le missioni civili dell’OSCE; Paesi della sponda sud del Mediterraneo partner dell’OSCE e membri dell’Unione per il Mediterraneo; Paesi in cui si svolgono le Missioni civili dell’UE (…) Gli obiettivi di tali interventi sono: il sostegno, con contributi finanziari, alle attività del Dipartimento degli affari politici dell’ONU, le iniziative delle Nazioni Unite per il consolidamento della pace e dell’UNDP a favore della Libia; l’iniziativa Defence Capacity Buildingdella NATO”.

Research prodotta per il Corso di formazione per docenti “Migranti e migrazioni. Decodificare il presente per educare alla cittadinanza”, promosso dal CESP, il Centro Studi per la Scuola Pubblica – Pescara, 8 novembre 2018.

Personale militare nazionale impegnato nelle diverse aree geografiche e relative autorizzazioni di spesa relativamente ai primi nove mesi del 2018

MISSIONI INTERNAZIONALI IN CORSO DI SVOLGIMENTO IN AFRICA

Delibera del consiglio dei ministri 28 dicembre 2018

SCHEDA

MISSIONI INTERNAZIONALI

IN AFRICA

PREVISIONE DI SPESA

MILITARI IN TEATRO

Missioni internazionali già in corso prorogate x 2018

Nuove missioni autorizzate x 2018

9

NATO Sea Guardian nel Mar Mediterraneo

12.513.518

Da 75 a 287

10

EUNAVFORMED operazione SOPHIA

30.765.657

Da 470 a 495

23

United Nations Support Mission in Libya (UNSMIL)

334.325

3

24

Missione di assistenza alla Guardia costiera della Marina militare libica

1.605.544

Proroga annuale

35

25

UE antipirateria Atalanta

23.227.121

Da 155 a 407

26

European Union Trainin~ Mission Somalia (EUTM Somalia)

8.020.649

123

27

EUCAP Somalia (ex EUCAP Nestor)

304.868

3

28

Missione bilaterale di addestramento delle forze di polizia somale e gibutiane

1.687.884

Da 26 a 53

29

Personale impiegato presso la base militare nazionale nella Repubblica di Gibuti per le esigenze connesse con le missioni internazionali nell’area del Corno d’Africa e zone limitrofe

7.148.324

90

30

United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali (MINUSMA)

618.545

7

31

European Union Training Mission Mali (EUTM Mali)

934.741

12

32

EUCAP Sahel Mali

461.397

4

33

EUCAP Sahel Niger

244.035

2

34

Multinational Force and Observers in Egitto (MFO)

3.195.456

75

35

European Union Border Assistance Mission in Libya (EUBAM LIBYA)

269.050

Proroga annuale

3

1

Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia

34.982.433

375

2

Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger

30.050.995

256

3

Missione NATO di supporto in Tunisia

4.916.521

60

4

United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara (MINURSO)

302.839

2

5

European · Union Training Mission nella Repubblica Centrafricana (EUTM RCA)

324.260

3

36

Potenziamento dispositivo aeronavale nazionale nel Mar Mediterraneo, denominato “Mare sicuro”

63.442.734

Da 650 a 754

39

Potenziamento dispositivo NATO per la sorveglianza navale dell’area sud dell’Alleanza

1.817.839

Da 13 a 44


 * da http://www.labottegadelbarbieri.org

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