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L’espulsione dei Palestinesi esaminata di nuovo

Una ricostruzione storica fatta da Dominique Vidal circa 25 anni, ma tutt’ora utilissima per illuminare quello che l'”Occidente liberista” e Israele vorrebbero tenere sotto il tappeto (tutto quello che è avvenuto prima del “fatale” 7 ottobre).

Una riflessione anche breve sull’obiettivo strategico di Israele, fin dalla fondazione, porta all’unica conclusione possibile: “ripulire” della presenza palestinese i territori che a loro interessano, senza alcun limite predeterminato. Non a caso, tra le “unicità” di Israele c’è l’assenza di confini ufficiali…

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Cinquant’anni fa, l’ONU decise di partizionare la Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico. La successiva guerra arabo-israeliana si concluse con Israele che espandeva la sua parte di territorio di un terzo, mentre ciò che rimaneva agli arabi fu occupato da Egitto e Giordania.

Diverse migliaia di palestinesi fuggirono dalle loro case, diventando i rifugiati al centro del conflitto.

Israele ha sempre negato che siano stati espulsi, né forzatamente né per politica. I “nuovi storici” di Israele hanno riesaminato tale negazione e hanno messo fine a una serie di miti.

da * Le Monde diplomatique

Solo pochi riconoscevano che la storia del padre, di ritorno, redenzione e liberazione, era anche una storia di conquista, spostamento, oppressione e morte. Yaron Ezrachi, Rubber Bullets

Tra il piano di partizione per la Palestina adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947 e la tregua del 1949 che pose fine alla guerra arabo-israeliana, iniziata con l’invasione del 15 maggio 1948, diverse centinaia di migliaia di palestinesi abbandonarono le loro case nel territorio che alla fine fu occupato da Israele (1).

Storici palestinesi e arabi hanno sempre sostenuto che si trattasse di un’espulsione. La stragrande maggioranza dei rifugiati (stimati tra 700.000 e 900.000) furono, dicono, costretti a lasciare, prima a seguito degli scontri tra israeliani e palestinesi, e poi a causa della guerra arabo-israeliana, in cui una strategia politico-militare di espulsione fu segnata da diverse stragi. Questa posizione è stata espressa fin dal 1961, da Walid Khalidi, nel suo saggio “Plan Dalet: Master Plan for the Conquest of Palestine” (2) ed è stata di recente ribadita da Elias Sanbar in “Palestine 1948. L’Expulsion” (3).

Gli storici israeliani mainstream, d’altra parte, hanno sempre sostenuto che i rifugiati (stimati nella loro valutazione al massimo a 500.000) lasciarono perlopiù volontariamente, rispondendo alle chiamate dei loro leader che garantivano un ritorno rapido dopo la vittoria. Negano che l’Agenzia Ebraica (e successivamente il governo israeliano) avesse pianificato l’esodo. Inoltre, sostengono che le poche (e deplorevoli) stragi avvenute, in particolare la strage di Deir Yassin del 9 aprile 1948, furono opera di soldati estremisti associati all’Irgun di Menachem Begin e al Lehi di Yitzhak Shamir.

Tuttavia, negli anni ’50 questa versione iniziò già a essere contestata da importanti figure israeliane associate al Partito Comunista e agli elementi della sinistra sionista (in particolare Mapam). Successivamente, negli anni ’80, si unirono alla critica un certo numero di storici che si definivano storici revisionisti: Simha Flapan, Tom Segev, Avi Schlaim, Ilan Pappe e Benny Morris. È stato il libro di Morris, “The Birth of the Palestinian Refugee Problem”, a suscitare per la prima volta preoccupazione pubblica (4). Lasciando da parte le differenze di oggetto, metodologia e punto di vista, ciò che unisce questi storici è il desiderio di smontare i miti nazionali di Israele (5). Si sono concentrati in particolare sui miti della prima guerra arabo-israeliana, contribuendo (sebbene solo in parte, come vedremo) a stabilire la verità sull’esodo palestinese. E nel processo hanno suscitato l’ira degli storici ortodossi di Israele (6).

Questa attività di ricerca è stata originariamente stimolata da due insiemi separati di eventi. In primo luogo, l’apertura degli archivi israeliani, sia statali che privati, che coprivano il periodo in questione. Qui è utile notare che gli storici sembrano aver ignorato quasi del tutto gli archivi dei paesi arabi (che non sono noti per la loro accessibilità) e il potenziale della storia orale tra i palestinesi stessi, dove altri storici hanno svolto notevoli ricerche. Come giustamente afferma lo storico palestinese Nur Masalha: “La storia e la storiografia non dovrebbero necessariamente essere scritte, in modo esclusivo o principalmente, dai vincitori (7)”.

In secondo luogo, questa ricerca negli archivi israeliani forse non avrebbe dato frutti se i dieci anni successivi non fossero stati segnati dall’invasione israeliana del Libano nel 1982 e dall’inizio dell’intifada nel 1987. Entrambi questi eventi hanno accentuato la divisione tra il campo nazionalista e il movimento per la pace in Israele. Come è emerso, i “nuovi storici” stavano scoprendo le origini del problema palestinese proprio nel momento in cui la questione della Palestina stava tornando al centro dell’attenzione.

In un recente articolo nella “Revue d’études palestiniennes” (8), Ilan Pappe, uno dei pionieri di questa “nuova storiografia”, ha sottolineato l’importanza del dialogo che si stava sviluppando in quel periodo tra israeliani e palestinesi. Si è sviluppato, afferma, “essenzialmente tra gli accademici. Per quanto sorprendente possa sembrare, è stato grazie a questo dialogo che la maggior parte dei ricercatori israeliani che stavano lavorando sulla storia del loro paese e che non avevano legami con le organizzazioni politiche radicali, sono venuti a conoscenza della versione della storia detenuta dai loro colleghi palestinesi.

Si sono resi conto della contraddizione fondamentale tra le ambizioni nazionali sioniste e la loro realizzazione a spese della popolazione locale in Palestina.”

A tutto questo possiamo aggiungere che la manipolazione della storia per scopi politici non è un dominio esclusivamente israeliano: spesso va di pari passo con il nazionalismo.

Quali insegnamenti hanno tratto gli storici revisionisti dal loro meticoloso lavoro negli archivi? Per quanto riguarda il quadro generale del rapporto di forza tra ebrei e arabi nel 1947 e nel 1948, i loro risultati contraddicono l’idea generalmente diffusa di una comunità ebraica debole e scarsamente armata in Palestina minacciata dall’estinzione da parte di un mondo arabo altamente armato e unito – Davide contro Golia. Al contrario, i revisionisti concordano nel sottolineare i molti vantaggi goduti dal nascente Stato ebraico rispetto ai suoi nemici: il deterioramento della società palestinese; le divisioni nel mondo arabo e l’inferiorità delle sue forze armate (in termini di numero, addestramento e armamento, e quindi impatto); il vantaggio strategico goduto da Israele a seguito del suo accordo con il re Abdullah della Transgiordania (in cambio della Cisgiordania, si impegnò a non attaccare il territorio assegnato a Israele dall’ONU); il sostegno britannico a questo compromesso, unitamente al sostegno congiunto degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica; la simpatia dell’opinione pubblica mondiale e così via.

Tutto ciò aiuta a spiegare l’efficacia devastante delle offensive ebraiche della primavera del 1948. E getta nuova luce sul contesto in cui si è verificata la partenza di massa dei palestinesi. L’esodo si è diviso in due onde ampie: una prima e una dopo il punto di svolta decisivo della dichiarazione dello Stato di Israele il 14 maggio 1948 e l’intervento delle armate degli stati arabi confinanti il giorno successivo. Si può concordare sul fatto che la fuga di migliaia di palestinesi benestanti durante le prime settimane successive all’adozione del piano di partizione dell’ONU – in particolare da Haifa e Jaffa – è stata essenzialmente volontaria. La domanda è: qual è stata la verità sulle partenze che sono avvenute successivamente?

Nelle prime pagine de “The Birth of the Palestinian Refugee Problem”, Benny Morris offre le linee guida di una risposta complessiva: utilizzando una mappa che mostra i 369 villaggi arabi in Israele (entro i suoi confini del 1949), elenca, area per area, le ragioni della partenza della popolazione locale (9). In 45 casi ammette di non saperlo. Gli abitanti delle altre 228 località sono partiti sotto attacco delle truppe ebraiche e in 41 casi sono stati espulsi con la forza militare. In altre 90 località, i palestinesi erano in uno stato di panico a seguito della caduta di una città o di un villaggio vicino, o per paura di un attacco nemico, o a causa di voci diffuse dall’esercito ebraico – particolarmente dopo il massacro del 9 aprile 1948 di 250 abitanti di Deir Yassin, dove la notizia delle uccisioni si diffuse rapidamente in tutto il paese come un incendio.

Al contrario, ha trovato solo sei casi di partenze su iniziativa delle autorità arabe locali. “Non ci sono prove che gli stati arabi e l’AHC volessero un’esodo di massa o avessero emesso ordini o appelli generali ai palestinesi di fuggire dalle loro case (anche se in alcune aree gli abitanti di villaggi specifici furono ordinati da comandanti arabi o dall’AHC di lasciare, principalmente per ragioni strategiche)” (“The Birth of the Palestinian Refugee Problem”, p. 129). Al contrario, chiunque fuggiva era effettivamente minacciato di “punizioni severe”. Per quanto riguarda le trasmissioni radiofoniche degli stati arabi che avrebbero chiesto alla gente di fuggire, una dettagliata ascolto delle registrazioni dei loro programmi di quel periodo dimostra che le affermazioni erano inventate per pura propaganda.

Operazioni militari segnate da atrocità In “1948 and After” Benny Morris esamina la prima fase dell’esodo e produce un’analisi dettagliata di una fonte che considera essenzialmente affidabile: un rapporto preparato dai servizi segreti dell’esercito israeliano, datato 30 giugno 1948 e intitolato “L’emigrazione degli arabi palestinesi nel periodo 1/12/1947-1/6/1948”. Questo documento stabilisce a 391.000 il numero di palestinesi che avevano già lasciato il territorio che era allora nelle mani di Israele e valuta i vari fattori che avevano spinto le loro decisioni di partire. “Almeno il 55% del totale dell’esodo è stato causato dalle nostre operazioni (Haganah/IDF)”. A questa cifra, i compilatori del rapporto aggiungono le operazioni dell’Irgun e del Lehi, che “direttamente (causavano) circa il 15%… dell’emigrazione”.

“Un ulteriore 2% è stato attribuito agli ordini espliciti di espulsione emessi dalle truppe israeliane e l’1% alla loro guerra psicologica. Questo porta a una percentuale del 73% per le partenze causate direttamente dagli israeliani. Inoltre, il rapporto attribuisce il 22% delle partenze a “paure” e “crisi di fiducia” che colpiscono la popolazione palestinese. Per quanto riguarda le richieste arabe di fuga, queste sono state considerate significative solo nel 5% dei casi…

In breve, come Morris afferma, questo rapporto “minaccia la tradizionale ‘spiegazione’ ufficiale israeliana di una fuga di massa ordinata o ‘invitata’ dalla leadership araba”. Inoltre, come sottolinea, “il rapporto non sostiene la tradizionale spiegazione araba dell’esodo – ossia che gli ebrei, con premeditazione e in modo centralizzato, avevano condotto una campagna mirata all’espulsione su larga scala della popolazione palestinese autoctona”. Tuttavia, afferma che “le circostanze della seconda metà dell’esodo” – che stima coinvolgere tra 300.000 e 400.000 persone – “sono un’altra storia”.

Un esempio di questa seconda fase è stata l’espulsione degli arabi che vivevano a Lydda (l’odierna Lod) e Ramleh. Il 12 luglio 1948, nell’ambito dell’Operazione Dani, uno scontro con le forze corazzate giordane ha servito da pretesto per una violenta reazione, con 250 morti, alcuni dei quali erano prigionieri disarmati. Questo è stato seguito da un’evacuazione forzata caratterizzata da esecuzioni sommarie e saccheggi e che ha coinvolto oltre 70.000 civili palestinesi, quasi il 10% del totale dell’esodo del 1947-49. Scenari simili sono stati messi in atto, come mostra Morris, in Galilea centrale, Galilea superiore e il Negev settentrionale, nonché nell’espulsione post-bellica dei palestinesi di Al Majdal (Ashkelon). La maggior parte di queste operazioni (ad eccezione dell’ultima) è stata contrassegnata da atrocità, un fatto che ha portato Aharon Zisling, ministro dell’agricoltura, a dire al governo israeliano il 17 novembre 1948: “Non riuscivo a dormire tutta la notte. Sentivo che le cose che stavano accadendo ferivano la mia anima, l’anima della mia famiglia e di tutti noi qui (…) Ora anche gli ebrei si sono comportati come nazisti e tutto il mio essere è stato scosso.”

Il governo israeliano dell’epoca ha seguito una politica di non compromesso al fine di impedire il ritorno dei rifugiati “a qualunque prezzo” (come lo ha dichiarato Ben Gurion stesso), nonostante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo richiedesse dal 11 dicembre 1948. I loro villaggi sono stati distrutti o occupati da immigrati ebrei e le loro terre sono state divise tra i kibbutz circostanti. La legge sulle “proprietà abbandonate” – che mirava a consentire il sequestro di qualsiasi terra appartenente a persone “assenti” – “legalizzava” questo progetto di confisca generale a partire dal dicembre 1948. Quasi 400 villaggi arabi sono stati così cancellati dalla mappa o ebraizzati, così come la maggior parte dei quartieri arabi nelle città miste. Secondo un rapporto redatto nel 1952, Israele è così riuscita a espropriare 73.000 stanze in case abbandonate, 7.800 negozi, officine e magazzini, 5 milioni di sterline palestinesi in conti bancari e, cosa più importante, 300.000 ettari di terra.

In “1948 and After” (capitolo 4), Benny Morris affronta più approfonditamente il ruolo svolto da Yosef Weitz, che all’epoca era direttore del Dipartimento Terreni del Fondo Nazionale Ebraico. Quest’uomo dalle forti convinzioni sioniste confidò nel suo diario il 20 dicembre 1940: “Deve essere chiaro che non c’è spazio nel paese per entrambi i popoli (…) l’unica soluzione è una Terra d’Israele, almeno una Terra d’Israele occidentale senza arabi. Qui non c’è spazio per il compromesso. (…) Non c’è altra via se non trasferire gli arabi da qui ai paesi vicini (…) Non deve essere lasciato un solo villaggio, non un (beduino) tribù.”

Sette anni dopo, Weitz si è trovato in una posizione in cui poteva mettere in atto questo programma radicale. Già nel gennaio 1948 stava orchestrando l’espulsione dei palestinesi da varie parti del paese. In aprile propose – e ottenne – la creazione di “un organismo che avrebbe diretto la guerra del Yishuv con l’obiettivo di espellere il maggior numero possibile di arabi”. Questo organismo era inizialmente non ufficiale, ma fu formalizzato alla fine di agosto 1948 nel “Comitato del Trasferimento” che supervisionò la distruzione dei villaggi arabi abbandonati o la loro ripopolazione da parte di recenti immigrati ebrei, al fine di rendere impossibile il ritorno dei rifugiati. Il suo ruolo è stato esteso, a luglio, per includere la creazione di insediamenti ebrei nelle aree di confine.

La battaglia di Israele per impedire il ritorno degli esuli palestinesi è stata anche condotta sul fronte diplomatico. Come Henry Laurens ha notato in una recensione degli storici revisionisti, “l’apertura e l’uso degli archivi hanno reso possibile la revisione di diverse posizioni precedentemente sostenute. Contrariamente all’opinione ampiamente diffusa, i leader arabi erano pronti a un compromesso.” Non appena finì la guerra, la leadership araba cercò, nel contesto della Conferenza di Losanna, di giungere a una soluzione generale basata sull’accettazione araba del piano di partizione delle Nazioni Unite (Ilan Pappe fornisce una dettagliata relazione dei loro sforzi), in cambio dell’accettazione israeliana del diritto di ritorno dei rifugiati. Nonostante le pressioni internazionali – con gli Stati Uniti in prima fila – questo tentativo fallì a causa dell’intransigenza delle autorità israeliane, soprattutto una volta che lo Stato ebraico fu ammesso alle Nazioni Unite.

Nonostante questa straordinaria accumulazione di prove, Benny Morris conclude nel suo primo libro che “il problema dei rifugiati palestinesi è nato a causa della guerra, non per progetto, né ebraico né arabo”. Nel suo secondo libro offre un approccio più ponderato, riconoscendo che l’esodo palestinese è stato “un processo cumulativo, con cause interconnesse, e c’è stato un precipitatore principale, un colpo di grazia, sotto forma di assalto dell’Haganah, dell’Irgun e delle forze di difesa israeliane in ogni località”. Questo cambiamento di posizione, tuttavia, non gli impedisce di continuare a respingere qualsiasi idea di un piano di espulsione e di scagionare David Ben Gurion, presidente dell’Agenzia Ebraica e successivamente primo ministro e ministro della difesa del nuovo Stato di Israele.

Come ha evidenziato Norman G. Finkelstein, in uno studio testuale tanto brillante quanto polemico, questa duplice negazione da parte di Benny Morris sembra a prima vista contraddire quanto Morris stesso afferma. Dopotutto, egli stesso ci dice che “l’essenza del piano [Dalet] era la rimozione delle forze ostili e potenzialmente ostili dall’interno del territorio previsto dello Stato ebraico, stabilendo una continuità territoriale tra le principali concentrazioni della popolazione ebraica e assicurando i futuri confini dello Stato ebraico prima e in previsione dell’invasione araba.” Riconosce anche che il Piano D, sebbene non desse il via libera all’espulsione di civili, era comunque “un ancoraggio strategico-ideologico e base per le espulsioni da parte dei comandanti di fronte, distretto, brigata e battaglione”, che forniva loro “successivamente una nota di copertura formale e persuasiva per spiegare le loro azioni”. Benny Morris riesce a fare due affermazioni apparentemente contraddittorie a sole due pagine di distanza l’una dall’altra, ovvero che “il Piano D non era un piano politico per l’espulsione degli arabi della Palestina” e che “dall’inizio di aprile, ci sono chiare tracce di una politica di espulsione a livello nazionale e locale”.

Lo stesso vale per la responsabilità o meno di David Ben Gurion. Morris chiarisce che il primo ministro è stato l’ideatore del Piano Dalet. Nel luglio 1948 ritroviamo Ben Gurion che dà l’ordine per le operazioni a Lydda e Ramleh: “Espellili!” disse a Yigal Allon e Yitzhak Rabin – una sezione censurata nei memoriali di Rabin, ma pubblicata trent’anni dopo nel “New York Times”. Questo ordine, ci dice Morris, non era stato discusso all’interno del governo israeliano. Infatti, alcuni giorni prima, il Mapam, partner del governo Mapai, aveva ottenuto dal primo ministro un’istruzione che vietava esplicitamente alle forze militari di attuare misure di espulsione… Ben Gurion attaccò in seguito l’ipocrisia di questo partito sionista marxista per condannare le “attività” a cui avevano partecipato anche i loro militanti, le truppe Palmah e i kibbutzniks.

A Nazareth, il generale Chaim Laskov decise di prendere alla lettera l’istruzione ufficiale. Una storia racconta di Ben Gurion che arriva lì, scopre che la popolazione locale è ancora presente e dichiara con rabbia “Cosa ci fanno qui?” Anche a luglio, ma questa volta a Haifa, abbiamo Ben Gurion come l’uomo dietro le quinte nell’operazione di “de-localizzazione” dei 3.500 arabi ancora presenti in città, seguita dalla distruzione parziale del quartiere arabo precedente.

In breve, come Morris stesso sottolinea, il potere in quel periodo della storia di Israele risiedeva unicamente in Ben Gurion. Tutte le questioni, sia militari che civili, venivano decise da lui, spesso senza la minima consultazione con il governo, figuriamoci con i partiti che lo componevano. In una situazione del genere, l’assenza dagli archivi di qualsiasi decisione parlamentare o governativa formale sull’espulsione dei palestinesi non dimostra nulla. Come Morris ammette, “Ben Gurion si è sempre astenuto dal dare ordini chiari o scritti di espulsione; preferiva che i suoi generali ‘capissero’ cosa voleva fatto. Voleva evitare di passare alla storia come il ‘grande cacciator di espulsi'”.

Il fatto che il fondatore dello Stato di Israele abbia sfruttato l’impressionante estensione dei suoi poteri e abbia lavorato per massimizzare l’espansione del territorio assegnato allo Stato ebraico dalle Nazioni Unite e per ridurre al minimo la sua popolazione araba è un fatto storico. Morris ha dedicato un importante articolo a lungo termine al sostegno di Ben Gurion al progetto di trasferimento. Come scrive nella prefazione a “1948 and After…”,

“Già dal 1937 troviamo Ben Gurion (e la maggior parte degli altri leader sionisti) a sostenere una soluzione di ‘trasferimento’ per il ‘problema arabo’ (…) Quando arriva il 1948, con le confusioni e gli spostamenti della guerra, vediamo Ben Gurion afferrare rapidamente l’opportunità di ‘giudaizzare’ lo stato ebraico emergente” (“1948 and After…, p. 33).

Prima di questo, ci viene detto che “la tendenza dei comandanti militari a ‘spingere’ la fuga dei palestinesi aumentò man mano che la guerra continuava. Le atrocità ebraiche – molto più diffuse di quanto le vecchie storie abbiano lasciato intendere (ci furono massacri di arabi ad Ad Dawayima, Eilaboun, Jish, Safsaf, Majd al Kurum, Hule (in Libano), Saliha e Sasa, oltre a Deir Yassin e Lydda e altri luoghi) – contribuirono significativamente all’esodo” (“1948…”, p. 22).

Il “peccato originale” Ilan Pappe, professore all’Università di Haifa, dedica due capitoli del suo libro “The Making of the Arab-Israeli Conflict, 1947-1951” a queste questioni. Evitando la cautela della posizione di Morris, conclude che “il Piano D può essere considerato in molti aspetti come un piano maestro per l’espulsione. Il piano non è stato concepito dal nulla – l’espulsione è stata considerata come uno dei molti mezzi per reagire agli attacchi arabi ai convogli e agli insediamenti ebraici; tuttavia, è stata anche considerata come uno dei migliori mezzi per assicurare la dominazione degli ebrei nelle aree catturate dall’esercito israeliano” (“The Making…”, p. 98).

Inoltre, il testo effettivo del Piano D lascia ben pochi dubbi sulle intenzioni di Ben Gurion e dei suoi amici. Si parla di “operazioni contro centri abitati nemici situati all’interno o vicino al nostro sistema difensivo al fine di impedire che siano utilizzati come basi da una forza armata attiva. Queste operazioni possono essere condotte nel modo seguente: distruggendo villaggi (incendiandoli, facendoli saltare in aria e piazzando mine tra le macerie) e in particolare di quei centri abitati che sono difficili da controllare in modo continuo; oppure effettuando operazioni di perlustrazione e controllo secondo le seguenti linee guida: circondare il villaggio, condurre una perquisizione al suo interno. In caso di resistenza, la forza armata deve essere annientata e la popolazione espulsa al di fuori dei confini dello stato” (“The Making…”, p. 92).

Per i loro risultati e nonostante le loro limitazioni, dovremmo applaudire il coraggio dei nuovi storici di Israele. Questa non è una pagina qualsiasi di storia su cui hanno lavorato per far luce. Ciò che hanno aperto alla vista del pubblico è il “peccato originale” dello stato di Israele. È accettabile che i sopravvissuti al genocidio di Hitler abbiano il diritto di vivere in uno stato proprio, e che questo diritto escluda il diritto dei figli e delle figlie della Palestina di vivere in modo simile in un proprio paese? Cinquant’anni dopo l’evento, è ormai giunto il momento di porre fine a questa logica che ha generato così tante guerre e di trovare un modo per far coesistere i due popoli. Allo stesso tempo, non dovremmo velare le origini storiche della tragedia.

1947 29 novembre: L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta, con la maggioranza richiesta dei due terzi, un piano di suddivisione della Palestina in uno stato ebraico, uno stato arabo e una zona internazionale che coinvolge Gerusalemme e i Luoghi Santi.

1948 Gennaio: Unità volontarie organizzate come Esercito di Liberazione Araba di Assistenza (ALA) entrano in Palestina.

Fine marzo: Prime consegne di armi ceche alle forze ebraiche. Viene messo in atto il Piano Dalet.

9 aprile: Massacro di Deir Yassin.

18 aprile: Le forze ebraiche prendono Tiberiade; quattro giorni dopo prendono Haifa.

10 maggio: Safed viene conquistata, seguita da Jaffa due giorni dopo.

14 maggio: Fine del Mandato Britannico. Dichiarazione dello Stato di Israele. Riconoscimento de facto del nuovo stato da parte degli Stati Uniti. Le armate di cinque paesi arabi entrano in Palestina.

17 maggio: Riconoscimento de jure di Israele da parte dell’Unione Sovietica. L’Haganah prende St Jean d’Acre. Il giorno successivo, le truppe egiziane prendono Beersheba.

28 maggio: Il quartiere ebraico di Gerusalemme si arrende.

11 giugno-8 luglio: Prima tregua.

9-17 luglio: Israele prende Lydda, Ramleh e Nazareth.

18 luglio-15 ottobre: Seconda tregua.

17 settembre: Assassinio del mediatore delle Nazioni Unite svedese Conte Folke Bernadotte da parte di un’unità comando sionista estremista.

15 ottobre: L’esercito israeliano rompe la tregua e inizia un’offensiva nel Negev.

11 dicembre: L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite chiede che i rifugiati abbiano il diritto di ritorno.

22 dicembre: Rinnovati scontri tra Egitto e Israele. Israele completa la conquista del Negev. Israele si ritira dal Sinai settentrionale il 7 gennaio 1949, ma solo dopo una minaccia di diretta intervenzione britannica.

1949 24 febbraio: Armistizio tra Israele ed Egitto.

10 marzo: Le truppe israeliane prendono Um Rashrash (Eilat).

23 marzo: Armistizio tra Israele e il Libano.

3 aprile: Armistizio tra Israele e la Transgiordania.

11 maggio: Israele è ammesso alle Nazioni Unite.

12 maggio: Israele e gli stati arabi firmano i protocolli della Conferenza di Losanna.

20 luglio: Armistizio tra Israele e la Siria.

8 dicembre: Fondazione dell’organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA).

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