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Trump. Più una conseguenza che una causa

“Come avete ridotto questo paese”? Così Michael  Moore titolava un famoso libro dell’epoca Bush jr, nel pieno della guerra infinita scatenata nel primo decennio di questo XXI secolo. Il noto e graffiante regista Premio Oscar 2003 non sappiamo come abbia reagito alla vittoria di Trump, lui che aveva deciso di votare per Hillary Clinton predicendo per lei, se fosse stata eletta, un futuro da “rivoluzionaria come Papa Francesco” (ehm…).

Ma le opinioni e le fascinazioni ormai contano poco. Soprattutto perché – tenendo conto del paese in questione – alla legittima domanda su come sono stati stati ridotti gli Stati Uniti occorre aggiungere la conseguente: “come avete ridotto questo mondo?”. Il motivo è semplice. La “stazza” e il peso degli Stati Uniti sugli equilibri mondiali degli ultimi settanta anni sono stati rilevanti e decisivi. La vittoria di un personaggio come Trump strappa il velo su molte certezze da tempo in via di totale rimescolamento.

Se partiamo dall’interno della società nordamericana, è evidente come l’american way of life – la garanzia di standard superiori a quelli di ogni altro paese – era stata resa possibile dallo sfruttamento e dal controllo delle risorse di gran parte del resto del mondo.  Dal 1991 in poi, l’avere a disposizione tutto il pianeta, senza più la rottura rappresentata dai paesi del "socialismo reale", aveva accentuato il processo di fortissima polarizzazione sociale verso l’alto (per una minoranza) e verso il basso (per la maggioranza), avviato con la “reaganomics”; ossia con l’ondata liberista degli anni Ottanta.

Il mercato interno statunitense diventava meno rilevante rispetto al mercato mondiale. Ragion per cui welfare state, buoni salari, posti di lavoro veri (il fordismo insomma) diventavano superflui ai fini dell’accumulazione di profitti e ricchi dividendi per “quelli di Wall Street" e le multinazionali; insomma per l’establishment che aveva sempre accompagnato la tranquilla alternanza tra democratici e repubblicani, in piena continuità con il passato.

Il crollo delle classi medie – la middle class protagonista dei decenni precedenti, sia sul piano elettorale che su quello economico interno – ha disgregato in profondità il rapporto tra questo establishment e la società reale statunitense. Il borbottìo di fondo è diventato sempre più rabbia davanti al crollo dei salari (oltre il 40% in meno, nell'Ohio dell'automobile), ai tagli al welfare state, alla competizione selvaggia sul lavoro e nei servizi con gli immigrati o con le produzioni delocalizzate nei paesi a bassi e bassissimi salari (dalle maquiladoras messicane all’Asia).

Ma l’establishment era rimasto convinto che le cose potessero procedere come prima attraverso lo “sgocciolamento”. Se i ricchi si arricchiscono, qualche briciola cade anche verso il basso e tutti si possono accontentare.

La vittoria di Trump ha demolito, almeno sul piano elettorale, questo sistema che pareva inossidabile, immodificabile e soprattutto esportabile anche nel resto del mondo.

E poi è ancora vigente la fase della crisi irrisolta degli anni ’70, manifestatasi in modo acuto dal 2007 a oggi. Cominciano a essere costanti gli indicatori del declino – relativo – degli Stati Uniti nell’economia internazionale. La quota mondiale del valore aggiunto rappresentata dall’industria statunitense è scesa dal 27,8% del 2000 al 19% del 2015. La percentuale degli Stati Uniti sul Pil mondiale è  ormai da anni al di sotto della soglia psicologica del 25% (il 23,3). Che il vecchio ordine mondiale basato sull’egemonia statunitense fosse agli sgoccioli lo aveva sottolineato anche una vecchia volpe come Kissinger, nel suo ultimo libro.

Tutto questo ha avuto, ha ed avrà effetti sul resto del mondo? Certamente. “La posta in gioco non riguarda ormai solo singole politiche economiche o sociali ma lo stesso futuro dell’occidente industriale e del multilateralismo – scrive un preoccupatissimo Sole 24 Ore a commento delle elezioni Usa.  Tanto è vero che la stessa Unione Europea, per ingaggiare la competizione globale – ed in particolare proprio con gli Usa – in questi ultimo decennio si è a sua volta “amerikanizzata”,  mandando in soffitta il vecchio modello sociale europeo e riproducendo all’interno dei propri paesi gli stessi fenomeni sociali, anticipando pulsioni politiche ed elettorali simili a quelle espresse da Trump.

Un messaggio formidabile era venuto dalla Brexit manifestatasi nel paese europeo più simile al modello americano. La frustrazione delle classi medie in declino e la rabbia sorda della working class disgregata, ridotta alla totale subalternità, sono esplose appena hanno trovato il varco per farlo mandando a quel paese l’establishment. Prima in Gran Bretagna, adesso negli Stati Uniti ed ora vedremo cosa accadrà negli altri paesi del vecchio blocco occidentale, quello che ha condotto e vinto la guerra globale contro l’Urss sulla base di un binomio ritenuto "naturale" tra mercato, consumismo e democrazia.

Se le sorti magnifiche del mercato e della deregulation scricchiolano ormai in parecchi punti, se gli stessi consumi crollano nei paesi situati nel “cuore” del sistema capitalista mondiale, anche la “democrazia”  – come anticipato dalla Commissione Trilateral dalla metà degli anni Settanta, mostra seriamente i suoi affanni e non è più funzionale. Già si era tuonato contro il suffragio universale in occasione della Brexit, adesso con la vittoria di Trump si torna a invocare il voto selettivo, alla luce del fatto che “il popolo” si sceglie talvolta leader imprevedibili o impresentabili per manifestare il suo disagio o la sua rabbia. E’ accaduto in passato (c’è chi ha votato in massa per Hitler o Mussolini),  è accaduto di recente in Italia con la variabile impazzita Berlusconi, che ha rallentato per qualche tempo i progetti di normalizzazione avviati con la gabbia dei Trattati Europei. Ora è accaduto negli Stati Uniti.

Adesso stanno tutti lì a leccarsi le ferite perché il candidato dell’establishment statunitense ha perso e un mutante le ha vinte, delineando incognite su cui molti avevano smesso di ragionare da troppo tempo. “Ci siamo chiesti come fosse possibile che una potenza economica e politica come l’America non fosse in grado di esprimere qualcuno di meglio”, ammette un quotidiano economico. Si personalizza la questione per evitare di porre la domanda da un fantastiliardo di dollari:  se il capitalismo abbia ancora la forza propulsiva dimostrata negli ultimi due secoli o abbia ingranato la via della regressione. Questa verifica di “fase storica” non poteva che prodursi negli Stati Uniti, ma i suoi effetti si sentiranno a livello mondiale.

 

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