Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca segna un punto di svolta nell’”occidente collettivo”. Chi ne esce sconfitto è senza dubbio quello che si usa chiamare “l’establishment”. Quel “complesso di istituzioni che, in un Paese, detengono il potere sia nella vita politica in generale sia in singoli settori di attività, e le persone e i gruppi che sono a capo di tali istituzioni”.
Di fatto, quel miscuglio inestricabile di interessi economici e politici, fisicamente rappresentato da una classe politica intercambiabile e da imprenditori-banchieri di alto livello, oltre ad animatori di think-tank, direzione dei media e via elencando, fino ai sondaggisti. Una oligarchia indiscutibile che amava presentarsi come “la vera democrazia”.
Gli Stati Uniti avevano fin qui plasticamente rappresentato questa menzogna istituzionalizzata, dove i repubblicani e i “democratici” si alternavano senza scossoni, tra gentleman agreement o frequentazioni amichevoli, in sintonia con quel nebbioso “deep state” – ciò che dura, al di là dei cambi di maggioranza politica – composto da servizi segreti, esercito, complesso militare-industriale.
Ma una situazione sostanzialmente simile vigeva – e vige sempre meno – anche in Europa.
L’irruzione del trumpismo nella vita politica Usa e quindi di tutto l’occidente neoliberista ha distrutto prima il contenitore “repubblicano perbene”, e subito dopo anche il comitato d’affari “democratico”, che nell’ultimo decennio era diventato la nuova casa dei temuti neocon, quel branco di suprematisti yankee impegnato a immaginare come mantenere l’egemonia globale anche a dispetto dell’evidente declino statunitense.
Questo establishment si è ammantato negli ultimi tre decenni – a partire dalla caduta del muro e dell’Unione Sovietica – di “globalismo”, “mercato mondiale”, “ingerenza umanitaria” e persino di “guerra umanitaria”, di “diritti civili” sventolati per nascondere la scomparsa dei diritti sociali (salari decenti, welfare, sanità pubblica, ecc). Tacciando di “sovranismo” ogni istanza – sbagliata o giusta che fosse, reazionaria o “socialisteggiante” – tesa a preservare parti del vecchio assetto postbellico.
Il totem inamovibile della “democrazia ideale” statunitense era già allora poco più di uno straccio sporco. Soprattutto di sangue. Ma veniva tenuto in auge sulla base del postulato per cui, nelle elezioni, “un voto vale un voto”, che avrebbe dovuto essere la dimostrazione – sul piano politico – dell’identico assioma “mercatista” per cui nello scambio capitalistico siamo “tutti uguali”, ossia soggetti pienamente autonomi, dotati delle stesse informazioni e con l’identico potere. L’ultimo dei disoccupati come il più ricco del mondo…
Poi tutti sono costretti a notare che un multimiliardario – come molti suoi pari – aveva puntato poco più di 100 milioni di dollari sulla vittoria di Trump, guadagnandoci poi 16 miliardi in un giorno per il conseguente boom di borsa. Proprio come l’ultimo dei disoccupati, no?
Ma anche sul piano strettamente elettorale la “democrazia” Usa mostrava da tempo vuoti pazzeschi. Modalità di voto differenti da stato a stato, compresa la non obbligatorietà – in alcuni di essi – di esibire i documenti di identità (con possibilità di brogli praticamente infinita). E soprattutto lo squilibrio intollerabile del diverso “peso” di ogni singolo voto a seconda dello stato di residenza.
La California, per esempio, conta 39 milioni di abitanti ed elegge 54 “grandi elettori” del presidente. I 22 stati meno popolosi, nell’insieme, vantano qualche abitante in meno ma eleggono 94 “grandi elettori”. Di fatto un voto nell’Iowa o nel North Dakota vale doppio rispetto a uno espresso a Los Angeles.
Grande “democrazia”, veramente esemplare…
L’establishment aveva però inconsapevolmente eroso le basi stesse dell’”unità americana” favorendo la libertà del grande capitale di muoversi a suo piacere su tutto il pianeta. Tre decenni di “globalizzazione” hanno provocato la delocalizzazione di buona parte degli stabilimenti industriali Usa. E’ noto che Apple produce in Cina i device disegnati in America, ma lo stesso avviene per quasi tutti i grandi gruppi, anche automobilistici (tra cui proprio Tesla di Elon Musk).
In questa fuga si è andato disfacendo il benessere della “classe media”, ossia dell’architrave della stabilità e della pace sociale. Mentre sono andate crescendo le sacche di povertà e disagio sociale in diretta proporzione con l’aumento sconfinato dei profitti e dei patrimoni multimiliardari.
Quel disagio e quel rifiuto ha infine trovato – non paradossalmente – il suo sbocco in un miliardario truffatore, capace di presentarsi come “uno come voi” promettendo il “ritorno all’età dell’oro”. Per comprendere la profondità della contraddizione tra situazione sociale e “sbocco politico” conviene forse far notare come, in pratica, migliaia di complottisti convinti che “l’uomo non è mai andato sulla luna” hanno compattamente votato chi promette di “andare su Marte” (con Musk).
Ma non c’è solo l’aspetto truffaldino, cui si attaccano disperatamente gli ultimi epigoni dell’establishment mediatico europeo.
L’irruzione del trumpismo ha portato già da anni una modificazione della dialettica politica all’interno stesso delle classi dominanti. Le “tre regole” su cui Trump è stato formato da Roy Cohn – l’avvocato vicino a McCarthy che fece condannare a morte i coniugi Rosenberg come “spie sovietiche” – non prevedono rispetto delle regole o delle leggi, né compromessi o riconoscimento reciproco.
“Attacca sempre”, “nega anche l’evidenza”, “non ammettere mai la sconfitta” significano guerra interna, eliminazione degli ostacoli istituzionali all’esercizio illimitato del potere, allineamento degli altri protagonisti – finanziari o politici – secondo lo schema semplificante “o con me, o contro di me”.
Non è difficile riconoscere in queste regole lo “stile” di tutte le destre europee. Nel loro piccolo Meloni, Salvini, Le Pen, i leader di Vox e Afd, si comportano esattamente nello stesso modo, ricalcando con meno fantasia le orme di Berlusconi agli esordi (ma senza i suoi soldi e i suoi media).
La caduta dell’establishment Usa diventa così anche il crollo dell’”antifascismo liberale”, quella retorica che ricompariva alla vigilia di ogni elezione, chiamando all’”unità” fino a un minuto dopo la chiusura delle urne. Quando, cioè, si riprendeva a sagomare l’architettura istituzionale e le misure di governo sugli interessi sempre meno lungimiranti del mondo delle imprese.
Non sappiamo dire se questa sia l’apertura di una “nuova era” da incubo. Ma di certo tra le varie soluzioni alla crisi di egemonia degli Usa queste elezioni hanno selezionato quella meno “globalista”, più difensiva, apertamente nostalgica e reazionaria.
Chiusura autoritaria sul fronte interno e diversa postura su quello esterno, nel frattempo profondamente mutato con il rafforzamento della Cina e dei Brics.
E siccome nella storia difficilmente i “ritorni al passato” funzionano, questa può diventare un’accelerazione della crisi. Non solo americana, ma anche – e soprattutto prima – dei sempre più sfilacciati “partner europei”.
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Enea Bontempi
A livello della politica internazionale è prevedibile che con la presidenza di Trump non ci saranno cambiamenti radicali. La dura contesa con la Cina e la concorrenza sempre più aspra con l’Unione Europea sono infatti necessità strutturali di lungo periodo per l’imperialismo statunitense. Non muterà la politica mediorientale del sostegno incondizionato ad Israele e della crescente aggressività verso l’Iran, essendo Trump un ultrasionista. Una variante tattica sarà la politica di ‘appeasement’ verso la Russia (industria militare e Pentagono, Unione Europea ed Ucraina permettendo). Tutto ciò dimostra che gli Stati Uniti sono ormai entrati in una fase di crescenti turbolenze interne ed internazionali, che ne aggraveranno criticità e debolezze creando condizioni favorevoli allo sviluppo e alla radicalizzazione della lotta di classe non solo nell’America del Nord, ma in tutto il mondo.