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Gli Usa si ritirano… e il mondo continua a girare

La notizia è nota: l’amministrazione degli Stati Uniti ha annunciato che dal 6 luglio 2021 uscirà dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Lo aveva già fatto nel 2018 con altre istituzioni delle Nazioni Unite, come il Consiglio per i Diritti Umani.

La sostanza però è che, nonostante l’abbandono delle istituzioni internazionali da parte degli Usa, il mondo continua a girare, e questo è il peggiore degli scenari per la potenza che è stata egemonica sul mondo, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi.

Gli Usa versano all’Oms il 15% del suo budget. Il colpo si sentirà, ma molto meno di quanto prevedono a Washington. Inoltre tra l’annuncio e l’attuazione di questo ritiro passerà un anno e in mezzo ci sono le elezioni di novembre e il possibile cambio di presidenza negli Usa.

Ma la vera questione – e l’incubo dell’establishment statunitense – torna ad essere la verifica se il complesso delle relazioni internazionali del XXI Secolo possono fare a meno (o farsi condizionare meno) della supremazia statunitense esercitata fino ad oggi.

Non è superfluo rammentare ai nostri lettori che questo incubo i neoconservatori statunitensi lo intravedono da almeno tre decenni e lo individuarono proprio nel momento della massima egemonia globale statunitense.

Nel 1991 veniva ammainata la bandiera rossa sul Cremlino e l’Urss si avviava alla dissoluzione dopo quarantacinque anni di guerra fredda. L’implosione dell’Urss consegnò il mondo agli Stati Uniti e alla loro egemonia.

I fattori di egemonia sono sempre tre: quello economico, quello militare e quello ideologico. All’inizio degli anni Novanta si poteva ben affermare che la contrapposizione con l’Urss era stata vinta dagli Usa e dal loro modello egemonico, a tutti i livelli. Eppure negli ambienti del deep state statunitense emerse la consapevolezza che se la guerra era stata vinta, il costo era stato insopportabile anche per loro e che un nuovo sforzo di quelle dimensioni non sarebbe stato più realizzabile.

Per tale ragione il primo manifesto dei neocons, uscito parzialmente e per vie traverse sul Washington Post nel 1992, dichiarava esplicitamente che occorreva agire con ogni mezzo per impedire che nascessero una o più potenze rivali degli Usa.

La stessa tesi veniva ribadita con maggiori particolari nel Pnac (Project for a New American Century), il Progetto per un nuovo secolo americano stilato dagli stessi neocons, reso pubblico nel 2000 e ispiratore delle scelte strategiche dell’amministrazione Bush jr.

Nascono lì i tentativi di mantenere l’egemonia globale statunitense con ogni mezzo: due guerre in pochi anni (Afghanistan, Iraq), la pervasività delle multinazionali Usa in tutti gli angoli del mondo e soprattutto in Asia, una finanziarizzazione estrema e dilagante, la rivendicazione dell’american way of life come il migliore dei mondi possibili.

Ma, come direbbe Bod Dylan, non occorreva essere dei meteorologi per capire che il vento stava già cambiando.

Dopo l’umiliazione dell’aggressione Nato in Jugoslavia, in Russia veniva allontanato il pagliaccio degli Usa (Eltsin) e posto al comando saliva Putin.

La Cina nel 2001 entrava nella Wto accedendo a pieno titolo al mercato mondiale, ma tenendo la propria moneta interna e gli assetti delle proprie società al riparo dalle incursioni degli avvoltoi della finanza.

L’Unione Europea dal 2000 decretava la nascita dell’Eurozona e dal 2002 si rompeva il monopolio del dollaro e l’euro diventava moneta circolante e utilizzabile nelle transazioni internazionali.

Insomma tre diverse variabili di Stati, entità formalmente partner o addirittura alleate, indicavano una tendenza alla multipolarità mondiale piuttosto che al perseverare dell’egemonia globale Usa.

Se gli Usa mantengono la supremazia militare, sul piano economico ed ideologico (gli altri due fattori egemonici) cominciano a verificare che the times are changing.

Lo dimostrano il fattuale svuotamento di importanza delle camere di compensazione internazionali fondate sul Washington Consensus, come la Wto, il Fmi, la stessa Nato.

America Latina, mondo islamico ed opinioni pubbliche europee cominciano a rifiutare il modello statunitense, mentre nell’economia crescono altri competitori (Unione Europea e Cina soprattutto).

Non solo in alto ma anche “in basso”: il movimento no global, pur con tutte le sue contraddizioni interne, ha veicolato una diffusa insofferenza verso il modello liberista imposto dagli Usa.

Gli scontri al vertice del Wto di Seattle a fine 1999, le manifestazioni antirazziste e anticolonialiste del febbraio 2001 al vertice Onu di Durban e poi le oceaniche manifestazioni in Europa, inclusa Genova 2001 e dopo, nonostante la repressione e le operazioni di depotenziamento riformista, evocavano l’incrinatura di una egemonia statunitense sul mondo. Quella che si è poi palesata in tutta nitidezza con la crisi del 2007/2008.

L’avvento, per molti versi inaspettato, di Trump alla presidenza Usa appare come l’ennesimo e disperato tentativo di frenare questo corso della storia. Questo, ovviamente, non li rende meno pericolosi per l’umanità.

Ma, come scrive un esponente del mondo finanziario, gli stessi Usa cominciano ad essere “fottuti”.

E per questo, negli ultimi venti anni, il mondo ha scoperto che può vivere anche senza o riducendo l’ingombrante peso degli Stati Uniti nelle istituzioni internazionali. Non è un cambiamento da poco.

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