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Rigore a pancia vuota

Il primo incontro tra Hollande e la Merkel ha confermato le più scontate previsioni. Ognuno ripete quel che ha già detto per rassicurare i suoi, ma con dei mezzi toni più bassi, in modo da evitare di ingigantire le differenze e preparare l’indispensabile compromesso.

Questa è la parte facile. Trovare un compromesso, in politica, non è mai un problema enorme. Ma qui va trovata invece una “soluzione”. Ovvero un’idea che funzioni, non un escamotage che accontenti un po’ tutti. È la realtà economica a prevare sulle cuciture della politica. E questa realtà dice che si possono benissimo scrivere alcune migliaia di articoli diversi su come “coniugare rigore e crescita”, ma l’una cosa – da sempre – esclude l’altra.

Non si tratta di aver fede, ma di fare calcoli.

Nella situazione attuale, senza prospettive positive a breve-medio termine, gli imprenditori privati di tutto il mondo non investono. Nel migliore dei casi investono meno. Il che rallenta un’economia globale già imballata di suo, anche nei paesi emergenti che fin qui hanno marciato a due cifre. Il motivo è semplice: con la delocalizzazione produttiva, o la globalizzazione della manifattura, il baricentro del “fabbricare” si è spostato dai paesi industrializzati a quelli “emergenti”. L’illusione era che qui da noi si potesse conservare la preminenza per quanto riguarda progettazione, servizi avanzati e finanza. Non è andata proprio così e ora – noi “avanzati” – non cresciamo più. Anzi ci andiamo impoverendo e facciamo sempre più fatica a comprare le merci fisiche prodotte altrove. Tra gli emergenti il “mercato interno” – i consumi di massa – sono ancora a un livello insufficiente (causa i salari troppo bassi) e quindi il rallentamento diventa globale.

Le banche, che dovrebbero erogare credito per riaverlo poi indietro con gli interessi, da cinque anni a questa parte chiedono soldi invece di prestarli. Li chiedono agli stati nazionali, che gliene danno senza riserve. Ma questo ha disseccato la sorgente sussidiaria che prima alimentava gli investimenti (e i consumi), sopperendo alla carenza di quelli privati nei momenti di crisi.

Anzi, le politiche di “rigore” si concentrano nell’eliminare la spesa pubblica che non sia diretta al finanziamento degli istituti finanziari; nel drenare risorse dall’economia reale per trasferirle, seppure insufficienti, a quella di carta. Si tolgono le tutele al mercato del lavoro, si abbassano dunque i salari sia direttamente che indirettamente (tramite l’aumento della tassazione, la riduzione dei servizi essenziali, l’aumento delle tariffe controllate, ecc), si allunga l’età pensionabile riducendo al tempo stesso l’assegno pensionistico. Una gelata sui consumi che deprime naturalmente “la domanda” e induce ancor più l’industria globale a contrarre la produzione. L’avvitamento recessivo sta tutto in questo giro di valzer.

O si fa rigore o si cresce. Non c’è proprio nulla da “contemperare”. Se lo Stato non fa il keynesiano (e non può neppure farlo, perché ci vorrebbe uno “Stato mondiale”), investendo direttamente nella produzione in luogo dei “privati”, non c’è alcuna possibilità di crescere.

Possibilità, non certezza. La scala dei problemi e la complessità della loro interconnessione sfugge ormai al controllo anche dei più potenti protagonisti dei mercati. Non è insomma affatto detto che una politica di “sostegno alla crescita”, con finanziamento in deficit, possa invertire la tendenza. Ma se si continua a predicare “rigore” c’è una sola certezza: l’avvitamento recessivo.

Dunque, quando ci dicono che bisogna trovare la “formula legale” che consenta di tenere insieme “rigore e crescita” ci stanno prendendo per i fondelli. Prendono tempo. Il nostro.

Noi non ne abbiamo più, ce lo vogliamo riprendere.

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1 Commento


  • alfonso de amicis

    riprenderci il tempo? Magari! Abbiamo preso trenta anni di “cazzotti” così non sappiamo da dove ricominciare. Ci vorrebbe “una filosofia della prassi”

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