Dopo tre decenni di maledizione per ogni discussione sui fondamenti del modo di produzione capitalistico, e dunque anche sul suo necessario superamento, sembra indispensabile alzare lo sguardo oltre l’immediato e confrontarsi ex novo con i “massimi sistemi”.
La crisi sistemica più che decennale – anche a voler fare data dal 2007-2008, pur se in realtà risale ormai agli anni ‘70 – ha avuto un’accelerazione formidabile con la pandemia. Si è passati in pochi mesi da una prospettiva di “stagnazione secolare” (un mascheramento molto pudico dell’”esaurimento della spinta propulsiva” del capitalismo) a una caduta verticale da cui nessuno sa dire quando e se si uscirà mai.
Chi ci prova fa wishful thinking, non analisi scientifica.
Per di più, la gestione della pandemia ha fatto vedere in azione modelli operativi molto diversi.
Quello classicamente neoliberista è stato egemone in tutto l’Occidente, in cui la priorità è stata ed è ancora “non fermare la produzione”, con una pallida distinzione tra il “convivere con il virus” (la maggior parte dei paesi europei) e “negare la pericolosità del virus” (Usa, Gran Bretagna, Brasile, ecc). Un approccio che dopo qualche mese si è rivelato sostanzialmente simile, e che ha portato all’”invidiabile risultato” di moltiplicare la dimensione di contagi e morti affossando al contempo l’economia.
All’opposto, è esplosa in modo solare l’efficacia complessiva dell’approccio fondato su pianificazione e programmazione, normalmente associato con il pensiero socialista. Chi ha agito in questo modo, mettendo esplicitamente come priorità la lotta al virus, e dunque la salute della popolazione, è riuscito non solo a ridurre a quasi nulla l’impatto dell’epidemia, ma sta ora raccogliendo i frutti anche in termini di crescita economica, occupazionale, di prospettiva.
Questo è ormai un dato empirico, verificato e indiscutibile.
Dunque si impone come non più rinviabile anche la riflessione sull’evoluzione/rottura di un sistema di produzione fondato sul profitto privato, che si dimostra non soltanto “ingiusto” (le disuguaglianze sono aumentate, con la pandemia), ma distruttivo nei confronti della popolazione, dell’ambiente, del pianeta.
Autodistruttivo, in una parola.
Dopo decenni passati a ragionare su come “migliorare” il sistema capitalistico, a “salvarlo da se stesso” (Varoufakis, tra gli altri), a “ridurre le disuguaglianze” (la sinistra sedicente “radicale”), diventa dunque ora di ragionare sulla necessità del socialismo.
Anche perché, come diciamo in molti sempre più spesso, l’alternativa è decisamente pessima: la barbarie.
Per questo, nel pubblicare qui l’intervista fatta da Leo Essen a Gennaro Scala, in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro (Per un nuovo socialismo), invitiamo a intervenire a questo livello dei problemi.
E’ uno spunto, non una “base già condivisa”, in alcuni passaggi una “provocazione”. Ma anche di questo c’è bisogno di fronte a un panorama fatto di silenzi imbarazzati. Lo sappiamo bene noi che da anni ci battiamo per stimolare a sollevare lo sguardo dal “localismo” miserabile e ottuso.
Non è più tempo di perdere tempo con le ridicole “liste della spesa” elaborate per mettere un cerotto sulla cancrena.
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Gennaro Scala: Per un nuovo socialismo
Quando l’Europa viene scardinata dal suo posto e costretta a non considerarsi più come l’economia (la potenza, la cultura) di riferimento, risultano non più tollerabili tutte quelle posizioni che avevano fatto ruotare su questa centralità le promesse di cambiamento.
Si può prendere come indicativo di questa caduta un autore come Lévi-Strauss. Siamo negli anni Cinquanta del secolo scorso, l’opera di Decostruzione (Destruktion) iniziata da Nietzsche, Freud e Heidegger giunge a compimento. La struttura non può più essere neutralizzata da un gesto che consisteva nel fornirle un centro che aveva la funzione di orientarla ed equilibrarla, di limitarne il potere di sostituzione. In questo quadro Marx viene messo in discussione. Soprattutto vengono messi in discussione gli aspetti teleologici del suo sistema.
Nel tuo libro ti sei soffermato sul concetto di progresso, e hai usato parole giustamente dure, rivelando la connessione (che c’è sempre) tra teleologia e teologia. Il progresso, hai scritto, è la divina provvidenza, è una sua secolarizzazione. Poi hai legato il progresso al globalismo di Marx, alla sua convinzione che il destino del mondo fosse legato a quello dell’Inghilterra e dell’industrialismo. Da qui alla formula «Soviet + elettricità» il passo è breve.
Quanto ha contato in questa Decostruzione del Progresso «Introduzione alla metafisica» di Heidegger?
Marx visse all’epoca della “prima rivoluzione industriale”, un’enorme balzo in avanti della produttività del lavoro. Allora si poteva legittimamente credere che questo “salto qualitativo” nell’ambito della produzione potesse essere il presupposto per un salto qualitativo nell’ambito dell’organizzazione sociale complessiva.
La fine della scarsità avrebbe posto fine alla “vecchia merda”, alle vecchie diseguaglianze. Per quanto l’intento di Marx è quello di trasformare il progresso tecnico in progresso sociale, non è quindi pura fede nel progresso tecnico, la sua visione della storia si inscrive ed è un capitolo finale della storia dell’idea di Progresso, che è appunto una secolarizzazione dell’idea religiosa della Divina Provvidenza (in merito Karl Löwith ha scritto le pagine migliori).
Mezzo secolo dopo che Marx scriveva Il Capitale, la prima guerra mondiale incrinava la fede nel progresso tecnico, che crollava del tutto con la seconda guerra mondiale e l’invenzione della Bomba.
L’idea del Progresso non era più sostenibile, per cui anche nell’ambito della sinistra si è proceduto alla sua demolizione ,da cui il “niccianesimo di sinistra” o il “pensiero debole” di un Vattimo. Soltanto che all’opera di demolizione non è seguita nessuna opera di ricostruzione, se non nella riproposizione, in quest’ultimo, di un “comunismo” neo-cristiano animato più dalla volontà di credere in qualcosa, che dall’idea anche di fondare anche vagamente in nuovi termini la prassi.
Per quanto riguarda il Progresso esiste una dinamica che porta all’accumulo delle conoscenze scientifiche e delle capacità tecniche di generazione, le società hanno accresciuto la complessità della loro organizzazione, è sorto lo Stato moderno, la divisione del lavoro ha raggiunto livelli che erano impensabili già un secolo fa. Soltanto che questa dinamica è indifferente al benessere umano, segue una sua logica propria.
Il progresso tecnico accresce tanto la produttività del lavoro quanto la distruttività delle armi, accresce tanto le possibilità di benessere e sviluppo individuale quanto gli strumenti di controllo dello Stato.
Questo abbiamo imparato dopo Marx. Dobbiamo abbandonare ogni fede nel “progresso” o, per dirla con un termine più neutro, nella positività di per sé della progressione della conoscenza, della tecnica e dell’organizzazione sociale.
Inoltre, all’interno di questa dinamica vediamo che le società seguono un andamento ciclico, nascono, si sviluppano, regrediscono, crollano. Non è la ciclicità simile a quelle delle stagioni a cui credevano nell’Antichità, poiché ogni società inizia il suo ciclo da un livello più alto rispetto alla precedente, nondimeno degli elementi dell’antica concezione ciclica vanno recuperati.
Ad es. noi oggi siamo nettamente in un periodo di regressione, che ci porta ad avere nostalgia di Andreotti, Forlani e Craxi.
In base a ciò, credo si possa cogliere il significato di un pensatore come Heidegger, secondo il quale piuttosto che essere in atto nella civiltà occidentale una progressione, vi è una caduta dovuta ad un errore originario (la nascita della Metafisica con Platone) che infine ha portato alle prima e seconda guerra mondiale e al crollo della civiltà europea.
Questa sembrerebbe una rappresentazione più adeguata di quella che è poi stata la realtà effettiva, da cui l’influenza della sua filosofia. In realtà, abbiamo sempre un percorso lineare della storia (non a cerchi concentrici, come suggerirei), soltanto che la direzione è invertita, piuttosto che una progressiva ascesa abbiamo una progressiva caduta.
È una determinata commistione tra linearità e ciclicità della storia che non funziona nel pensiero della Decadenza tedesca (in Heidegger e in Spengler).
La decadenza e poi eventuale crollo di una civiltà esiste, mentre in una visione progressista la decadenza non è concepibile, soltanto che questa decadenza è pensata come qualcosa di irrimediabile, definitivo, non il presupposto per una futura rinascita su nuove basi. La teleologia vi è anche nel pensiero della Decadenza, anche qui la società, la civiltà europea, va verso un fine o una fine, che sarebbe la fine di tutto, ma non lo è perché – come diceva Machiavelli – la virtù rinasce sempre nel mondo.
Se la tecnica non è un destino, altrimenti dovremmo introdurre dalla finestra il finalismo cacciato dalla porta, come è possibile definirla «Elemento demoniaco», se non in base a considerazioni empiriche che già Hegel (Enc. § 37-45) aveva revocato?
Nel mio libro riporto una citazione dal libro Carlo Formenti, Il socialismo è morto, viva il socialismo, il quale come il sottoscritto si è convinto che il socialismo debba ripartire da un nuovo inizio.
Nello specifico egli sostiene che il movimento operaio non ha “saputo cogliere l’elemento demoniaco della tecnica”, ponendo come presupposto del socialismo “un certo livello di sviluppo delle forze produttive”. Se la Tecnica (o sviluppo delle forze produttive) è un presupposto necessario, allora perdiamo la capacità della cognizione del suo carattere ambivalente, allora la Tecnica diventa una fede.
Il movimento operaio aveva fede che la Tecnica, con la sua opportuna correzione tramite il conflitto sociale, avrebbe portato alla pace, allo sviluppo, al socialismo. Invece la Tecnica ha portato a due guerre mondiali, la Bomba, i Lager, e la moderna manipolazione mediatica (senza la “Tecnica” tutto ciò non sarebbe stato possibile). Più demoniaco di così!
Ma la Tecnica diventa demoniaca soltanto se ci rapportiamo ad essa nei termini della fede. Spogliato delle sue connotazioni religiose il progresso (uso i termini tecnica e progresso come equivalenti) diventa una caratteristica specifica delle società umane, soggette ad un’evoluzione che segue un ritmo temporale diverso rispetto al mondo biologico.
Lo sviluppo della “tecnica” è inevitabile perché l’“animale nudo” chiamato uomo non ha artigli per difendersi né gambe veloci per correre. Tuttavia questo sviluppo acquisisce una dinamica propria che è indifferente al benessere umano e contribuisce a creare il contesto in cui i conflitti dovranno svolgersi.
Questa dinamica necessita continuamente di essere corretta. Ad es. l’informatizzazione rischia di rendere superflue quote crescenti della popolazione lavorativa, riparatasi temporaneamente nella terziarizzazione, cioè nella produzione del “superfluo” che oggi con l’accelerazione della crisi dovuta al covid sembra diventata a sua volta superflua.
In breve, l’evoluzione sociale, la Tecnica, il Progresso o come li si voglia chiamare formano il contesto in cui svolgono i conflitti ma non ne sono la soluzione. Infine è anche alla tecnica che dovremo rivolgerci per affrontare uno dei problemi creati dalla Tecnica (questione ambientale). Magari la tecnica domani troverà un modo per neutralizzare la Bomba, ponendo fine a questa spada di Damocle che pende sulla testa dell’umanità dalla fine della seconda guerra mondiale in poi.
Globalismo, Tecnica e Bomba atomica, sono legati insieme oltre che da Heidegger anche da Schmitt. Mi viene in mente l’ultimo capitolo del «Nomos della Terra», dove Schmitt riconduce la fine della politica proprio alla fine della distinzione tra amico e nemico causata dall’aeroplano. Quanto ha influito Schmitt nella formulazione del tuo «Paradigma Machiavelli»?
In una vignetta delle Sturmtruppen due guardie intimano: “Alt! Chi va là? Amiken o nemiken?”, “Semplice conoscente” risponde una voce dal buio. Julien Freund, polemologo di ispirazione schmittiana, ha sviluppato in un suo libro il ruolo del “terzo” in un conflitto, la presenza del terzo evita che il conflitto si polarizzi sulla dualità amico-nemico e si trasformi in un duello.
Non esistono solo gli amici e nemici, ma anche i “semplici conoscenti” i quali poi se intervengono in un conflitto ne possono determinare l’esito. Inoltre, saper giocare il ruolo di terzo è relativo alla capacità egemonica, che non riguarda solo l’uso della forza ma sapere farsi garante di un ordinamento complessivo, poiché prima o poi la guerra deve terminare e la vita tornare alla normalità.
Schmitt, indubbiamente grande pensatore, ebbe questa intuizione di un mondo diviso in “grandi spazi”, notevole per il suo tempo, quando era difficile scorgerne i segni, a differenza del nostro, ma non mi sembra (non sono un esperto del suo pensiero) correlata alla coppia amico-nemico quale fondativa della politica, che invece trovo espressione della genetica incapacità egemonica tedesca, di cui subiamo ancora oggi, nell’ “unione” europea, gli effetti. Ed espressione di quella “metafisica del conflitto” di cui parlo nel mio libro, di cui una delle prime formulazioni è quel letterariamente suggestivo passo de Le serate di San Pietroburgo dove de Maistre liricamente ci espone la sua visione dell’immenso altare dove tutto ciò che vive deve essere immolato.
Passo che ha una sua verità nei confronti dell’ottimismo progressista, ma che è falso nei confronti della vita stessa, poiché, vivaddio, nel mondo non esiste solo il conflitto, la violenza, la distruzione e la morte.
De Maistre fu effettivamente un precursore del fascismo, come sostiene Isaiah Berlin. Tale metafisica del conflitto la ritroviamo in Nietzsche, in Heidegger, in Schmitt, per concludere con Hitler che trasforma Eraclito in “filosofo militare”, di cui parla Losurdo nel suo libro su Heidegger.
Non dobbiamo abbandonare il campo del realismo, il conflitto fa parte della realtà umana, e non è dovuto ad accidentali cause “economiche”, eliminate le quali il conflitto scompare.
Così noi comunisti credevamo, scomparso il capitalismo sarebbe scomparsa la guerra. Un’illusione che crolla di fronte alla semplice osservazione che la guerra esisteva ben prima del capitalismo.
Ma non esiste solo il conflitto: i rapporti umani si collocano su una scala che va dalla cooperazione al conflitto, e non vi è mai puro conflitto o pura cooperazione. Gli altri non sono o amici o nemici, ma esistono i “semplici conoscenti”, i quali però a volerli includere o tra gli amici o nemici si trasformano necessariamente in nemici e finiamo la nostra carriera a testa in giù.
Machiavelli pur essendo un pensatore del conflitto è estraneo alla “metafisica del conflitto”. Il conflitto nella Roma repubblicana aveva dato forma alle istituzioni. È dando forma e legittimità al conflitto sociale che si recupera l’unità sociale, non attraverso l’unità imposta attraverso la soppressione dei conflitti.
Machiavelli è l’unico che riesce a tenere insieme comunità e conflitto, come scrivo nel libro, e in altri interventi, da cui l’interesse rinnovato verso il suo pensiero. Quando affermiamo la legittimità del conflitto sociale, lo facciamo, inconsapevolmente, nei termini del “repubblicanesimo machiavelliano”, una corrente sotterranea del pensiero politico che ha dato in parte forma al pensiero e alle istituzioni politiche europee ed occidentali, come ha messo in luce Pocock nella sua ricostruzione del “momento machiavelliano” nella storia del pensiero politico occidentale.
Se ci sarà un ordine futuro, scrivi in conclusione del tuo libro, sarà un ordine multipolare, con la Terra divisa in grandi zone occupate dalle civiltà eredi delle grandi civiltà storiche. I rapporti tra queste civiltà si regoleranno nel solito modo, attraverso il conflitto, oggi diventato multiforme (economico, tecnologico, culturale), se il conflitto continuerà come sempre nella storia degli uomini, esso non dovrà mai diventare scontro di civiltà.
Anche in questa circostanza sotto traccia adoperi la coppia amico-nemico, alla quale corrisponde la multi-polarità Inter-statale.
Come è evidente in questo passo la partizione amico-nemico è introdotta in modo empirico. Questa resa all’empirismo non rischia di consegnare il «Paradigma Machiavelli» a una sorta di post-modernismo o pensiero debole o neo-classicismo economico?
Spero di aver chiarito che la mia “visione” di un mondo multi-polare non si basa sulla coppia amico-nemico. Non dobbiamo abbandonare il campo del realismo politico: in quale altro modo potranno regolarsi i rapporti tra potenze se non attraverso i rapporti di forza?
Forse il termine conflitto non è adeguato, dà adito ad equivoci, forse sarebbe stato meglio usare il termine competizione, però anche quando parliamo di conflitto sociale non intendiamo guerra civile. Quando dico che i rapporti saranno regolati dai conflitti, intendo appunto conflitti regolati attraverso cui dovrà svolgersi la legittima competizione per le risorse e per le aree di influenza.
È possibile una legittima competizione che non sfoci nella polarità amico-nemico e quindi nel conflitto frontale? Sì, questa possibilità è assicurata dalla possibilità di mutua distruzione.
Nell’ambito del diritto internazionale va recuperato il concetto di justus hostis. In merito Schmitt è senz’altro valido, e c’è chi, come Danilo Zolo, per respingere il concetto di “guerra umanitaria”, ha utilizzato Schmitt senza per questo diventare schmittiano.
Inoltre, in un mondo multipolare, potrebbe intervenire il principio del “terzo” di cui parlavo. Immaginiamo uno scenario futuro, in cui come ipotizza Pierluigi Fagan, alla cui analisi del “mondo multipolare” mi rifaccio, si sarà consumato il distacco tra Stati Uniti ed Europa, in cui quest’ultima proseguendo l’andazzo attuale, sarà diventata marginale economicamente oltre che, come lo è già, politicamente, e mettiamo tra parentesi, la questione pur spinosissima del destino della civiltà islamica e della civiltà africana, avremo infine tre potenze: gli Usa (che seppur in declino continueranno ad essere nei prossimi decenni una grande potenza), la Cina e la Russia. Ognuna di queste potenze potrà giocare il ruolo di terzo nel caso di un attacco diretto di una potenza all’altra.
A parte queste sommarie riflessioni, per la difesa delle classi popolari è necessaria una teoria del quadro dei rapporti inter-nazionali all’interno del quale deve inserirsi il conflitto sociale.
In generale, il contesto multipolare è maggiormente favorevole poiché accresce il conflitto tra dominanti costringendo le classi superiori a maggiori concessioni alle classi inferiori. Come argomento nel libro, e come hanno scritto illustri studiosi come Gallino, fu proprio il mondo bipolare e la presenza dell’Urss a favorire la nascita dello Stato sociale europeo. A maggior ragione potrebbe esserlo il “mondo multipolare”, ma bisogna che sorgano nuovi movimenti popolari e nuove organizzazioni politiche.
Il relativismo amico-nemico ha un limite. “Evitare lo scontro di civiltà”, scrivi, “sarà l’unico grande compito universale a cui chiamare tutti gli esseri umani. Chi agirà contro questo valore universale sarà effettivamente un nemico dell’umanità”.
In questo caso, pretendendo di vincere a tavolino, si potrebbero rivolgere su questa posizione assoluta tutte le armi del relativismo empirista, le stesse che usi contro la teleologia in Marx. Tuttavia, mi chiedo se «Paradigma Machiavelli» non sia una strada, una strada tutta da battere, per far giocare l’uno contro l’altro – senza rinunciare né all’uno né all’altro – relativismo e universalismo.
Spero di aver chiarito perché, nel mio lavoro, non mi limito a rilevare empiricamente la realtà del conflitto, da cui pur certo non si può prescindere, a meno di non abbandonare l’ambito del realismo politico. Va ricostruito un nuovo universalismo che deriva dalla necessità degli esseri umani di con-vivere sulla Terra.
Riconosco che nel mio libro prevale ancora il lavoro di demolizione, che deriva dalla necessità di disfarsi di quelle parti della vecchia teoria che non hanno retto alla prova del tempo (e della storia).
Secondo Marx il mercato mondiale realizzato dall’espansione commerciale dell’Inghilterra a livello globale (sostenuto dalle cannoniere inglesi) avrebbe creato il contesto per una rivoluzione proletaria che prescindeva dalla dimensione nazionale.
Con Lenin abbiamo un’inversione ad U, nella lotta contro l’imperialismo era necessario sostenere l’autodeterminazione delle nazioni. Ma era solo un passaggio, per quanto obbligato, l’obiettivo di fondo restava quello della rivoluzione comunista mondiale che avrebbe portato alla scomparsa dello stato-nazione.
Soltanto in Stalin c’è un’autentica riflessione sulla questione nazionale. Pur non essendo un teorico, a differenza di Lenin, fornisce una definizione della nazione che contiene l’essenziale, quale comunità di lingua, di vita economica, di cultura. Ma il suo contributo non fu sufficiente, per i suoi limiti intrinseci, a determinare un cambiamento di cultura nel movimento comunista.
Il paradigma “individualismo-universalismo” è rimasto dominante, finché gli ultimi esponenti del movimento comunista sono diventati gli alfieri del politicamente corretto. Con tale termine sintetizzo il nucleo centrale della critica di Costanzo Preve al movimento comunista, che riprende, applicando al movimento comunista, la critica di Hegel alla “furia del dileguare” roussoviana che passava dall’individuo al genere saltando le “comunità intermedia”, tra cui lo stato-nazione.
Ecco credo che un nuovo universalismo non debba più “saltare”, né estinguere stato e famiglia (certo lottare per un nuovo tipo di stato e di famiglia). Non si può prescindere dalla realtà dell’identità culturale, nazionale, da qui la proposta di Preve di un “comunismo comunitario”. Di mio io vi ho aggiunto la ripresa del repubblicanesimo machiavelliano capace di tenere insieme “comunità” e “conflitto”.
Molto lavoro di ricostruzione ci sarebbe da fare. Questo è il mio contributo, ahimè, ancora prevalentemente demolitorio. Spero che altri si convincano della necessità di un “nuovo inizio” che non rinneghi il passato, pur riconoscendo che un ciclo si è concluso. Ringrazio infine Leo Essen per lo stimolante e per me istruttivo confronto.
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