A fine febbraio l’USB ha organizzato un’interessante assemblea-convegno sulla situazione delle Partecipate del Comune di Napoli alla vigilia di un ennesimo piano di riordino delle stesse. Questo contributo vuole essere una “riflessione a freddo” sul dibattito svoltosi in quella iniziativa.
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a) La “lunga marcia” liberista dallo “Stato imprenditore” allo “Stato regolatore”: brevi spunti ricostruttivi
“Lunga marcia”, com’è noto, è un’espressione cara alla tradizione comunista, in questo caso, l’adoperiamo per tratteggiare brevemente un processo messo in moto dal capitalismo pubblico le cui avvisaglie si hanno con la prima crisi petrolifera del 1973, ma che ha avuto la sua accelerazione dal 1992 ossia dal dopo-Maastricht: ciò ci sembra importante per capirne i successivi sviluppi sul piano locale.
In realtà, per quanto riguarda l’espressione “Stato imprenditore”, spesso dietro di essa si celano degli equivoci perché, in varie occasioni, più che un vero e proprio intervento autonomo e diretto nell’economia si è trattato di una forma di socializzazione delle perdite come nel caso, ad esempio, di quando sono state salvate, nei primi anni 70, aziende private in crisi, così come la successiva e rigida disciplina di origine europea sul divieto di “aiuti di Stato” in nome del libero mercato è stata la copertura ideologica di processi di concentrazione/centralizzazione capitalistica dove il pesce più grande ha mangiato quello più piccolo attraverso fusioni, alienazione di quote, acquisizioni, cessioni di rami d’azienda, messe in liquidazione, fallimenti.
Il processo ha riguardato, all’inizio, soprattutto aziende strategiche nazionali dalla STET (Società telefonica dell’IRI) e Telecom Italia all’Alfa Romeo, all’Italsider, ad aziende del settore agro-alimentare come l’Italgel, la Cirio o la Bertolli o del settore meccanico come la Nuovo Pignone.
Purtroppo, ciò che non va sottaciuto è che il passaggio dallo Stato imprenditore a quello regolatore, pur riflettendo esigenze pienamente capitalistiche, ha avuto anche un importante aspetto consensuale – e quindi un’espressione di egemonia culturale della classe dominante – con il risultato del referendum popolare della primavera del 1993 che rispose positivamente al quesito sulla soppressione del Ministero delle Partecipazioni Statali facente parte di un sistema che, per quanto avesse molti limiti, non era basato soltanto sulla logica della massimizzazione del profitto.
In seguito a quella consultazione, il processo di privatizzazione delle Aziende Pubbliche prese ancora più forza e, parallelamente, si iniziò a delineare il profilo dello Stato regolatore con l’istituzione delle Authority; ad esempio, la nascita dell’Autorità di regolazione per Energia, Reti e Ambiente (ARERA) è del 1995 ed è determinante nell’attività riguardante parametri e tariffe di acque, rifiuti, elettricità e gas.
In sintesi, con le Autorità di regolazione si passa dal rapporto tra un’impresa pubblica col sistema politico (Ministero o Ente Locale) ad imprese privatizzate regolate da un’autorità “terza” i cui compiti (ammantate da tecnicismo) sono innanzitutto quelli di promuovere e tutelare la concorrenza.
Il livello locale, all’inizio del processo di privatizzazione, è stato toccato solo in parte e limitatamente ad alcuni territori, perché gli appetiti oligopolistici si sono concentrati sulle imprese di maggiori dimensioni tanto che ancora negli anni 90 abbiamo avuto quello che le lobby liberiste, in senso dispregiativo, definivano “socialismo municipale” sbiadita eredità di un’altra fase storica ed economica, quella giolittiana, tuttavia, anche in questa fase iniziale, sono vari i casi di privatizzazione di aziende pubbliche locali delle maggiori città come, ad esempio, l’ACEA di Roma che dapprima viene trasformata da Azienda Speciale in Spa e dal 1999 è anche quotata in Borsa.
Però il vero e proprio assalto, con la relativa estensione all’intero Paese, si delinea dal 2014 in poi col “Piano Cottarelli” dal nome dell’allora Commissario alla spending review dove si proponeva una drastica riduzione delle Partecipate accompagnata da una martellante campagna di stampa contro le aziende pubbliche pesantemente accusate di sprechi, scarsa produttività, clientele e chi più ne ha più ne metta, quindi anche allora le lobby oligarchiche non sottovalutarono l’importanza del consenso che, seppur in misura minore rispetto a quello del citato referendum del 1993, riuscirono ad ottenere.
Il piano di Carlo Cottarelli ebbe una prima traduzione normativa in un provvedimento di fine 2014 con cui si fissavano obiettivi di razionalizzazione da concludersi con apposita relazione sui risultati conseguiti entro il 31/03/2016.
Nel frattempo, nel 2015, si giunge alla “legge Madia” contenente deleghe al Governo in materia di Pubbliche Amministrazioni e una di queste riguarda il riordino delle Partecipate attuato l’anno dopo col decreto legislativo riguardante il testo unico sulle Aziende Pubbliche (TUSP) dove viene prevista un’altra “revisione straordinaria” conclusasi nel settembre 2017.
Il TUSP, come tutti gli strumenti normativi di questo tipo, riguarda, prevalentemente, un riordino della normativa già esistente nel settore, tuttavia ci sono anche alcune novità come, ad esempio, l’introduzione nell’ordinamento di una procedura di razionalizzazione ordinaria delle Partecipate a cadenza annuale il cui risultato va inviato alla Sezione Regionale di controllo della Corte dei conti e alla struttura del MEF individuata per le funzioni di monitoraggio, indirizzo e coordinamento del settore in argomento.
La prima razionalizzazione “ordinaria” è stata fatta nel 2018 relativamente alla situazione delle partecipazioni al 31/12/2017.
Il percorso delle periodiche revisioni delle Partecipate, inaugurato da un governo di centrosinistra, quello Renzi, è stato ulteriormente portato a sistema dall’attuale governo di centrodestra col decreto attuativo della delega in materia di servizi pubblici locali contenuta nella legge annuale per la concorrenza dove la razionalizzazione per le Partecipate dei servizi pubblici a rilevanza economica è diventata ancora più stringente[1] coordinandola con quella prevista dal TUSP.
E’ evidente che l’inserimento del riordino della normativa sui servizi pubblici locali all’interno della legge sulla concorrenza rappresenta un classico esempio di prevalenza della costituzione materiale su quella formale dove non è più il privato a dover rispettare la “funzione sociale” del proprio intervento (art. 42, co. 2, Costituzione) ma sono le aziende pubbliche erogatrici di servizi che devono conformarsi alle leggi di mercato, insomma una sorta di inversione dell’impostazione del dettato costituzionale.
Purtroppo questo aspetto nei vari livelli delle relazioni sindacali sembra scontato e spesso non è oggetto di contestazione sia per un’eccessiva passività verso il quadro normativo liberista sia perché ci si concentra soprattutto sulla lotta alle conseguenze antisociali della privatizzazione dei servizi solo quando essi vengono affidati ad un privato senza cogliere il nesso che la privatizzazione dei criteri dell’intervento pubblico è l’anticamera del successivo e progressivo affidamento del servizio al vero e proprio gestore privato.
In altri termini, contro la spinta alle privatizzazioni, non ci si può limitare alla sola difesa della formale proprietà pubblica senza attaccare la gestione privatistica dei beni e delle proprietà pubbliche perché quest’ultima è proprio il mezzo più utilizzato per sostenere gli interessi oligopolistici a spese del bilancio pubblico, in realtà, dietro l’ideologia dello “Stato regolatore” e delle privatizzazioni, anche quelle di fatto, il sostegno dello Stato al mercato non diminuisce affatto ma si trasforma per cui la vecchia parola d’ordine liberista del “meno Stato e più mercato” è mera mistificazione.
Infatti, nel caso, ad esempio, della razionalizzazione periodica e sistematica si raggiunge lo scopo di tenere sotto stress il sistema mirando progressivamente a tagliare o svuotare dall’interno quella che è una forma di intervento pubblico nell’economia alzando volta per volta l’asticella degli obiettivi da raggiungere in una sorta di “politica del carciofo” dove lo scopo è sempre meno quelli di fornire un servizio all’utenza e sempre più di reggere la competitività in nome del mercato perché si va aldilà di un normale monitoraggio sugli indici di efficienza, efficacia ed economicità delle Aziende, dovendo ogni volta giustificare analiticamente i modelli gestionali scelti dall’Ente con particolare riferimento agli affidamenti in house a partire da quelli residualmente affidati ad Aziende Speciali[2].
b) La fotografia attuale delle Partecipate: un riflesso dello sviluppo dualistico del Paese
Un quadro abbastanza aggiornato delle Partecipate pubbliche emerge da due pubblicazioni istituzionali: gli ultimi Rapporti dell’ISTAT e del Ministero dell’Economia e Finanze-Dipartimento dell’Economia, ossia la struttura centrale prevista dal TUSP e richiamata nel precedente paragrafo.
Nella pubblicazione ISTAT, del febbraio 2024, apprendiamo che, a livello nazionale, gli addetti sono 886.123 di cui 422.559 sono di Partecipate locali ossia il 47,7% del totale di riferimento;
dal “Rapporto sulle Partecipazioni delle Amministrazioni Pubbliche” del MEF, pubblicato nel gennaio 2025, vengono rilevate 4.858 Società facenti parte del perimetro TUSP, di esse quelle di Amministrazioni locali sono 4.621.
Sulle 4.858 Società quelle attive sono 3.805 corrispondenti al 78% ma se disaggreghiamo il dato tra le due Circoscrizioni del Centro-Nord e del Sud ci accorgiamo che non siamo lontani dalla nota media del “pollo di Trilussa”.
Infatti la disaggregazione territoriale del dato nazionale ci serve per far uscire fuori un dato politico-sociale che altrimenti non emergerebbe con la dovuta chiarezza:
nelle 12 Regioni del Centro-Nord ben 9 sono aldisopra della media nazionale delle Società attive con punte particolarmente elevate nelle tre Regioni a statuto speciale (96,04% in Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo; 94,64% in Valle d’Aosta, 90,28% in Friuli-Venezia Giulia) mentre per le 8 Regioni che, di solito, vengono inserite nella circoscrizione meridionale[3] nessuna di esse supera la media nazionale con una punta particolarmente bassa di Società attive in Molise (appena il 47,92%) così come ben aldisotto della media nazionale sono anche le due Regioni a statuto speciale della Sardegna (68,91%) e della Sicilia (58,41%) in questi ultimi due casi si conferma che la diversa forma giuridico-istituzionale non è sufficiente a cambiare lo sfavorevole contesto socio-economico; per quanto riguarda la Campania si è al 61% circa di Società attive.[4]
Ciò, di conseguenza, significa che il numero di Società inattive, con procedura concorsuale o in liquidazione, è ben più elevato nel Meridione: con una media nazionale del 2% di Società inattive tutte le Regioni meridionali hanno un dato superiore e si va dal 3,2% di Società inattive della Puglia (corrispondenti a 8 Società in termini assoluti) al 7,5% della Sicilia (corrispondenti a 21 Società in termini assoluti); la Campania ha il 5,77% di Società inattive (corrispondenti a 19 Società in termini assoluti).
Passiamo alle Società in procedura concorsuale: a livello nazionale sono il 6% corrispondenti a 298 Società in termini assoluti, nel Meridione, invece, buona parte delle Regioni sono sensibilmente aldisopra di tale dato come, ad esempio, la Calabria col 15,07% (corrispondenti a 22 Società), la Campania col 10,81% (corrispondente a 36 Società), la Sicilia col 10,11% (corrispondenti a 28 Società).
Per le Società in liquidazione, si conferma, ovviamente, il “primato” meridionale con punte di notevole distacco dalla media nazionale che è del 13% corrispondenti a 638 Società; infatti nel Molise abbiamo il 31,25% (15 Società), in Sicilia il 23,83% (66 Società), in Basilicata il 25,45% (14 Società), in Campania il 22,52% (75 Società). Una conferma della diversa situazione territoriale del sistema Partecipate viene anche dall’ISTAT che nella sua già citata ultima pubblicazione (febbraio 2024) oltre a rilevare che dal 2012 al 2021 il numero delle Partecipate attive si è ridotto del 25% e tra il 2020 e il 2021, ultimo anno della rilevazione, si ha una variazione a livello di ripartizione territoriale tra il – 2,1% al Sud e il + 4,3% del Nord-ovest dove si registra anche un incremento degli addetti (+6%).[5]
Rispetto al raffronto per numero degli addetti in singole Regioni occorre far riferimento ancora una volta alla pubblicazione ISTAT del febbraio 2024 che si ferma con la rilevazione al 2021 da cui in Campania risultano 20.631 addetti, in Sicilia 19.735 che rappresentano, in entrambi i casi, un numero minore rispetto a quello rilevato, alla medesima data, in Regioni con una popolazione inferiore (ad esempio in Emilia-Romagna risultano 62.989 addetti, in Veneto 31.248, in Toscana 47.158); per quanto non molto aggiornato il dato è comunque orientativo ed è una conferma delle diversità esistenti sul piano territoriale del sistema Partecipate.
Altro dato rilevante è quello relativo alla retribuzione lorda per dipendente: nel Sud e nelle isole è più bassa che nelle altre ripartizioni territoriali.
Infatti al Sud è di € 31.952, nelle isole è di € 29.695 mentre al Centro è di € 40.257, al Nord-Ovest di € 40.089 e al Nord-Est di € 38.638, insomma tra le ripartizioni Sud-isole e le altre tre esistono delle gabbie salariali di fatto.
Nel caso del Meridione la finalità liberista del meccanismo ordinario messo in moto, con la maggior incidenza dei processi di razionalizzazione, segna, anche per questa strada, un maggior arretramento dell’intervento pubblico proprio nelle Regioni più deboli del Paese confermando che le difficoltà economico-finanziarie sono adoperate per far meglio avanzare il processo di privatizzazione dei servizi (Grecia docet).
c) Un focus sul Comune di Napoli: dal “risanamento” delle Partecipate a quello delle finanze dell’Ente proprietario ovvero un esempio del ricatto/trappola del debito a livello locale.
Questa parte del presente contributo ha lo scopo di verificare/integrare quanto affermato a livello più generale nei precedenti paragrafi soffermandoci su un grande Comune come quello napoletano e anche in questo caso procediamo con una breve ricostruzione.
Il caso del Comune di Napoli è un esempio evidente di come sia stato avviato il “processo di razionalizzazione delle proprie partecipazioni indipendentemente dalle norme previste dal Testo Unico”[6] secondo quanto affermato in un’indagine dell’IFEL sullo stato delle partecipazioni comunali in Campania e di come sia stato forte il nesso tra risanamento delle aziende e situazione della finanza dell’Ente proprietario almeno dal 1993 data del dissesto finanziario che vide, tra l’altro, lo scioglimento dell’allora Azienda municipalizzata del latte il cui marchio fu, successivamente, ceduto al gruppo Parmalat realizzando, anche attraverso questa forma, un’opera di concentrazione/centralizzazione di capitale.
Data la complessità della situazione economico-finanziaria la procedura di dissesto durò ben oltre i termini normativamente previsti e formalmente terminò nel marzo 2006 verso la fine del mandato della prima giunta Iervolino, tuttavia, nei fatti, un vero e proprio risanamento non ci fu mai, infatti, già nella seconda giunta Iervolino (2006-11) la situazione finanziaria tornò ad aggravarsi sebbene la leva della ristrutturazione delle Partecipate fu una di quelle maggiormente adoperate.
Il nuovo piano di intervento sulle Partecipate giunge nel 2012 in concomitanza con l’adesione al piano di riequilibrio finanziario pluriennale[7] che, attraverso una successiva riformulazione, conferma il meccanismo di gestione centralizzata del debito sotto sorveglianza della Corte dei conti e del Ministero dell’Interno giungendo fino al 2032.
L’ultima tappa di questo nesso tra risanamento della finanza dell’Ente proprietario e razionalizzazione delle Partecipate è il “Patto per Napoli” che, a livello di Movimento abbiamo ribattezzato “Pacco” per Napoli firmato nel marzo 2022 tra l’allora Presidente del Consiglio Mario Draghi e l’attuale Sindaco Gaetano Manfredi sulla base di quanto previsto nella legge del bilancio di previsione dello Stato per il 2022 (L. 234/2021).
Si tratta di un accordo con i medesimi criteri della troika europea dove si hanno soldi in cambio di svendita del patrimonio, privatizzazione dei servizi, aumento dei tributi; in questo caso la durata è fino al 2042, per cui, indipendentemente dalle giunte che si succederanno nell’arco temporale dell’accordo, c’è una sorta di “pilota automatico” che prevede scadenze e “riforme” il cui monitoraggio è affidato alla Commissione per la stabilità finanziaria degli Enti Locali che in caso di verifiche negative semestrali ne fa segnalazione alla Sezione regionale di controllo della Corte dei conti e ciò può determinare la sospensione del contributo statale per la riduzione del debito.
Quella dei “Patti” tra Governo ed Ente Locale non è certo una novità, ad esempio, nel 2016 è stato stipulato un “Patto per lo Sviluppo” tra il Sindaco metropolitano pro-tempore e il Presidente del Consiglio pro-tempore per la Città Metropolitana di Napoli, in quel caso si trattava di stanziamenti provenienti dal Fondo coesione, nel caso, invece, dell’attuale Patto/Pacco si tratta di un accordo “per il ripiano del disavanzo e per il rilancio degli investimenti” dove il rilancio degli investimenti svolge il ruolo della “foglia di fico” in quanto la sostanza del Patto è il rientro dal debito, del resto, ogniqualvolta i Governi adottano provvedimenti liberisti fanno sempre attenzione a cercare di nasconderli dietro qualche “foglia di fico”, ad esempio, ricordiamo i decreti del Governo Monti del 2012 sulla spending review che, formalmente, si sarebbero dovuti attuare “con invarianza dei servizi ai cittadini” [8], quindi, senza tagli e, invece, sappiamo tutti com’è andata realmente…
I “Patti” esprimono una tendenza al rafforzamento del rapporto diretto tra il vertice del Comune e quello del Governo e questo fatto non può non avere anche un risvolto politico-istituzionale configurando una sorta di presidenzialismo che avanza per via amministrativa.
Nello specifico del Patto Draghi-Manfredi l’approccio è del tipo, con l’immancabile termine anglosassone, “place-based”, ossia un indirizzo che privilegia scelte quanto più mirate possibile alla specificità della situazione che ci si trova difronte e finisce per aggiungere una quarta categoria di Ente Locale in criticità finanziaria oltre alle tre formalmente individuate nel TUEL[9], inoltre mentre nel dissesto e nel collegato pre-dissesto (o riequilibrio finanziario pluriennale) il piano di rientro dal debito è collegato al fatto che “l’Ente non può garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili”, nei Patti firmati da Draghi con altri tre Sindaci (si tratta del Patto per Torino, di quello per Palermo e quello per Reggio Calabria) il parametro del debito assume una sua diretta ed autonoma centralità, infatti il requisito-base è quello di avere un debito pro-capite di 700 euro.
Nello specifico del Patto napoletano è da notare che la giunta attualmente in carica e firmataria dell’accordo è politicamente e culturalmente omogenea con i criteri e i contenuti del Patto/Pacco liberista, in ciò segnando una discontinuità con l’esperienza delle due giunte De Magistris (soprattutto con la prima) che, nonostante il doppio assedio finanziario di Regione e Governo, ha cercato di resistere e smussare qualche regola particolarmente vessatoria nello scambio tra “aiuto” governativo a ridurre il debito e indebolimento/impoverimento della città sul piano patrimoniale e infrastrutturale avviando anche un’importante battaglia contro il “debito ingiusto”, ossia quote di disavanzato imputate al Comune e, invece, di competenza del Governo nazionale come i debiti derivanti dai Commissariati straordinari per l’emergenza rifiuti che colpì anni fa la città.
L’ indirizzo liberista dell’attuale giunta, del resto, non è nemmeno nascosto: ad esempio, nel Documento Unico di Programmazione (DUP) 2025-27 nel paragrafo relativo alle Partecipate, si afferma che “la modalità di azione sarà informata alla parola d’ordine “Dal fare al regolare”. – Infatti, il modello individuato è quello di un modello orientato, nel medio e lungo periodo, ad una riorganizzazione nella quale l’Amministrazione Comunale si rafforzerà quale “Ente regolatorio””[10] , in sintesi è l’applicazione, a livello locale del passaggio dallo Stato imprenditore allo Stato regolatore su cui ci siamo brevemente soffermati nel primo paragrafo di questo contributo.
L’ impostazione accennata nel vigente DUP è perseguita sia continuando ad indebolire il patrimonio delle Partecipate come, ad esempio, la vendita di alcuni compendi immobiliari della Società del trasporto locale ANM e l’alienazione della partecipazione, attraverso la citata ANM, della quota detenuta in City Sightseeing Napoli, sia proseguendo nello smantellamento della presenza comunale nell’assetto infrastrutturale come dimostra la precedente alienazione pressochè totale della partecipazione nella Società Gestione dei servizi aereoportuali di Capodichino (GESAC) – avvenuta già con la giunta De Magistris – e la conferma della vendita della rete del gas e sia svuotando dall’interno alcune Partecipate come per la società strumentale Napoli Servizi dove le poche righe contenute nel citato DUP – che, al momento, sono abbastanza fumose – fanno riferimento alla costituzione di una nuova Società per la gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare col rischio di disperdere l’esperienza accumulata dai lavoratori dopo l’internalizzazione della gestione del patrimonio immobiliare.
Sul punto pensiamo che sia preferibile investire nel miglioramento della formazione dei dipendenti o, in subordine, utilizzare degli spiragli assunzionali previsti nella normativa del Patto/Pacco per Napoli dove è possibile assumere personale non dirigenziale con specifici profili professionali per la gestione e valorizzazione del patrimonio[11], del resto, rispetto all’attuale fumosità degli indirizzi dell’Amministrazione, la Sezione Regionale di controllo della Corte dei conti per la Campania in un caso simile ha, invece, dato indicazioni abbastanza chiare.[12]
L’unica e parziale eccezione, tutta da verificare, rispetto ad un quadro di depotenziamento delle Partecipate sembrano essere gli indirizzi riguardanti l’Azienda Servizi Igiene Ambientale (ASIA) dove si può leggere che il Comune ha intenzione di “agevolarne lo sviluppo infrastrutturale e industriale nell’ottica della crescita dimensionale e dell’acquisto di nuovi servizi in prospettiva sovracomunale”[13]
Naturalmente per una valutazione dei succitati indirizzi, anche in questo caso, occorrerà attendere il nuovo piano di riordino delle Partecipate che l’Assessore al bilancio si è impegnato a presentare nel mese di giugno anche se deve trattarsi di un’attesa attiva in quanto gli indirizzi sin qui descritti, nella maggior parte dei casi, sono già abbastanza allarmanti.
Rispetto alla situazione economico-finanziaria delle Aziende il quadro è ben diverso sia da quello dei tempi del dissesto finanziario e sia, più recentemente, all’avvio nel 2012-13 del piano di riequilibrio perché le maggiori Partecipate dell’Ente non sono più in perdita ma, in alcuni casi, hanno attivi di una certa consistenza.
Questo è il risultato dell’incidenza dei processi di riordino che oggi su 13 Aziende ne vede ben 5 in liquidazione e 2 in procedura concorsuale; quindi, il Comune capoluogo regionale non fa per nulla eccezione alla tendenza analizzata in precedenza sulle sensibili conseguenze dei processi in esame nelle Partecipate meridionali.
Un caso, invece, di Partecipata in attivo è quello dell’Azienda Speciale Acqua Bene Comune (ABC) l’unica attuazione in un grande Comune della volontà popolare del referendum del 2011.
Tuttavia nonostante l’attivo di bilancio l’attuale giunta, nel Documento Unico di Programmazione 2025-27 pensa alla “più adeguata forma giuridica per ABC Azienda Speciale anche in riferimento a quanto previsto dall’art. 14, co.1, lett. d) del d-lgs n.201/2022 in base al quale la facoltà di gestione dei servizi pubblici locali attraverso le Aziende Speciali è limitata ai servizi diversi da quelli a rete”[14]
In altri termini, c’è la volontà di trasformare nuovamente in Spa l’Azienda Speciale, com’era in passato; noi, invece, pensiamo che le motivazioni alla base dell’affidamento del Servizio Idrico Integrato per l’Ambito Distrettuale di Napoli città ad ABC siano tuttora valide ad iniziare dalle delibere dell’Ente Idrico Campano (EIC) che anche in recenti deliberazioni e relazioni ha ribadito i vantaggi dell’affidamento all’Azienda Speciale,[15] in particolare con la deliberazione del Comitato Esecutivo dell’EIC del 30 ottobre 2024 n. 57 di approvazione del piano d’ambito distrettuale “Napoli Città”, inoltre non è da escludere la ripresa di una battaglia nazionale per modifiche normative che estendano i criteri delle “gestioni salvaguardate” di cui all’art. 33 del citato d-lgs 201/2022 (TUSPL).
Qualora la giunta Manfredi, invece, voglia procedere nel cambiamento della forma gestionale, noi pensiamo che occorra chiamare alla mobilitazione la cittadinanza utilizzando anche gli strumenti di partecipazione previsti dallo statuto comunale.
[1] Cfr. d-lgs 23-12-2022 n. 201 attuativo della delega in materia di servizi pubblici locali di cui alla legge 5-8-2022 n. 118 (legge annuale per il mercato e la concorrenza).
[2] Questo il senso delle relazioni annuali previste, ad esempio, dall’articolo 30 del d-lgs n. 201/2022 in cui è previsto esplicitamente di rilevare la misura degli affidamenti in house oltre che a fornirne la motivazione.
[3] Ci riferiamo ad Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna.
[4] Cfr. “Rapporto sulle Partecipazioni…” op. cit. pag. 16 tab. II.5.
[5] Cfr. ISTAT: “Le Partecipate pubbliche in Italia”, pag. 3.
[6] Cfr.: “Lo stato delle Partecipazioni comunali” dell’IFEL Campania (febbraio 2020) indagine che ha riguardato Comuni aldisopra dei 20.000.
[7] Cfr. la deliberazione del Consiglio Comunale n. 58 del 30/11/2012 avente ad oggetto: “Adesione al Piano di riequilibrio finanziario pluriennale ai sensi del d-l n. 174/2012”, in particolare l’allegato “Riassetto societario partecipazioni comunali”.
[8] Il riferimento è, ad esempio, al d-l n. 95/2012 dal titolo: “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario”.
[9] Le tre categorie previste dal d-lgs n. 267/2000 sono: gli Enti strutturalmente deficitari, quelli in riequilibrio finanziario e quelli in dissesto.
[10] DUP 2025-27 Sezione Operativa pag. 15.
[11] Cfr. art. 1, co. 580, della legge 30/12/2021, questo punto è ripreso nel testo del Patto per Napoli dove non si fa riferimento alla costituzione di una nuova Società.
[12] Cfr. deliberazione n. 163/2023/PASP in cui la magistratura contabile campana ha dato un parere negativo sull’acquisto di partecipazioni da parte del Comune di Polla in una società avente per oggetto proprio la gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare perché l’Ente non era riuscito a dimostrare la convenienza dell’operazione attraverso un dettagliato business plan.
[13] DUP citato pag. 16
[14] DUP citato pag. 16
[15] Cfr. la relazione dell’EIC ai sensi dell’art. 34, co. 20, del d-l 179/2012 paragrafo 4 pagg. 14-19.
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