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Stanno rompendo le dighe

La “tre giorni di sangue” di Parigi sembra aver innescato come un detonatore processi che incombono sulle prospettive di tutti noi. Da un lato viene utilizzata come evento scatenante che, insieme alla crisi economica, ha valore costituente per la proiezione globale dell’Unione Europea; dall’altro è l’occasione per rompere le dighe del non detto fino ad oggi, per edificare un sistema di pensiero – ideologico nei fatti – a supporto della guerra di civiltà.

Quando leggiamo che, per una professoressa universitaria e animatrice dell’appello delle donne “Se non ora quando”, i morti in Nigeria e quelli di Parigi non pesano allo stesso modo, non riusciamo a sorprenderci; perchè quell’impianto ideologico agisce già da tempo nella lettura delle tragedie del mondo contemporaneo.

Più visibile e sperimentato è il doppio standard tra vittime israeliane e palestinesi. Le prime innescano reazioni politiche, ampi servizi giornalistici, prese di posizione, le seconde faticano a diventare notizia e cadono sistematicamente e rapidamente nell’oblìo. Il non detto è che gran parte della “comunità democratica” riconosce ad Israele il ruolo di avamposto del modello occidentale in Medio Oriente. Ragion per cui un morto più simile a noi pesa molto di più di tanti, spesso tantissimi, morti “diversi da noi”, in Medio Oriente come in Africa o in Asia.

Le ambizioni dell’Islam politico, sia nella sua versione guerriera che in quella ideologica ed economica, mettono in campo un sistema di idee in competizione con il modello occidentale e indicano all’opinione pubblica la “minaccia” da cui l’occidente deve guardarsi e contro cui armarsi. Anche il filosofo Emanuele Severino, dalle pagine del Corriere della Sera, evoca in qualche modo tale scenario, pur riconoscendo che la minaccia islamista non ha lo stesso peso di quella dell’Urss nella guerra fredda. Ma Severino ripiega questa visione del mondo su quella del “fardello dell’uomo bianco” che ispirò uno degli autori più letti e influenti del pensiero colonialista: Kipling.

L’idea della superiorità del modello occidentale traspare da ogni riga del dibattito pubblico a seguito dei morti di Parigi, ridando vigore ad un eurocentrismo bastonato dall’epoca del sorgere dei movimenti anticolonialisti, ma mai rimosso dal pensiero dominante occidentale.

La guerra di civiltà – elaborata dal neocon statunitense Huntington nella prima metà degli anni Novanta – arruola così pienamente anche le classi dirigenti europee, sia in versione reazionaria che “progressista”, superando le resistenze che in questi quindici anni avevano visto le èlite europee differenziarsi da quelle statunitensi nella conduzione delle guerre in Afghanistan e Medio Oriente.

L’amara scoperta è che la guerra di civiltà non si è rivelata così asimmetrica e unilaterale come sperato. E’ stata raccolta, elaborata e dispiegata anche dal mondo islamico e ritorta contro i suoi ispiratori, fin dentro le loro (che sono poi anche le nostre) metropoli. E il mondo islamico ha dimostrato di non essere affatto esente dalla “contaminazione della tecnica”; al contrario la utilizza con metodi, mezzi e sovrastrutture ideologiche del tutto diverse, che spiazzano l’avversario. Dagli attacchi suicidi che delineano conflitti senza prigionieri fino ai social network, dal prezzo del petrolio a network televisivi modernissimi, dalla religione come fattore identitario assoluto fino all’infiltrazione nelle metropoli occidentali (e tanto nei luoghi della formazione di eccellenza quanto nelle banlieue).

Questo apparato ideologico indica un’ambizione globale da parte di spezzoni della classe dirigente nel mondo islamico, che inserisce un ulteriore protagonista nella competizione globale in corso tra Stati Uniti, Unione Europea e Brics (Russia, Cina, Brasile, India, Sudafrica).

Ed è questa la contraddizione principale da cui – a cascata – derivano gli annunci di tragedia che configurano questa fase storica.

Sullo sfondo si delinea la materialità della guerra. Non più come minaccia terribile ma scongiurata dal power balance della guerra fredda con l’Urss, ma come scenario ammissibile per dare soluzione ad una crisi sistemica del modello capitalista. Una crisi che non indica ancora rivoluzioni tecnologiche ed evoluzioni ideologiche capaci di dare un nuovo senso alla storia dell’umanità.

Avevano raccontato che, con la dissoluzione dell’Urss, la storia era finita e che la supremazia del modello occidentale (libero mercato e democrazia) rappresentava l’unico orizzonte possibile. Un eterno presente che non aveva necessità e possibilità di cambiare. I fatti si sono incaricati di dimostrare che non è affatto vero.

Il dominio del libero mercato ha innescato la fine della seconda globalizzazione neoliberista (la prima era finita con il massacro della prima guerra mondiale) e la fine della stessa democrazia già evocata dalla Commissione Trilaterale nel 1974.

L’idea dello sviluppo infinito sotto i parametri del capitalismo si scontra oggi con fattori micidiali come la finitezza delle risorse, lo sviluppo disuguale, il crollo delle possibilità di valorizzazione duratura dei capitali investiti (la “caduta del saggio di profitto”, scriveva l’uomo di Treviri). Si apre dunque una nuova era di feroce competizione per spartirsi una torta diventata più piccola. Ed è una competizione che ha bisogno di un sistema di idee che ne legittimi – fino al cinismo più brutale – gli orrori che comporta.

Se c’è eccedenza di capitali, una loro parte va distrutta. E se nel computo c’è anche il capitale umano, non potrà che seguire la stessa sorte. Del resto, nella logica del capitale, se c’è limitatezza delle risorse disponibili, cala anche la dimensione della sovrappopolazione relativa; se il lavoro necessario viene ridotto dalle macchine si crea un eccesso di popolazione. Che “va ridotto”, come la spesa pubblica.

L’eugenetica sociale è già al lavoro. La riduzione degli standard sanitari, insieme alla riduzione della protezione previdenziale per chi è troppo vecchio per restare in produzione, è scritta nero su bianco nelle “prescrizioni” del Fmi o della Troika; le pandemie nei paesi più poveri – Ebola insegna – non sono una tragedia per cui mobilitare le risorse necessarie, la ricerca, ecc. La stessa guerra non è più l’estrema ratio, ma uno strumento maneggiabile sulla base di un algoritmo, soppesando costi e benefici. Che poi il calcolo sia sempre sbagliato, storicamente, non è cosa che loro possano ricordare.

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