Nata come organo puramente tecnico e indipendente dal potere politico (particolarmente slabbrato e evanescente, a livello di istituzioni comunitarie), il suo campo d’azione si è andato lentamente espandendo. Doveva occuparsi, statutariamente, soltanto di moneta e inflazione. Molto meno di quanto non debba fara per esempio la Federa Reserve statunitense, che ha l’obbligo anche di occuparsi dellla tenuta dell’ocupazione (un ricordo del 1929).
Ma nella crisi ha cominciato a praticare “interventi non convenzionali”, ovvero non previsti e tantomeno ortodossi. Acquisto di titoli di stato, promesse di liquidità illimitata per le banche, operazioni sul mercato sia primario (quando i titoli vengono venduti all’asta) che secondario (sul circolante).
Fino a ricoprire un ruolo apertamente politico nell’affrontamento della crisi greca. Insieme a Ue e Fmi, infatti, ha imposto misure di politica economica e fiscale che sarebbero prerogative sovrane di un governo. Ruolo confermato nella assolutamente irrituale “lettera dei presidenti” (l’uscente Trichet, il subentrante Draghi) al governo italiano, che dettagliava le misure da prendere sugli stessi temi.
Un cambiamento di natura istituzionale che ne fa ormai un organo “politico” in senso stretto – governa, di fatto, tutti quei paesi zoppicanti che rischiano di uscire dall’eurozona – in contraddizione con il proprio ruolo per come era stato pensato nell’architettra dei poteri europei.
Un cambiamento che ora interroga anche i giornali padronali, come vediamo in questo articolo de Il SOle 24 Ore.
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Trichet lascia un istituto in cerca di identità
Riccardo Sorrentino
Mai così divisa, mai così in mare aperto. Jean-Claude Trichet non avrebbe mai immaginato di consegnare al successore una Bce e un’Eurolandia così diverse da quella che gli erano state affidate nel 2003.
Il suo mandato, è vero, è stato innovativo. L’obiettivo di inflazione è stato precisato (ora è «sotto, ma vicino, al 2% nel medio termine»), la comunicazione ha adottato un codice preciso per indicare l’orientamento della politica monetaria; ma l’ex governatore della Banque de France si è sempre sentito al sicuro dietro la solida struttura della strategia della Bce, un adattamento della scuola Bundesbank a una realtà economica e fiscale tutta da costruire.
È proprio questa struttura che sembra in discussione, oggi. Fino all’ultimo, e confortato dai risultati, Trichet ha mantenuto un orientamento severo, molto più rigido di quello della Bank of England che, pur avendo lo stesso obiettivo della stabilità dei prezzi, prioritario rispetto alla crescita, non solo ha mantenuto il costo del credito allo 0,5% con un’inflazione oggi al 4,5%, ma ha varato, anche ieri, aggressivi piani di quantitative easing.
Hanno pesato le diverse circostanze. Eurolandia ha prezzi e salari più rigidi, che sconsigliano politiche troppo espansive. Ieri ha un po’ sorpreso il richiamo di Trichet alla «moderazione» anche per i margini di profitto e non soltanto, come di consueto, per i salari. È stata però l’indicazione finalmente completa dei vincoli che costringono la politica della Bce, gli stessi che spiegano i passi più controversi del presidente: il rialzo dei tassi di aprile e luglio; quello di luglio 2008, a un passo dal tracollo dei mercati (ma il petrolio correva verso i 146 dollari…) e quello di dicembre 2005, quando iniziò a contrastare quella frenesia nei mutui che avrebbe poi avuto effetti dirompenti anche in alcuni Paesi europei.
La crisi ha comunque messo alla prova questo rigore. Trichet ha reagito creando una “sua” ortodossia: ha tenuto separata la leva dei tassi, destinata a controllare la stabilità dei prezzi, da quella della liquidità, importante per il corretto funzionamento dei mercati finanziari. Sotto il peso degli avvenimenti, questa distinzione appare a molti sempre più retorica; perché non poteva essere così perfetta come era descritta.
Non si spiega altrimenti perché la Bce sia stata così timida sulla liquidità. Trichet, nel 2007, è stato il primo ad “aprire i rubinetti” prendendo alla sprovvista anche la Fed. Poi però ha prevalso – fino a sfociare nella stretta di aprile – una preoccupazione sul livello di tutti gli aggregati monetari, molto ampi ma in realtà lenti. È stato un eccesso di cautela, se anche un economista “rigoroso” sui prezzi come John Cochrane spiega che le banche centrali possono ridurre la liquidità con rapidità sufficiente per evitare l’inflazione. La Bce non ha voluto però espandere il suo bilancio come hanno fatto la Bank of England o la Fed. Anzi, il sostegno temporaneo – in attesa degli acquisti dell’Efsf – ai bond italiani e spagnoli è costata una divisione profonda, nel suo board, tra i “falchi” guidati da Jürgen Stark, ora dimissionario, e quella delle colombe.
I primi passi dopo lo strappo, presi per “consensus” – senza un voto formale, ma anche senza unanimità – sembrano mostrare un approccio più pragmatico: il bilancio Bce è ai massimi storici, la base monetaria è molto vicina al record, e le operazioni sulla liquidità sono state moltiplicate.
Tutto questo cambia un po’ i punti di riferimento della politica monetaria europea, costretta a navigare in acque sconosciute, ma su una rotta che deve comunque risultare precisa.
È allora, quello di Trichet, il bilancio di un fallimento? No, perché il problema è altrove. Durante il suo mandato, il presidente, e la Bce dietro di lui, ha lottato contro i Governi: nel 2005, quando Parigi e Berlino indebolirono il patto di stabilità, e ora che i piani fiscali di lungo periodo non appaiono abbastanza credibili e trasformano i titoli di Stato di diversi paesi da bond “privi di rischio” in crediti rischiosi. La Bce ha bisogno della stabilità dei conti pubblici, senza la quale la politica monetaria può essere inefficace. I “passi a metà” di Trichet sono stati allora un messaggio ai politici: la Bce non può ovviare ai loro errori con tassi bassi e troppa liquidità. I Governi hanno però preferito pensare che la colpa fosse tutta dei mercati…
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