Con un malinconico, malcelato e discutibile ottimismo, il 12 gennaio il presidente statunitense Barack Obama ha tenuto a Washington il suo ultimo discorso presidenziale sullo stato dell’Unione, secondo quanto prescritto dalla costituzione statunitense.
Perché parliamo di malinconico e discutibile ottimismo? Non solo perché Obama è un presidente a fine mandato, ma perché è la rivelazione del convitato di pietra su questo primo scorcio di XXI Secolo: il declino degli Stati Uniti come potenza egemone a livello mondiale.
Come noto l’egemonia si fonda su tre fattori di dominio: quello economico, quello ideologico e quello militare.
Che negli Stati Uniti si discuta ormai del loro declino relativo, emerge dalla excusatio non petita dello stesso Obama, quando ha definito l’economia statunitense “la più forte e duratura del mondo”.
Gli eventi degli ultimi anni, inclusi quelli di questi giorni, stanno invece dicendo cose diverse. Qualche giorno fa i famosi dati sull’aumento della creazione di posti di lavoro negli Usa, che erano una sorta di input sistemico per le borse di tutto il mondo, sono stati invece accolti con indifferenza dai “mercati”. Al contrario a fare l’andatura sono state le notizie – cattive – sul prezzo del petrolio. Il grande progetto Usa sulla piena autosufficienza energetica, attraverso lo shale gas, si sta infrangendo su un prezzo al di sotto dei 30 dollari al barile, che rende totalmente antieconomici i 40 dollari del costo di estrazione minimo previsto dalla tecnica del fracking. Le società petrolifere statunitensi proliferate con lo shale gas stanno già fallendo una dietro l’altra, a partire dalle più piccole.
“Chiunque sostiene che l’economia statunitense sia in declino fa della fiction”, ha dichiarato Obama, esortando i cittadini statunitensi ad affrontare senza paura il modo in cui è cambiato il mercato del lavoro. Obama ha rivendicato che durante il suo mandato sono stati creati 14 milioni di posti di lavoro. Un dato esagerato quantitativamente, ma soprattutto qualitativamente. Sono per lo più lavori come camerieri, baristi, fattorini, venditori ambulanti di hot dog, baby sitter e badanti, parcheggiatori, il cui inquadramento salariale è il più basso, a rappresentare il 70% dei 2,59 milioni di lavori creati nell’economia statunitense dall’inizio della recessione del dicembre 2007 all’ultima rilevazione del novembre 2015. Si tratta di ben 1,8 milioni di persone praticamente woorking poors (poveri, anche se hanno un lavoro).
Obama ha provato anche a indicare i responsabili della crisi che si è abbattuta sulle middle class statunitensi, ossia le banche, gli hedge fund, le grandi imprese che “disegnano le proprie regole a scapito delle classi medie e usano i paradisi off shore per eludere il sistema fiscale”.
Insomma il fattore economico rende ancora gli Stati Uniti la maggiore economia mondiale integrata dal punto di vista capitalistico, ma che il trend positivo statunitense iniziato dal dopoguerra stia rallentando mentre altri competitori stanno emergendo, è ormai visibile a occhio nudo.
Lo stesso modello culturale statunitense, per quanto resiliente, non conforma più le aspettative della popolazione mondiale come una sorta di monopolio ideologico. L’aver giocato, bombardato o stuzzicato il mondo islamico ha alienato agli Usa una gran parte del mondo e lo stesso cortile di casa – l’America Latina – ha dato ampi segnali di volersi affrancare dall’egemonia dell’ingombrante potenza del nord (anche se le elezioni in Argentina e Venezuela dimostrano che Washington non si arrende di certo).
Dopo aver sconfitto l’Unione Sovietica e averne colonizzato per anni economie, leadership e società della ex Urss, gli Usa vengono nuovamente percepiti come estranei, ostili e nemici da gran parte di quel mondo che avevano ritenuto ormai assimilato al proprio modello.
Le stesse relazioni con l’Europa – e non solo con l’Unione Europea – vedono il barometro indicare avversioni, inimicizie e competizione vera e propria. Infine, ma non per importanza, l’infimo livello del dibattito politico interno alla classe dirigente oggi disponibile negli Stati Uniti (vedi il fenomeno Trump o la dinastica Hillary Clinton) rivela al mondo un degrado qualitativo che nessuno invidia più.
L’unico fattore di egemonia rimasto ancora in mano agli Stati Uniti è quello militare. Quando Obama ha detto “Noi spendiamo in armamenti più delle otto nazioni che ci seguono in questa classifica” e “se c’è una crisi da qualche parte vengono a chiedere aiuto a noi”, ha raccolto una standing ovation dell’establishment e dei congressisti, tra i quali decine di alti comandanti militari. Poi ha aggiunto: “L’instabilità del Medio Oriente è il prezzo di sconvolgimenti che dureranno una generazione” e “tocca a noi ricostruire un sistema di relazioni internazionali”.
Ma qualsiasi studioso di storia sa benissimo che la sola potenza militare può dare solo supremazia, non più egemonia. Lo si vede nitidamente in quanto sta accadendo in Medio Oriente.
Il declino degli Usa è ovviamente una tendenza, non una fotografia dell’oggi; ma una tendenza significa che il cambiamento di fase storica, di rapporti di forza mondiali, è in corso. Inarrestabile. Sono la velocità, le contraddizioni e le rotture che questo processo provoca a destare preoccupazione. E’ stato il vecchio Kissinger a dire recentemente che “l’ordine mondiale che abbiamo conosciuto non esiste più” ma, stavolta, non è riuscito ad indicare i parametri di un nuovo ordine mondiale, né il posto che in questo dovrebbero avere gli Stati Uniti.
L’ascesa degli Usa come potenza egemone mondiale si è data con il declino della precedente potenza dominante: la Gran Bretagna. Ma per realizzarsi, il declino britannico e l’ascesa statunitense sono passati attraverso due guerre mondiali. I think thank statunitensi sono ossessionati da questo scenario da ormai ventitre anni. Il primo documento al riguardo dei neocon è del 1992; il Progetto per il Nuovo Secolo Americano è venuto otto anni dopo, riaffermando le stesse tesi, le stesse inquietudini e proponendo di avviare una controtendenza attraverso l’uso della forza militare. Ma venti anni di guerre, interventi e bombardamenti non hanno reso gli Usa più forti, al contrario ne hanno rivelato l’accresciuta – e relativa – debolezza.
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