In questo conflitto – legittimo dal punto di vista delle ragioni ambientali, sociali, democratiche – ma del tutto asimmetrico sul piano dei rapporti di forza “militari”, non poteva che prevalere l’aspetto coercitivo, supportato dal sostegno pressochè unanime di tutto il quadro politico locale e nazionale, sia di centro-destra che di centro-sinistra. In un certo senso, la Val di Susa è l’antipasto del clima che potremmo respirare qualora la crisi del governo Berlusconi trovi come sostituito un governo di “unità nazionale” costruito per far fronte alla crisi economica e alle sue ripercussioni sociali.
Il fatto che si siano potuti concentrare in una valle 2.000 agenti di polizia, guardia di finanza, forestali, carabinieri, per poter espugnare un presidio popolare e alcune barricate, rende evidente che su questo piano non c’era partita possibile. Lo Stato è lo Stato e l’asimmetria di forza è indiscutibile, tanto più se la medesima asimmetria si manifesta anche sul piano politico.
La popolazione della Val di Susa e le reti di attivisti politici e sociali loro alleate, hanno potuto contare solo sulle proprie forze, e il radicamento sociale sul territorio – fattore fondamentale di ogni resistenza – non poteva essere sufficiente.
Solo se si fosse in grado di esercitare la medesima pressione in più punti si sarebbe potuto impedire la concentrazione delle forze coercitive in un punto solo.
Ma questa non è ancora lo stato della realtà del conflitto sociale in Italia. E’ evidente come l’esperienza della Val di Susa, una delle più ricche e avanzate nel nostro paese, suoni come lezione anche agli altri fronti del conflitto sociale. L’idea corre immediatamente alla resistenza popolare contro l’emergenza rifiuti in Campania, alle lotte sociali a Roma o alle esperienze che cercheranno di dare attuazione al mandato popolare ottenuto con il referendum per mettere fine alle privatizzazioni dell’acqua.
Non solo. A nessuno sfugge come il “patto sociale” messo in cantiere da Confindustria (con Cisl, Uil e la “pentita” Cgil) miri non solo e non tanto a definire nuove regole restrittive sulla rappresentanza sindacale, quanto a espropriare i lavoratori della possibilità di ricorrere allo sciopero quando lo ritengono necessario per ostacolare o limitare l’ingordigia padronale sui ritmi di lavoro, sui diritti acquisiti o sul blocco dei salari.
Dalla Val di Susa dobbiamo quindi trarre una lezione precisa: quanto prima occorrerà guardarsi nelle palle degli occhi, condividere una visione della posta in gioco sulle questioni principali del conflitto che oppone gli interessi “popolari” da quelli privati dei “prenditori”, e sperimentare tempi e modi comuni per riaffermare questi interessi dentro l’agenda politica ed economica del paese.
Occorre dunque una vera alleanza politico-sociale, un movimento il più possibile unitario, che riesca magari anche ad attrarre quella parte di “politica” disposta a corrispondere alle esigenze dell’emancipazione e non a quelle della conservazione e del politicismo. Un fronte politico-sociale di resistenza al capitalismo, più cooordinato, più unito e più radicale, che contrasti la concentrazione delle forze avversarie su un unico punto per volta. Se un proletario di Napoli o Roma cominciasse a vedere le cose come un valligiano della Val di Susa, se un metalmeccanico bresciano le vedesse come un giovane precario bolognese o siciliano, le cose potrebbero cominciare a cambiare sul serio e la partita si potrebbe giocare con qualche chance in più.
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