Non si spara sui giornalisti, Nemmeno quando lavorano per la televisione serba di Belgrado, nel 1999. Oppure per quelle – laiche, in paesi islamici – irachene o libiche, rispettivamente sotto i regimi di Saddam Hussein e Muammar Gheddafi. E incidentalmente non si spara neanche sulle ambasciate, come avvenne per quella cinese, sempre a Belgrado, ad opera dei cacciabombardieri Usa, francesi, inglesi, italiani. Ci sarebbe sembrato normale ascoltare, anche in quei casi, parole simili. Ma non sono state pronunciate, se non da isolati guardiani delle libertà sbrigativamente apostrofati come ”filo-qualcun-altro”.
Non si spara neanche sulle donne e i bambini, eppure avviene ogni giorno, con record ormai inegualiati da parte dei democraticissimi Stati Uniti in ogni angolo del mondo; o da parte della democratica e molto occidentale Israele; o con macabra regolarità da parte della Turchia, membro della Nato e alleato silente dell’Isis contro i curdi di sinistra, a Kobane come altrove.
Non si spara su chi fa informazione. Siamo una redazione che assolve a questo dovere civile consapevole del fatto che ogni parola digitata sulle nostre tastiere darà fastidio a qualcuno. In genere più potente. Pensiamo dunque anche che non si arrestano i giornalisti, come avviene sempre nella Turchia membro della Nato proiettata a esportare la “libertà”. Né si promette loro di ridurli sul lastrico per legge, come avviene in Italia, con legge approvata nelle ore precedenti la strage di Parigi.
Ci piacerebbe che questo “comandamento” fosse ricordato sempre, a prescindere dal passaporto o dalla fede religiosa (quelli jugoslavi, in fondo, erano addirittura cristiani ortodossi…).
Ci piacerebbe – ma proprio non ce la facciamo – poter essere cinici come gli inglesi, fondatori dell’imperialismo moderno e portatori dell’identica supponenza imperiale anche ora che fanno soltanto da spalla per i loro successori statunitensi. Per questo non ci ha stupito che l’unica voce fuori dal coro, ieri, ancora a caldo, con le immagini del colpo di grazia al poliziotto ferito che scorrevano centinaia di volte su tutti gli schermi, sia stata proprio quella dell’ex direttore del più prestigioso e letto giornale economico del pianeta, il Financial Times. Parole durissime, scritte da Tony Barber mentre tutti piangevano oppure ordinavano di farlo, senza porsi domande. Parole che ricordano come fare informazione sia anche un’assunzione di responsabilità, non solo un’espressione di libertà.
“Anche se il magazine [Charlie Hebdo, ndr] si ferma poco prima degli insulti veri e propri, non è comunque il più convincente campione della libertà di espressione” […] “Con questo non si vogliono minimamente giustificare gli assassini, è solo per dire che sarebbe utile un po’ di buon senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà quando invece provocano i musulmani”.
Lo imparano presto anche i bambini. La provocazione – o insulto – chiama insulto, induce ad alzare progressivamente i toni e la voce, fin quando questa non si spezza e un gesto, uno schiaffo, cambia il piano su cui si svolge “il confronto dialettico”. Accadde anche tra due maturi professionisti della comunicazione-provocazione, come Vittorio Sgarbi e Roberto D’Agostino.
Facciamo informazione e qui vogliamo condurre un’analisi razionale, perché non ci possiamo accontentare delle pseudo spiegazioni fondate su parole che la impediscono e richiamano all’ordine del “pensiero unico” (“follia”, “terrorismo”, “barbarie”, ecc).
E allora sgombriamo il campo dalla prima sciocchezza: quella avvenuta nella redazione di Charlie Hebdo non è una strage contro la libertà di espressione. È un attacco alla Francia che bombarda in Medio Oriente come ha fatto su Libia e Mali. È un attacco portato da cittadini francesi convertiti all’islamismo politico radicale, andati a combattere in Siria contro Assad senza che nessuno impedisse loro di farlo. Anzi, si potrebbe sospettare che ci sia stata una certa condiscendenza sul lasciarli andare, proprio mentre Parigi – come Washington, Londra, Berlino, Roma – elargiva finanziamenti e armi per irrobustire una opposizione combattente al regime di Damasco. Un calcolo come tanti, nella speranza che si eliminassero a vicenda, spianando poi la strada alla “pacificazione” portata dall’Occidente. Sappiamo che le cose sono poi cambiate; ora laggiù si bombardano gli ex alleati che “si sono montati la testa”, creando un califfato a cavallo di confini scritti sulla sabbia da Parigi e Londra agli albori del secolo scorso. Un calcolo sbagliato, con combattenti avvelenati ed ormai molto esperti pronti a “riportare in casa” la guerra per procura combattuta altrove.
Un attacco mirato, contro chi – ai loro occhi – svolgeva consapevolmente o meno un ruolo in senso molto lato “bellico”. È in fondo la stessa argomentazione sollevata contro chi protestava per i bombardamenti della tv serba o libica: “sono strumenti del regime, non giornalisti liberi”. E sinceramente lasciamo ad altri il compito di decidere se sia più “civile” massacrare gente bombardandola con i droni o sparandogli in un ufficio. Noi, semplicemente non vediamo nessuna differenza, perché la dinamica della guerra le cancella.
Un attacco alla Francia neocoloniale – senza neanche addentrarci nella complessa problematica delle banlieue e dell’integrazione “difficile” – condotta contro un simbolo del disprezzo occidentale verso valori e simboli ritenuti “sacri”. Siamo atei militanti e ci risulta inconcepibile combattere per un dio. Ma sappiamo che così funziona da millenni, anche qui da noi, nella civile Europa, tra tanti opinionisti rabbiosi che richiamano da decenni ai “valori cristiani” e allo “scontro di civiltà” per nascondere il conflitto tra materialissimi interessi contrapposti. Un imperialismo anche “culturale”, per cui gli unici valori sani, le uniche modalità comunicative ammissibili, le sole ritualità comprensibili, sono le nostre.
E invece il mondo del 2015 è popolato da molti altri soggetti, poli, interessi, culture. Il problema, attualissimo, dell’”Islam politico” non può essere ridotto alla macchietta del fanatico religioso che vuole tornare al Medioevo. Al contrario, il tentativo è quello di creare un “polo islamico” capace di competere con l’imperialismo occidentale usando – pur in rapporti di forza del tutto sfavorevoli – gli stessi mezzi, persino mediatici o simbolici. I network di area sono un esempio clamoroso di “introiezione della modernità” all’interno di un contesto culturale differente e con obiettivi autonomi. Un universo complicato, fatto di stati ufficialmente “alleati” degli Stati Uniti e dell’Unione Europea come di confraternite di “mutuo soccorso”, di milizie combattenti come di service audiovideo, di servizi segreti doppiogiochisti (dove si nascondeva Osama Bin Laden?) come di “brigate internazionali”. Un universo che unisce finanzieri e rapper, tecnologi dei media e masse arretrate delle megalopoli, aggregate soltanto – e in modo mai innocente, come per tutte le religioni – dal richiamo integralista.
Un problema che abbiamo affrontato altrove, tenendo presente – come altri – che “il mondo islamico conta più di un quinto della popolazione mondiale, ha un potenziale militare fra i maggiori del mondo, pesa per circa il 9% della finanza mondiale ed ha in pugno la maggior parte delle risorse petrolifere. Ma, essendo frammentato in una trentina di stati, pesa pochissimo nella scena internazionale: non ha un solo membro permanente del Consiglio di Sicurezza o nel G8, conta pochissimo nelle istituzioni finanziarie come nelle alleanze militari ed anche nel G20, ha una presenza del tutto marginale”.
Affrontare questa competizione in termini di “scontro di civiltà” è un suicidio per la civiltà. È una semplificazione interessata che cerca di seppellire l’antagonismo tra interessi sociali all’interno del nostro mondo (esattamente come all’interno del mondo “islamico”) incanalando paure, malesseri, frustrazioni e disagi che nascono dal nostro modo di vivere, lavorare, esistere, verso un “nemico esterno”. Come sempre mostruoso, incomprensibile, pazzo, crudelissimo. Che prova a fare qui da noi quel che “noi” (i bombardieri e i militari che i “nostri” governi utilizzano) facciamo in casa loro o dei loro correligionari.
È una trappola in cui non cadiamo e che invitiamo tutti a individuare con chiarezza. È la stessa trappola scattata all’indomani dell’11 settembre, lo stesso dispositivo d’ordine che richiama come indispensabili nuove leggi restrittive, bavaglio alla libertà di stampa, militarizzazione sociale, silenziamento delle opposizioni.
La dinamica politica sottesa allo “scontro di civiltà” è chiaramente riassunta dai Lepen e dai Salvini, fascisti contemporanei che hanno con tranquillità sostituito l’antisemitismo con l’anti-islamismo, lasciando il resto dell’ideologia autoritaria intatto, anzi “modernizzato” con l’omaggio formale alla “libertà” che si intende limitare. Il destino che disegna Michel Houellebecq, insomma, di un “occidente” costretto a scegliere tra Lepen o l’islamizzazione. Ossia tra la concreta obbedienza a una deriva “fascista del terzo millennio” e un impossibile rovesciamento dei parametri fondamentali della modernità.
È una deriva che semina cadaveri anche a sinistra. Il Pcf – i comunisti francesi – ha mostrato una volta di più di non saper resistere al richiamo dell’”unità della Republique” contro il nemico esterno, abdicando a qualsiasi autonomia di giudizio e posizionamento.
Un falso scontro, che ne nasconde altri, per molti aspetti più decisivi di quelli che la cronaca ci propina continuamente in primo piano.
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Luca
Mi sembra prematuro affermare che “È un attacco alla Francia che bombarda in Medio Oriente come ha fatto su Libia e Mali”. Non sono un complottista sempre e comunque, ma molti degli episodi di sangue degli ultimi anni sono chiaramente operazioni fals flag. Holland recentemente si è dichiarato disposto a rivedere le sanzioni contro la Russia: troppo spregiudicato?
Tano
La vostra è l’unica analisi sensata dell’accaduto che ho sentito da ieri. L’unica in mezzo a un coro ultra-retorico in cui le voci della pseudo-sinistra sono, come al solito, le più stridule e ridicole.