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Gheddafi e la Lega: prove tribali di secessione

Tutti ne ridono, qualcuno fa finta di indignarsi, ben pochi ricordano che qualche imbecille in camicia verde – a mettere in pratica i proclami più estremi della retorica nordista – ci ha provato davvero.

La Lega inciampa con una certa regolarità in queste anomalie. Segno certo di una configurazione politica scivolosa e opportunistica, usa a lanciare proclami di guerra e accontentarsi di più prosaici assessorati o fondazioni bancarie.

Che Gheddafi, tra un bombardamento e un proclama, trovi il tempo di ricordare ai leghisti italiani presunti rapporti antichi, con tanto di richieste di aiuto economico per sostenere la secessione, è una notizia come tante. Sul suo grado di verità – in attesa di “carte” o “pentiti” assai improbabili almeno fin quando il Colonnello resta al suo posto e i suoi archivi rimangono inaccessibili – nessuno può dire nulla. In nessuno dei due sensi (vero/falso).

Possiamo fin d’ora dirci certi di una sola cosa: se un giorno quegli archivi verranno aperti ed esaminati da soggetti liberi (come sta in parte avvenendo al Cairo), verremo forse a sapere qualcosa di più. Se dovessero farlo soggetti legati (finanziati, supportati, pre-formattati) alle potenze occidentali, Italia compresa, non verremo a sapere quasi nulla di quel che può disturbare le nostre classi dirigenti (salvo incidenti Wikileaks…).

Quel che fa pensare, però, è la reazione leghista alla “rivelazione” gheddafiana. Bossi ha infatti detto: «Ma ti pare? Per fortuna abbiamo tantissimi uomini, e le armi le facciamo noi in Lombardia…». Maroni – ministro dell’interno, non una carica qualsiasi – si è preoccupato di precisare che Bossi non ha mai incontrato Gheddafi, come se certe intese dovesse necessariamente aver luogo solo dopo un incontro “al vertice” (e non, come la storia insegna, a seguito di contatti tra “plenipotenziari” fidati).

Che le fabbriche d’armi, in Lombardia, siano tante, è vero. Ma la loro produzione è forse la cosa più regolata che esista in questo sciagurato paese. Insomma: che i leghisti possano avere armi solo perché si producono dalle loro parti è – fortunatamente – da escludere. Qualche pallottola o qualche pezzo di ricambio può sempre esser recuperato dai celoduristi della Val Trompia, ravanando nei magazzini della Beretta (o di Gamba, Bernardelli, ecc), ma non molto di più.

Da ministri della Repubblica ci si sarebbe aspettati una smentita indignata e un rifiuto deciso dell’ipotesi armata. Ma evidentemente non fa parte del loro dna. Al punto da non riuscire a distinguere la retorica da osteria – in cui sicuramente eccellono – e quella istituzionale.

Delle due l’una. Se la retorica “insurrezional-nordista” è un puro blaterare in stato d’ebbrezza, allora i ministri leghisti andrebbero riguardati come dei quacquaraqua e rapidamente sostituiti con gente all’altezza (qualità difficile da trovare, all’interno di questo governo; lo ammettiamo). Se invece quella retorica sbracata nasconde anche solo un briciolo di realtà concreta… bisognerebbe ricordare che in questo paese c’è gente che finisce in galera per assai meno.

Non c’è infatti niente da ridere sulle panzane leghiste. In 20 anni di lavorìo, tra risate di compatimento e concessioni – concrete e culturali – al “federalismo”, questi hanno smantellato un senso comune unitario costruito in oltre cento anni di fatiche, entusiasmi, tragedie e due guerre. Dov’è il limite oltre il quale lo sfarinamento del legame interno di un popolo diventa dissoluzione conflittuale?

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