E’ davvero noioso leggere le interpretazioni sui risultati elettorali nei ballottaggi.
Che abbiano vinto i candidati della destra, che l’astensione sia il primo partito, che non ci sia una “sinistra” (una forza politica la cui pratica corrisponda all’”idea” che si ha della “sinistra”), è così evidente che bisognerebbe interrogarsi sulle ragioni, piuttosto che – sui “giornaloni” come sui social – cercare di soppesare quanto abbia influito l’ininfluenza della Schlein o “l’abilità” della Meloni. Degli altri inutile parlare…
Mai come in questo caso restare con gli occhi e la mente inchiodati alle dinamiche italiche significa diventare ciechi.
La stessa tendenza – lo stesso “vento” – spira infatti su tutta Europa. Inchioda al muro la Spagna, la Grecia, la Slovenia, i paesi scandinavi, in varia misura anche la Germania e la Francia, dove pure per fortuna c’è ancora vivo e forte un movimento sociale contro Macron e il neoliberismo che non regala spazio a Le Pen et similia.
Qualche anno fa si era imposta una “alternativa populista” che sembrava in grado di modificare quadri politici ingessati da quelle che venivano lette – stupidamente – come “logiche di partito”, anziché come crisi del meccanismo della rappresentanza.
Ci si era insomma illusi che – a destra, al centro, “a sinistra” – bastasse sostituire gli esausti comitati elettorali dei “soliti noti” con formazioni “fresche, giovani, inclusive”, dai confini mobili e dalle caratteristiche organizzative “disinvolte”, per ottenere un cambiamento significativo. Se non del modello sociale e produttivo, almeno della sua capacità inclusiva, riscoprendo l’utilità di qualche diritto sociale smantellato e diversi diritti civili ormai scontati nella sensibilità del “senso comune” sociale.
In pochi mesi abbiamo visto collassare tutte le forze nate in quella stagione, qualsiasi fosse la percentuale – anche notevole – di consensi raccolti prima. E’ difficile trovare traccia nei risultati elettorali dei Cinque Stelle in Italia, di Podemos e Ciudadanos (centristi) in Spagna, la stessa Syiriza in Grecia (sia pure con un crollo meno catastrofico), ecc.
Se un fenomeno è comune a tutta l’Europa chiaramente non può essere analizzato ricorrendo alle solite argomentazioni ad hoc che si usano per giustificare o richiedere un cambiamento di linea o di leadership qui sotto casa.
Ed è altrettanto evidente che quelle linee politiche e le relative leadership sono il punto di arrivo di un processo di decadimento che sta arrivando al punto di decomposizione.
La “sinistra” è ormai un termine insignificante. Sta ad indicare formazioni in qualche modo derivanti alla lontana dalle ex socialdemocrazie europee, con agglomerati estremamente confusi – ad esempio in Italia – che hanno visto confluire ex comunisti ed ex democristiani, ma che hanno co-gestito negli ultimi 30 anni tutti i processi di privatizzazione-liberalizzazione attraverso cui è stato smantellato il welfare state.
Queste formazioni para-socialdemocratiche hanno insomma contribuito a quel continuo peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e della generiche “masse” su cui si è andata incistando l’ideologia fascista che oggi raccoglie consensi inquietanti, anche al lordo dell’elevatissima astensione.
Non è la prima volta che accade. Ma per le similitudini – e le lezioni della Storia – tocca riandare ad un secolo fa, alla nascita dei regimi nazifascisti in Italia e in Germania.
A leggere, per esempio, l’introduzione di Giorgy Lukacs alla sua Critica dell’ideologia fascista (chissà perché mai tradotta in italiano), dove possiamo ritrovare un meccanismo assolutamente contemporaneo, quello dell’”unità a prescindere per non far vincere la destra” che in realtà accetta il processo di fascistizzazione, ma cerca di limitarlo alle sue espressioni “meno peggio”.
“La famosa teoria del “male minore” si basa su questa visione fatalistica dell’inevitabilità del fascismo: Brüning è il male minore rispetto a Papen, Schleicher rispetto a Hitler, domani forse Hitler rispetto agli “estremisti nazionalsocialisti” ecc. E così all’infinito.”
Ma guai a interpretare le dinamiche politiche come il “motore” dell’evoluzione storica. La domanda centrale è infatti “qual è il momento generale? Ovvero, dov’è il centro di gravità degli interessi generali di classe della borghesia nel suo complesso?”
Detto altrimenti: non esiste oggi un “partito dei lavoratori e degli sfruttati”, dunque le forze politiche esistenti interpretano più o meno bene gli interessi di settori della borghesia. Che la parte numericamente dominante, in paesi come l’Italia, sia fatta di ristoratori, operatori turistici, piccola e piccolissima impresa, è certamente una disgrazia che impedisce persino di intravedere ipotesi di “sviluppo”. A questa gente basta pagare salari da fame (o anche nulla) e vedersi togliere le tasse. Tutto il resto, per loro, non conta.
Ma in una crisi come l’attuale, che sta sfociando a passi sempre più grandi verso la guerra, non sono certo questi settori a poter “dare la linea” che mette insieme tutti i settori della borghesia.
O, se volete, è qui la ragione “strutturale” per cui un governo a guida neofascista come quello attuale segue pedissequamente – con qualche mal di pancia che mette in fibrillazione la gestione del Pnrr – il solco dettato da tutti i governi precedenti sotto la supervisione della Nato (per quanto riguarda la politica estera) e dell’Unione Europea (per quanto riguarda le politiche economiche).
“Non c’è differenza” tra le forze politiche in campo se non per le questioni puramente “ideologiche”. Ed allora ecco i Lollobrigida che ancora rimestano nei misteri della “difesa della razza”, i Pillon che vorrebbero inquisire su cosa avviene sotto le lenzuola, i tanti mentecatti finalmente arrivati a poter “dire la loro” (ma è una stronzata…).
Lo stesso avviene con Vox e altre formazioni inguardabili, un po’ dappertutto, compresi gli Stati Uniti sull’orlo della guerra civile e con armi in casa sufficienti per farla davvero.
E’ l’Occidente neoliberista – o ”area euro-atlantica” – a trovarsi di fronte ad una perdita dell’egemonia sul resto del mondo, che comporta anche la perdita dei vantaggi competitivi storicamente sedimentati. Basti pensare alla possibilità della Francia di ramazzare l’uranio nel Sahel pagandolo con quanto bastava a nutrire l’appetito di qualche dittatore intercambiabile.
“Crisi” non è una parola magica da tirar fuori per indicare cosa non si sa descrivere dettagliatamente. E’ un fatto.
E la crisi di egemonia dell’imperialismo temporaneamente dominante produce guerra.
“Le masse”, i lavoratori, gli elettori insomma, “sentono” confusamente che sta avvenendo qualcosa che mette il discussione la loro vita grama, ma comunque in qualche misura migliore – grazie agli storici “vantaggi competitivi” – di quella dei popoli colonizzati.
In assenza di alternative tendono ad arruolarsi, a seguire i pifferai che provano ancora una volta ad illudere che possa esserci una soluzione “vincente”. Ovvero quella che rimette gli altri “al loro posto” e consente ai “nostri oligarchi” di andare avanti come prima.
E’ un’illusione, certo, perché il resto del mondo è cresciuto molto ed è ora più consapevole, sia della propria forza che della necessità di un “ordine mondiale” senza un dominus rapinatore.
Ma il velo dell’illusione non cade soltanto perché qualcuno lo indica. E il “vento di destra” non smette di soffiare fino a quando non si rompe il motore che lo aziona.
E’ il “vento di guerra” che va fermato. Il resto segue.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
Gianfranco
Se la sinistra è tutta (al netto delle sfumature) figlia delle socialdemocrazie, ovvero del discorso progressista-imperialista (del tutto interno all’ordine imperiale occidentale), quando quello stesso ordine vacilla si torna ai fondamentali stringendosi tutti attorno alla bandiera dell’impero, la cui supremazia incontrastata è alla base degli stessi margini del progressismo occidentale. E in questo momento l’impero reclama guerra all’esterno per riaffermare la sua supremazia, che per essere combattuta richiede, all’interno delle metropoli, di rinserrare i ranghi in ordine di marcia (fascismo). Le masse popolari seguono semplicemente il discorso egemonico traendone le logiche conseguenze al netto del velo ipocrita dell’ideologia demoliberale, visto che è questa l’unica idea di mondo che gli è stata raccontata, su cui si basano tutte le altre. E’ solo l’inizio della VERA resa dei conti per tutto l’opportunismo riformista-parlamentare a sinistra post 1945 (Togliatti compreso). Fine dei giochi.
Eros Barone
Dal punto di vista politico, la fascistizzazione, che è il vettore principale dei processi cui stiamo assistendo, ha trovato il suo corrispettivo nella trasformazione della Lega in un partito marcatamente autoritario a vocazione nazionale, ma attentissimo a offrire le dovute garanzie alle oligarchie finanziarie e alle istituzioni sovrannazionali pubbliche e private. La Lega, peraltro, ha riscosso un consenso negli strati popolari con una propaganda anti-sistema, pur rappresentando specifici settori capitalistici. Essa ha monopolizzato il tema della sicurezza non solo per introdurre un’ulteriore stretta repressiva sulle lotte sociali e sugli scioperi, ma soprattutto per sacralizzare, sul piano pratico e ideologico, la proprietà privata (e questa è la ragione principale per cui, orbitando anch’essi all’interno di questa decisiva sfera ideologica e dei relativi interessi economici, i partiti ‘di sinistra’, come si può osservare nelle regioni centro-settentrionali, sono stati, sono e saranno del tutto complementari alla Lega). Per quanto riguarda taluni settori, anche rilevanti, del capitalismo italiano (energia, metallurgia, meccanica, grande distribuzione ecc.), questi settori hanno scelto di appoggiare la Lega e, in misura crescente, il partito neofascista Fratelli d’Italia, in quanto hanno bisogno della politica ultrareazionaria e di scissione sistematica del proletariato, perseguita da tali forze anche attraverso lo spezzettamento del paese, per conservare i rapporti sociali esistenti, per intensificare lo sfruttamento e ridurre ulteriormente salari, diritti e spese sociali, per sopprimere le libertà democratiche degli operai, intimidire e attaccare le organizzazioni di classe e le forme di lotta più decise, impedendo, in coerenza con l’imperativo della controrivoluzione preventiva, che i focolai della ribellione proletaria e popolare si estendano alle basi del sistema di sfruttamento. Significativo è poi il caso di un ‘partito-marmellata’ quale è il Movimento 5 Stelle, coacervo interclassista, più qualunquista che populista, espressione di un generico malcontento verso la cosiddetta “casta” dei politici, di cui ben presto ha finito col fare le spese a parti invertite, come accadde al suo omologo storico, il Fronte dell’Uomo Qualunque, fra la metà degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso. Pur presentandosi come forza di rottura col sistema, il Movimento 5 Stelle ha dimostrato infatti di essere totalmente incapace di condurre una lotta organizzata contro il regime borghese e perciò non è stato in grado di risolvere nessuno dei fondamentali problemi economici, sociali e politici del paese, cosicché dopo l’esperienza compiuta alla direzione o all’interno degli ultimi governi borghesi la sua intrinseca natura trasformista l’ha portato inevitabilmente a disintegrarsi diventando, nel migliore dei casi, il serbatoio di un nuovo, anche se scadente, personale di servizio per l’oligarchia finanziaria (basti pensare a personaggi come Di Maio o Fico). Ma il caso più rilevante è quello del partito neofascista Fratelli d’Italia, la cui crescita si sviluppa a ritmo esponenziale in corrispondenza con il ciclo reazionario che è proprio del nostro paese, in cui gioca un ruolo importante non solo il declassamento di vasti strati della piccola borghesia tradizionale, ma anche l’orientamento sempre più duramente antioperaio e brutalmente repressivo di nuovi strati della media e della grande borghesia: un ciclo reazionario che, in nome della progressiva limitazione dei diritti economici e sociali della classe operaia e della sacralizzazione della proprietà privata, si dispiega anche e soprattutto a livello europeo.