Le immagini dell’irruzione nella Hamilton Hall della Columbia University di New York diventeranno sicuramente iconiche nel racconto che si farà in futuro della solidarietà internazionale alla resistenza palestinese. Con esse diventa palese come Israele e i suoi alleati stiano conducendo la stessa guerra, dentro e fuori i propri confini.
Ma se si indaga un po’ di più su come è stata costruita quella operazione di polizia, risalta anche quanto ogni istituzione, comprese quelle universitarie, sia sempre più piegata alle ragioni di sicurezza e politica estera. La difesa della democrazia non ha più cittadinanza in Occidente.
La conferenza stampa del sindaco di New York insieme ai dirigenti della polizia locale, seguita allo sgombero della Columbia, offre una panoramica inquietante di cosa sia la tutela giudiziaria, le forze dell’ordine e l’istruzione nel capofila della NATO. In particolare, è la figura di Rebecca Weiner ad aprire il ‘Vaso di Pandora’.
Il primo cittadino della Grande Mela, Eric Adams, fa i suoi complimenti alla polizia e poi afferma di voler “ringraziare specificatamente la commissaria Weiner. È stata lei a monitorare la situazione quando ho cominciato a notare che le proteste in città non stavano andando bene. Simili segnali li ho visti con la Black Lives Matter March” (traduzione nostra).
“È stato portato alla mia attenzione che c’erano persone che arrivavano in città per sconvolgerla, lei e la sua squadra sono state in grado di condurre un’indagine e quello che temevo si è di fatto materializzato e attuato”. Con queste affermazioni, provenienti da un politico con un passato nella polizia, si potrebbe scrivere un saggio su come si costruisce un nemico interno.
Ogni forma di organizzazione che mette in discussione a livello strutturale il razzismo, lo sfruttamento e l’oppressione viene additata – monitorata, spiata in senso stretto – come un “pericolo” di sicurezza pubblica. E questo pericolo non può che essere il frutto di agenti esterni, delegittimando qualsiasi alternativa interna.
“Proteggeremo la nostra città da coloro che stanno cercando di fare quello che avviene a livello globale. C’è un movimento per radicalizzare i giovani e non attenderò che ciò avvenga”, ha detto ancora Adams, rafforzando lo schema appena accennato.
Ma qui ci vogliamo concentrare su Rebecca Weiner, e su quello che emerge mettendo in fila i puntini intorno al suo ruolo nella vicenda. È interessante innanzitutto notare il suo lignaggio, che lei stessa ha definito di ispirazione: è la nipote di uno degli scienziati che contribuì allo sviluppo della bomba all’idrogeno.
L’operato della Weiner non è più rassicurante. Da quasi un anno è alla guida della sezione Intelligence e Antiterrorismo della polizia di New York, dopo aver già prestato servizio come consulente legale per una delle sue unità e aver collaborato anche come analista di dati raccolti sul Medio Oriente e il Nord Africa.
È stato proprio il lavoro dell’Antiterrorismo di New York, stando alle parole di Adams, ad aver fornito le osservazioni e le prove che legittimano quel che è avvenuto alla Columbia. La Weiner riporta ai giornalisti un “cambio di tattiche, persone già note e addestramento” a tali tattiche nel campus, sollevando preoccupazioni nelle forze dell’ordine.
Il riferimento è alla guerriglia urbana, connessa alla “normalizzazione e alla diffusione di retoriche associate al terrorismo”. Tra gli elementi mostrati vi è un volantino con su scritto “globalizzare l’Intifada”, ma è lei stessa a dire che in esso sono semplicemente segnati i luoghi in cui si sono focalizzate le proteste dal 7 ottobre a oggi.
Una giornalista del New York Post ha allora sollevato il caso di Nahla Al-Arian, chiedendo se fosse stata attivamente coinvolta nel diffondere questa retorica. Nahla è la moglie di Sami Al-Arian, che è stato al centro di una lunga diatriba legale e politica.
Docente alla University of South Florida, nel 2003 è stato posto sotto vari capi d’accusa attraverso il famigerato Patriot Act, indicandolo quale leader negli USA del gruppo Palestine Islamic Jihad (PIJ). Sottoposto a condizioni di detenzione preventiva criticate da Amnesty International, patteggiò infine un accordo con le autorità giudiziarie, per evitare ulteriori persecuzioni.
Com’è ovvio, Sami era un solidale con la causa palestinese, e lo è anche la moglie che si è recata alla Columbia. Tanto è bastato per far scattare le sirene del terrorismo, ma anche in questo caso la Weiner ha dovuto ammettere che non ci sono modi per collegare la visita alle preoccupazioni della polizia.
L’esagerazione, l’aleatorietà e la fumosità caratterizzano tutti gli elementi portati durante la conferenza stampa. Ma se si trattasse solo di questo, non avremmo tanto da aggiungere rispetto a quello che vediamo giornalmente da questa parte dell’Atlantico.
Il primo punto che va evidenziato è che le forze dell’ordine di New York hanno vari agenti sparsi per il mondo (o collegamenti con forze analoghe in altri paesi), proprio con finalità di antiterrorismo. La Fondazione della polizia finanzia un programma di legami internazionali e uno dei 18 luoghi con contatti diretti è Tel Aviv.
La giornalista Bahar Ostadan riportava a gennaio che proprio la Weiner ha confermato che dal 7 ottobre quell’ufficio mandava aggiornamenti orari a New York. Dunque, a chi già in passato è stato a lavoro sul Medio Oriente, da Israele arrivano continuamente notizie su possibili pericoli terroristici. Veri, falsi, presunti, inventati…
Ma la definizione di “terrorismo”, per l’intelligence newyorkese, è piuttosto ampia, come già abbiamo visto. Va ricordato che dopo il 2001 l’unità della Grande Mela ha oltrepassato in maniera sistematica le proprie competenze, in stretta collaborazione con la CIA.
Nel 2011 è emerso lo scandalo della Demographic Unit, la quale operava in sostanza come un’unità non riconosciuta, con lo scopo di spiare la comunità musulmana. “Il programma fu parzialmente modellato su come le autorità israeliane operano nella West Bank”, disse ai tempi un ufficiale di polizia. Nessuna preoccupazione che, nell’adottare le stesse “tecniche” in un contesto diverso, si potesse violare il sistema legale Usa.
Rebecca Weiner fu tra i legali che aiutarono a gestire le negoziazioni tra il Dipartimento di polizia e gli avvocati delle persone i cui diritti erano stati violati. Certo, lei stessa ha condannato l’azione della Demographic Unit, ma si cominciano ad addensare abbastanza nuvole intorno alla sua figura.
Se fosse tutto qui, però, staremmo solo copiando le autorità statunitensi, che hanno sgomberato la Hamilton Hall sulla base di qualcosa che è meno di un “processo alle intenzioni”. È proprio il fatto che la Columbia University abbia chiesto l’intervento delle forze dell’ordine, invece, a mostrare il nodo fondamentale di tutta la faccenda.
Perché Rebecca Weiner è anche una docente di quell’ateneo. È professore associato in International and Public Affairs, nell’omonima scuola che fa parte della Columbia.
Il sindaco Eric Adams, nel corso della conferenza stampa, ha mostrato ai giornalisti la richiesta dell’università che, di fronte a persone che non erano studenti e alle preoccupazioni suscitate, chiedeva l’intervento della polizia. Ma come si è arrivati a una tale richiesta, e chi l’ha effettivamente evocata?
Quello che sappiamo è che una docente dell’università, e che perciò poteva osservare gli studenti nelle tende, è anche una dirigente dell’antiterrorismo cittadino. E che i motivi addotti dalla Columbia per richiedere lo sgombero della Hamilton Hall sono gli stessi che la Weiner ha portato ai giornalisti, in qualità di responsabile dell’intelligence newyorkese.
Un ruolo che l’ha vista ricevere indicazioni quantomeno giornaliere da un suo agente a Tel Aviv. Il tutto gestito da un dipartimento di polizia con una lunga storia di soprusi e violazioni di diritti, effettuati sulla base di pratiche usate in Cisgiordania. Legittimo, insomma, concludere che Israele abbia avuto un ruolo diretto nella gestione della repressione delle proteste studentesche.
La Weiner, con una lunga storia di contatti col Medio Oriente, si è resa una mediatrice tutt’altro che “imparziale” tra le vittime e gli agenti. È possibile che anche questa volta si sia fatta mediatrice tra la Columbia e la polizia? O per dirla più chiaramente, è stata lei a spingere sui vertici dell’ateneo affinché chiedessero lo sgombero sulla base di un quadro di fatti costruito dall’unità di polizia di cui è a capo (e di cui Israele è quantomeno “fonte confidenziale” autorevole)?
La docente, in veste di vertice dell’antiterrorismo, ha detto ai giornalisti che non si è trattato di “polizia delle idee”, ma di “pubblica sicurezza”. La sua “vicinanza” a Israele impone però quantomeno il dubbio, persino ai liberali sempre pronti a difendere la neutralità delle forze dell’ordine.
Ciò che sicuramente non si salva in questa storia è la millantata ‘neutralità della scienza’. Non solo per il peso delle forze dell’ordine nell’università: chi ha costruito la sua carriera accademica sul rapporto con lo stato sionista e col ruolo internazionale che esso ricopre per l’Occidente, come può essere “equidistante” nei suoi confronti?
Ma non è solo una questione di “relazioni”. La ricerca scientifica ha bisogno di fondi, di strumenti, di strutture, tutte cose fornite da un potere politico in base alle proprie priorità strategiche. Essa sarà sempre indirizzata in modo tale da favorire gli interessi di chi finanzia tutto questo.
C’è una sorta di ‘infrastruttura’ materiale e informativa su cui si poggia il mondo della ricerca, che non può e non deve essere ignorata. Sarebbe bello se, parafrasando Cacciari, aumentando gli accordi scientifici si potesse far passare un po’ di umanità nei vertici dell’IDF.
Ma è decisamente improbabile che accada. E comunque la storia non si cambia con il moralismo o l’idealismo, bensì con la lotta che colpisce gli interessi materiali. Per un settore come quello della ricerca, che si sviluppa fisiologicamente nelle sinergie internazionali (attraverso crescita incrementale delle conoscenze e scoperte rivoluzionarie), il boicottaggio produce più di qualsiasi bel discorso.
Oltre, ovviamente, alla solidarietà internazionale che abbiamo visto in tanti striscioni delle piazze di queste settimane, in cui gli studenti italiani hanno mostrato la loro vicinanza a quelli statunitensi. In tutti i paesi euroatlantici si è sviluppato un movimento di sostegno alla resistenza palestinese e contro la guerra come non si vedeva da decenni.
Andare contro la deriva bellicista significa colpire sulla contraddizione più alta del capitalismo odierno, ormai votato alla guerra per risolvere la propria crisi, che sia con il keynesismo militare o la distruzione dei competitors. Da questo movimento può originare davvero – in tempi e modalità non prevedibili – un futuro diverso, una società fondata sull’interesse della collettività, e non di una sua ristretta élite.
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