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L’unità operai-studenti e lo sciopero del 22 aprile. Intervista a Guido Lutrario

Il 22 aprile l’Usb ha convocato uno sciopero operaio a livello nazionale. A questo si è unito lo sciopero degli studenti convocato dall’Osa. E’ prevista una manifestazione nazionale con corteo per venerdi 22 aprile a Roma. Sulle ragioni di questa giornata di mobilitazione, che vede protagonisti operai e studenti, abbiamo chiesto alcune valutazioni a Guido Lutrario dell’esecutivo nazionale dell’Usb.

Partiamo dalla provocazione avvenuta alla sede nazionale dell’Usb. E’ stata una provocazione piuttosto rozza ma non per questo meno inquietante. Che idea vi siete fatti?

 Che dovremo abituarci alle provocazioni perché il forte scollamento che si registra tra potere politico e società, e che con la guerra ha subito un forte salto di qualità, costringe a screditare e colpire tutte le voci critiche e soprattutto quelle potenzialmente in grado di trasformare il dissenso in opposizione organizzata.

L’USB ormai è diventata un’organizzazione sindacale che preoccupa per la sua capacità di radicamento e per la nettezza delle sue posizioni.

Contro di noi e i nostri militanti stanno già mettendo in atto diversi modi per colpirci, dalla repressione diretta ai licenziamenti dei nostri delegati, dall’introduzione di nuove norme per impedire il conflitto all’esclusione dalle trattative sindacali anche quando è evidente che disponiamo di una larghissima rappresentatività, fino alla provocazione dell’altro giorno. Siamo entrati in una fase molto più aspra del conflitto sociale e gli effetti li cominciamo a vedere.

Il 22 aprile ci sarà uno sciopero “operaio” convocato da Usb e una manifestazione nazionale a Roma. Avete declinato questa giornata di conflitto come la rimessa al centro della “variante operaia” nell’agenda politica del paese. Ma questo è uno sciopero che agisce anche apertamente dentro e contro la catena del valore capitalistico. Che cosa significa?

La gestione della fase successiva alla crisi pandemica è stata giocata tutta all’insegna della ristrutturazione del sistema produttivo per integrarlo con le catene del valore delle grandi imprese europee.

Il PNRR, che i nostri parlamentari hanno approvato senza neanche poterlo leggere, è stato definito a Bruxelles e risponde agli interessi del grande capitale continentale.

Questo ha comportato che la ripresa venisse immaginata senza alcun riferimento al lavoro, al tema dell’occupazione, né al problema dei bassi salari e dell’immiserimento di tanta parte della popolazione.

Anche il tema della conversione ecologica non è stato declinato come difesa dell’ambiente, salvaguardia del paesaggio, lotta al dissesto idrogeologico, bonifica delle zone inquinate, conversione delle aziende inquinanti (vedi ILVA di Taranto), ma come ripensamento del sistema energetico, che con la guerra ha poi mostrato il suo vero volto: la costruzione di forme di approvvigionamento energetico che permettano la competizione con le altre potenze globali.

Il superamento del fossile e il ristabilimento di un equilibrio con l’ecosistema sono stati completamente messi da parte. Ora, contrastare questo progetto e provare a ribaltarlo, rimettendo al centro i temi del lavoro, del salario e dell’ambiente è un obiettivo che diventa realistico solo se si basa su una forza reale.

Oggi questa forza per noi tornano ad essere gli operai e non per una sorta di riscoperta tardiva della funzione della classe operaia, quella era tutta un’altra storia, ma per la pressione oggettiva che questo settore del mondo del lavoro sta subendo dentro il ciclo produttivo.

La ristrutturazione investe soprattutto loro, dalla logistica alla produzione fino alla distribuzione. Se una resistenza può partire la troveremo soprattutto dentro questi settori.

La giornata del 22 aprile era stata pensata in un contesto che è stato bruscamente cambiato dalla guerra. Il paese era già dentro una pesante crisi economica e sociale, gli operai della produzione e della circolazione delle merci che cosa hanno da mettere in campo contro le cause e le conseguenze della  guerra sulla società?

Con la guerra siamo precipitati in una situazione molto pesante perché le difficoltà economiche vengono addebitate al nemico e l’arruolamento dell’opinione pubblica serve ad indirizzare il malcontento per l’aumento dei prezzi verso la deriva interventista e militarista.

Gli operai e più in generale il movimento dei lavoratori hanno avuto un ruolo importante in passato per contrastare questo tipo di derive. Ora si tratta di riattualizzare quella attitudine. La parola d’ordine “ABBASSATE LE ARMI, ALZATE I SALARI” può catalizzare molte forze e favorire lo sviluppo di un grande movimento che porti l’Italia fuori dalla guerra.

Non sono mancate in queste settimane voci autorevoli che hanno manifestato un netto dissenso dalle scelte del governo Draghi e dalla spinta bellicista del sistema politico.

Anche la Chiesa ha espresso posizioni critiche, a cominciare dal Papa che ha criticato apertamente la decisione di dare armi ad un paese belligerante.

C’è da costruire un grande movimento di massa, popolare e democratico, che ricacci indietro questa orgia bellicista e i lavoratori possono essere la leva dalla quale partire.

I lavoratori aeroportuali di Pisa e i portuali di Genova hanno bloccato il traffico di armi costruendo intorno a loro una alleanza sociale molto ampia. A distanza di decenni dai momenti alti del movimento operaio, possiamo dire che quando prendono l’iniziativa gli operai hanno nuovamente la capacità di unire intorno a sé un blocco sociale più ampio?

Infatti, proprio il coraggio dimostrato dai lavoratori dell’aeroporto di Pisa e dai portuali di Genova ci dice che il vento può cambiare, che sta già cambiando. Quel coraggio te lo da la consapevolezza di rappresentare l’opinione della maggioranza del Paese, di essere dalla parte giusta.

La responsabilità che si sono presi questi lavoratori, contro un sistema tutto orientato in senso contrario, non è solo un esempio ma anche un sintomo. I lavoratori possono fare la differenza e cambiare il corso della storia.

La richiesta di aumenti salariali che recuperino quanto abbiamo perso con l’inflazione e che facciano uscire milioni di lavoratori dalla condizione di povertà (è il tema di una legge per un salario orario minimo a 10 euro) e il blocco dei prezzi di tutti i generi di prima necessità, a cominciare dalle bollette energetiche, possono essere il collante sociale di un grande movimento popolare.

Un aspetto decisamente inedito che è venuto emergendo è l’unità tra operai e studenti. Le organizzazioni studentesche come Osa hanno dichiarato lo sciopero per il 22 aprile. Hanno scritto su vari striscioni “Operai-studenti figli della stessa rabbia”. Come è nato e come sta crescendo questa alleanza di due settori significativi del blocco sociale antagonista?

L’avvicinamento tra movimento studentesco ed operai è innanzitutto motivo di entusiasmo. Sembravamo destinati a leggere queste cose soltanto sui libri di storia come parte di un passato che non può più tornare ed ora invece ci troviamo di fronte a migliaia di ragazzi che riscoprono una verità nascosta e dimenticata per anni: gli studenti di oggi sono gli operai di domani.

La legge sull’alternanza scuola lavoro è stata senz’altro il fattore che ha favorito questa presa di coscienza, così come i ragazzi rimasti vittime di incidenti mortali proprio durante le ore di “formazione” hanno fatto da detonatore alla protesta (ed hanno reso ancora più urgente l’introduzione del reato di omicidio sul lavoro).

Ma la forza dei giovani sta nel fatto di stabilire rapidamente i collegamenti e nel cogliere il nesso tra un sistema scolastico sempre più orientato al servizio delle imprese e un mondo del lavoro dove crescono i tassi di sfruttamento.

Per questo abbiamo assistito ad un’ondata molto forte di occupazioni, come non c’era più stata da diversi anni, ma anche a tanti ragazzi che sono comparsi ai picchetti davanti ai magazzini e alle fabbriche durante gli scioperi.

Dopo anni di letargo e pensiero debole, il conflitto operaio e studentesco sembra aver ritrovato dentro la crisi – e la sua acutizzazione con la guerra – una funzione, una identità di classe e una aspirazione al cambiamento che sembravano rimosse. Possiamo guardare in avanti più positivamente che in passato?

I cambiamenti passano sempre attraverso le crisi. Sono anni che li subiamo senza una grande capacità di reazione. E’ successo con la crisi del 2007-08 ed è successo anche con la crisi pandemica.

Mentre in altri paesi abbiamo assistito a movimenti sociali che hanno riempito le piazze ed hanno provato a promuovere una controffensiva, dalla Grecia alla Spagna alla Francia, in Italia si respira da tempo un clima stagnante.

Complici probabilmente anche quei soggetti politici che si erano presentati come catalizzatori di una alternativa e che poi hanno miseramente fallito, diffondendo una senso di ulteriore frustrazione.

La guerra, almeno, sta tornando utile per distinguere in modo nitido i campi ed impedire che chi sostiene l’aumento delle spese militari e l’invio di armi ai paesi in guerra possa poi camuffarsi da amante della pace.

Ma già l’arrivo di Draghi alla guida del governo aveva segnato un cambio di passo, annullando le finte differenze tra le forze politiche e ponendo gli interessi del sistema finanziario saldamente al comando della vita politica del Paese.

Questa semplificazione del quadro politico favorisce il recupero di categorie e concetti troppo frettolosamente andati in disuso. Penso in particolare al concetto di lotta di classe, che i padroni hanno continuato a condurre con grande determinazione mentre sul piano ideologico erano impegnati a convincerci che la lotta di classe era finita.

Oggi siamo nelle condizioni di ristabilire la verità e di rimettere al centro dell’azione politica proprio il conflitto sociale, ricostruendo gli strumenti organizzativi, sindacali e politici, che i lavoratori si sono visti distruggere in questi anni.

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