A più di un secolo dall’inizio della Grande Crisi del 1914-1945, rappresentata dalla Prima Guerra Mondiale, dalla Grande Depressione e dalla Seconda Guerra Mondiale, stiamo assistendo a un’improvvisa recrudescenza della guerra e del fascismo in tutto il mondo.
L’economia mondiale capitalistica nel suo complesso è ora caratterizzata da una profonda stagnazione, dalla finanziarizzazione e da un’impennata delle disuguaglianze. Tutto questo è accompagnato dalla prospettiva di un omicidio planetario nella duplice forma dell’olocausto nucleare e della destabilizzazione climatica. In questo pericoloso contesto, la nozione stessa di ragione umana viene spesso messa in discussione. È quindi necessario affrontare ancora una volta la questione del rapporto dell’imperialismo o del capitalismo monopolistico con la distruzione della ragione e le sue conseguenze per le lotte di classe e antimperialiste contemporanee.
Nel 1953 György Lukács, la cui Storia e coscienza di classe del 1923 aveva ispirato la tradizione filosofica marxista occidentale, pubblicò la sua opera magistrale, La distruzione della ragione, sulla stretta relazione dell’irrazionalismo filosofico con il capitalismo, l’imperialismo e il fascismo.[1]
L’opera di Lukács scatenò una tempesta di fuoco fra i teorici della sinistra occidentale che cercavano di adattarsi al nuovo imperium americano. Nel 1963, George Lichtheim, un sedicente socialista che operava all’interno della tradizione generale del marxismo occidentale, pur opponendosi virulentemente al marxismo sovietico scrisse un articolo per «Encounter Magazine», allora finanziata segretamente dalla Central Intelligence Agency (CIA), in cui attaccava con veemenza La distruzione della ragione e altre opere di Lukács.
Lichtheim accusò Lukács di aver generato un «disastro intellettuale» con la sua analisi del passaggio storico dalla ragione all’irragionevolezza all’interno della filosofia e della letteratura europee, e della relazione di questo con l’ascesa del fascismo e del nuovo imperialismo sotto l’egemonia globale degli Stati Uniti.[2]
Non era la prima volta, naturalmente, che Lukács veniva sottoposto a condanne così forti da parte di figure collegate al marxismo occidentale. Theodor Adorno, uno dei teorici dominanti della Scuola di Francoforte, attaccò Lukács nel 1958, quando quest’ultimo era ancora agli arresti domiciliari per aver sostenuto la rivoluzione del 1956 in Ungheria.
Scrivendo su «Der Monat», una rivista creata dall’esercito americano di occupazione e finanziata dalla CIA, Adorno accusò Lukács di essere «riduttivo» e «non dialettico», di scrivere come un «commissario culturale» e di essere «paralizzato fin dall’inizio dalla consapevolezza della propria impotenza».[3]
Tuttavia, l’attacco di Lichtheim a Lukács del 1963, in «Encounter», assunse un ulteriore significato per la sua condanna assoluta de La distruzione della ragione. In quest’opera, Lukács aveva tracciato il rapporto tra l’irrazionalismo filosofico – emerso per la prima volta sul continente europeo, in particolare in Germania, con la sconfitta delle rivoluzioni del 1848, e divenuto una forza dominante verso la fine del secolo – e l’ascesa della fase imperialista del capitalismo. Per Lukács, l’irrazionalismo, compresa la sua ultima fusione col nazismo, non era uno sviluppo fortuito, ma piuttosto un prodotto del capitalismo stesso.
Lichtheim rispose accusando Lukács di aver commesso un «crimine intellettuale» nel tracciare illegittimamente un collegamento fra l’irrazionalismo filosofico (collegato a pensatori come Arthur Schopenhauer, Friedrich Nietzsche, Henri Bergson, Georges Sorel, Oswald Spengler, Martin Heidegger e Carl Schmitt) e l’ascesa di Adolf Hitler.[4]
Lukács iniziava provocatoriamente il suo libro scrivendo: «L’argomento che ci si presenta è il cammino della Germania verso Hitler, nella sfera della filosofia». Ma la sua critica era in realtà molto più ampia e vedeva l’irrazionalismo come legato alla fase imperialista del capitalismo più in generale. Pertanto, ciò che più indignava i critici di Lukács in Occidente, all’inizio degli anni Sessanta, era il suo suggerimento che il problema della distruzione della ragione non era svanito con la sconfitta storica del fascismo, ma che continuava a nutrire tendenze reazionarie, anche se in modo più nascosto, nella nuova era della Guerra Fredda dominata dall’imperium statunitense.
«Gli incubi di Franz Kafka», accusava Lichtheim, erano trattati da Lukács come prova del «carattere diabolico del mondo del capitalismo moderno», ora rappresentato dagli Stati Uniti.[5] Tuttavia, l’argomentazione di Lukács a questo proposito era impossibile da confutare. Così scrisse, in termini ancora oggi significativi:
«A differenza della Germania, gli Stati Uniti avevano una costituzione democratica fin dall’inizio. E la sua classe dirigente è riuscita, soprattutto durante l’epoca imperialista, a preservare le forme democratiche in modo così efficace da ottenere, con mezzi democraticamente legali, una dittatura del capitalismo monopolistico almeno altrettanto salda di quella instaurata da Hitler con procedure tiranniche.
Questa cosiddetta democrazia senza intoppi è stata creata dalla prerogativa presidenziale, dall’autorità della Corte Suprema in materia di questioni costituzionali, dal monopolio finanziario sulla stampa, sulla radio e così via, dai costi elettorali, che hanno impedito con successo la nascita di partiti realmente democratici accanto ai due partiti del capitalismo monopolistico, e infine dall’uso di strumenti terroristici (il sistema del linciaggio). E questa democrazia poteva, in sostanza, realizzare tutto ciò che Hitler desiderava raggiungere senza bisogno di rompere formalmente con la democrazia. Inoltre, aveva la base economica incomparabilmente più ampia e solida del capitalismo monopolistico».[6]
In queste circostanze, l’irrazionalismo e l’«accumulo di cinico disprezzo per l’umanità», insisteva Lukács, erano «la necessaria conseguenza ideologica della struttura e della potenziale influenza dell’imperialismo americano».[7]
Questa scioccante affermazione secondo cui esisteva una continuità nel rapporto tra imperialismo e irrazionalismo che si estendeva per un intero secolo, dall’Europa di fine Ottocento, attraverso il fascismo, e che continuava nel nuovo imperium della NATO dominato dagli Stati Uniti, fu fortemente respinta all’epoca da molti di coloro che facevano parte della tradizione filosofica marxista occidentale. Fu questo, quindi, più di ogni altra cosa, a portare al quasi completo disconoscimento dell’opera successiva di Lukács (dopo Storia e coscienza di classe del 1923) da parte dei pensatori di sinistra che collaboravano al nuovo liberalismo del Secondo Dopoguerra.
Tuttavia, La distruzione della ragione non è stata oggetto di una critica sistematica da parte di coloro che vi si opponevano, il che avrebbe significato affrontare le questioni cruciali che sollevava. Invece è stata liquidata dalla sinistra occidentale, trattata con riprovazione, come una «deliberata perversione della verità», una «invettiva di 700 pagine» e un «trattato stalinista».[8] Come ha notato di recente un commentatore, «la sua ricezione potrebbe essere riassunta da alcune sentenze di morte» emesse contro di esso da importanti marxisti occidentali.[9]
Non si poteva però negare la portata dell’impresa rappresentata da La distruzione della ragione come critica delle principali tradizioni dell’irrazionalismo occidentale da parte del filosofo marxista allora più stimato al mondo. Invece di trattare i vari sistemi di pensiero irrazionalisti della metà del XIX e della metà del XX secolo come se fossero semplicemente caduti dal cielo, Lukács li mise in relazione con gli sviluppi storici e materiali da cui erano emersi. In questo caso, la sua argomentazione si basava in ultima analisi su Imperialismo, fase suprema del capitalismo di V. I. Lenin.[10]
L’irrazionalismo viene quindi identificato, come in Lenin, principalmente con le condizioni storico-materiali dell’epoca del capitalismo monopolistico, con la spartizione del mondo intero fra le grandi potenze e con le lotte geopolitiche per l’egemonia e le sfere di influenza. Ciò si è manifestato in una rivalità economico-coloniale tra vari Stati capitalistici, contrassegnando l’intero contesto storico in cui è emersa la nuova fase imperialista del capitalismo.
Oggi questa realtà materiale fondamentale per molti versi persiste, ma è stata talmente modificata sotto l’imperium globale degli Stati Uniti, che si può parlare di una nuova fase di tardo imperialismo, che risale alla fine della Seconda Guerra Mondiale, confluita immediatamente nella Guerra Fredda e perpetuata, dopo un breve interregno, nell’attuale Nuova Guerra Fredda.
Il tardo imperialismo in questo senso corrisponde cronologicamente alla fine della Seconda guerra mondiale, all’emergere dell’era nucleare e all’inizio dell’Epoca dell’Antropocene nella storia geologica, che ha segnato l’avvento della crisi ecologica planetaria. Il consolidamento del capitale monopolistico globale (più recentemente del capitale monopolistico-finanziario) e la lotta degli Stati Uniti – sostenuta dall’imperialismo collettivo della triade Stati Uniti/Canada, Europa e Giappone – per la supremazia globale in un mondo unipolare corrispondono a questa fase del tardo imperialismo.[11]
Per la stessa sinistra occidentale, la storia del tardo imperialismo è stata segnata principalmente dalla sconfitta delle rivolte del 1968, seguita dalla scomparsa delle società di tipo sovietico dopo il 1989, che ha avuto tra le sue conseguenze principali il crollo della socialdemocrazia occidentale. Questi eventi hanno posto la sinistra occidentale nel suo complesso in una posizione indebolita, definita in ultima analisi dalla sua generale subordinazione ai parametri generali del progetto imperialista incentrato sugli Stati Uniti e dal suo rifiuto di allinearsi alla lotta antimperialista, garantendo così la sua irrilevanza rivoluzionaria.[12]
A questo proposito è essenziale riconoscere che il principale campo di battaglia dell’imperium statunitense per tutto il periodo, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, è stato il Sud del mondo. Le guerre e gli interventi militari – principalmente istigati da Washington – sono stati quasi incessanti in risposta alle rivoluzioni e alle lotte di liberazione nazionale, la maggior parte delle quali ispirate al marxismo, che si sono verificate durante tutto il periodo neocoloniale/postcoloniale.
Sebbene negli ultimi decenni sia emerso uno sviluppo economico in alcune parti del Terzo Mondo, l’intensità dello sfruttamento/espropriazione delle economie della periferia del sistema, nel complesso, è aumentata sotto il capitale monopolistico-finanziario globalizzato attraverso l’arbitraggio globale del lavoro e la servitù del debito, con il risultato che è aumentata anche la polarizzazione del sistema mondiale fra Paesi ricchi e Paesi poveri.
L’attuale lotta imperiale o Nuova Guerra Fredda iniziata da Washington, volta a garantire l’unipolarismo a guida statunitense, rimane incentrata sul controllo del Sud del mondo, che oggi richiede anche il fatale indebolimento delle grandi potenze eurasiatiche di Russia e Cina che minacciano un ordine multipolare rivale e che contestano il sistema unipolare statunitense.
In questo clima pericoloso e distruttivo di tardo imperialismo, l’irrazionalismo ha assunto un ruolo crescente nella costellazione del pensiero. Inizialmente ha assunto la forma relativamente blanda di un postmodernismo e di un poststrutturalismo decostruttivi che, nell’opera di pensatori come Jean-François Lyotard e Jacques Derrida, hanno messo da parte tutte le grandi narrazioni storiche abbracciando un antiumanesimo filosofico che discende principalmente da Heidegger.
Al contrario, le nuove filosofie dell’immanenza di oggi – collegate al postumanesimo, al nuovo materialismo vitalistico, alla teoria delle reti di attori e all’ontologia orientata agli oggetti – costituiscono un irrazionalismo più profondo, rappresentato da figure apparentemente di sinistra come Gilles Deleuze, Félix Guattari, Bruno Latour, Jane Bennett e Timothy Morton. Questi pensatori attingono direttamente a un filone intellettuale irrazionalista e antimodernista che risale all’antimodernismo reazionario di Nietzsche, Bergson e Heidegger.
Il filosofo lacaniano-hegeliano Slavoj Žižek si è infine schierato con la tradizione antiumanista derivante dall’heideggerianesimo di sinistra, generando nella sua opera un carnevale di irrazionalismo. Tutte queste tendenze sono accompagnate da scetticismo, nichilismo e una visione pessimistica della fine del mondo.
Scrivendo sul Sistema irrazionale nel capitolo finale di Monopoly Capital (1966), Paul A. Baran e Paul M. Sweezy esplorarono la distruzione della ragione che era arrivata a pervadere ogni aspetto del capitalismo monopolistico, dall’irrazionalità del sistema economico alla sua evidente distruttività della vita sociale. In tal modo, essi evidenziarono «il conflitto sempre più acuto tra la razionalizzazione in rapido progresso degli effettivi processi di produzione e l’elementarità [e l’irrazionalità] immutata del sistema nel suo complesso».[13]
«Il punto cruciale» dell’«intuizione marxiana», scriveva Baran in una lettera a Sweezy, era che la forza trainante della rivoluzione di classe era sempre «l’identità degli interessi e dei bisogni materiali di una classe con… la critica della RAGIONE all’irrazionalità esistente».[14]
L’irrazionalismo nella cultura borghese aveva quindi come oggetto principale la separazione di qualsiasi classe potenzialmente rivoluzionaria dal regno della critica razionale, sostituendovi l’istinto, il mito e il continuo vomito della ragione, come nell’Uomo del sottosuolo di Fëdor Dostoevskij (in Memorie del sottosuolo). Tutto ciò era legato materialmente e ideologicamente all’imperialismo, alla barbarie e al fascismo.[15]
Nella concezione di Baran, le analisi che perseguivano una ragione avulsa da un legame con la realtà materiale e con la classe assumevano una forma puramente “ideativa”. Ne consegue che la difesa della ragione – non in senso puramente ideativo, ma legata alle reali forze materiali sottostanti – è una parte indispensabile della lotta socialista, più importante che mai nell’epoca irrazionale del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo.
Pertanto, smascherare la dialettica fra irrazionalismo e imperialismo in atto nel nostro tempo – un’epoca in cui lo sviluppo delle forze produttive non serve più a camuffare la distruttività del sistema capitalistico globale che minaccia l’intera umanità – deve essere un obiettivo primario della sinistra.
L’irrazionalità nella storia
L’irrazionalismo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo fu una corrente ben nota della filosofia europea, che traeva ispirazione da un’enfasi riservata alla volontà di vita/volontà di potenza, agli istinti, all’intuizione, ai miti e ai principi vitali, oltre che da un profondo pessimismo sociale, in opposizione alla precedente attenzione riservata da parte dell’Illuminismo al materialismo, alla ragione, alla scienza e al progresso.
Si trattava di un movimento profondamente reazionario, violentemente antiumanistico, antidemocratico, antiscientifico, antisocialista e antidialettico, oltre che spesso razzista e misogino. Tra le figure di spicco della svolta irrazionalista nel periodo 1848-1932 figurano Schopenhauer, Eduard von Hartmann, Nietzsche, Sorel, Spengler, Bergson, Heidegger e Schmitt.[16]
Questo irrazionalismo filosofico era la generalizzazione intellettuale di influenze storiche più ampie che si verificavano all’interno della società dominante. Per questo motivo, spesso mancavano legami causali diretti con i movimenti reazionari. Tuttavia, è innegabile l’ampia connessione tra queste tendenze ideologiche e l’emergere del fascismo, e in particolare del nazismo, in Europa. Sorel professava la sua ammirazione per Benito Mussolini.[17]
Heidegger e Schmitt erano ideologi e funzionari nazisti. Nessun altro più di Hitler catturò lo spirito dell’irrazionalismo, presente all’epoca, dichiarando: «Siamo alla fine dell’Età della Ragione…. Sta sorgendo una nuova era di spiegazione magica del mondo, una spiegazione basata sulla volontà piuttosto che sulla conoscenza. Non c’è verità, né in senso morale né in senso scientifico».[18]
Avvicinandosi al problema dell’irrazionalismo da una prospettiva marxiana, Lukács ne La distruzione della ragione ne rintraccia le radici storiche nella sconfitta delle rivoluzioni borghesi del 1848, seguita dall’emergere della fase imperialista del capitalismo a partire dall’ultimo quarto del XIX secolo, che ha portato alla Prima e alla Seconda Guerra mondiale.
«La ragione stessa», sosteneva, «non può mai essere qualcosa di politicamente neutro, sospeso al di sopra degli sviluppi sociali. Essa rispecchia sempre la razionalità concreta – o l’irrazionalità – di una situazione sociale e di una tendenza in evoluzione, la riassume concettualmente e quindi la promuove o la inibisce».[19] È la critica immanente, basata sull’esame delle mutevoli condizioni storiche, a costituire l’essenza del metodo dialettico marxiano nell’analisi dello sviluppo del pensiero.
Per Lukács, Schopenhauer è stato il creatore della «versione puramente borghese dell’irrazionalismo».[20] Il suo magnum opus, Il mondo come volontà e rappresentazione, pubblicato nel 1819, era diretto contro la filosofia hegeliana. Schopenhauer cercò di opporre il suo idealismo soggettivo della volontà all’idealismo oggettivo della ragione di G.W.F. Hegel.
A tal fine, negli anni Venti del XIX secolo, si spinse persino a programmare le sue lezioni a Berlino in opposizione a quelle di Hegel, ma senza successo, poiché non riuscì ad attirare il pubblico. Fu solo con la sconfitta delle rivoluzioni del 1848 in Germania che il clima generale si spostò nella sua direzione. A quel punto, la borghesia tedesca passò da Hegel e Ludwig Feuerbach a Schopenhauer, che nell’ultimo decennio della sua vita ottenne un ampio consenso.[21]
Il genio di Schopenhauer, secondo Lukács, fu quello di essere il pioniere del metodo dell’«apologetica indiretta», poi perfezionato da Nietzsche. La precedente apologetica dell’ordine borghese aveva cercato di difenderlo direttamente, nonostante le sue molteplici contraddizioni. Nel nuovo metodo di apologetica indiretta di Schopenhauer, il lato negativo del capitalismo (e persino le sue contraddizioni) poteva essere portato allo scoperto.
Questo non veniva mai attribuito al sistema capitalistico, ma all’egoismo, agli istinti e alla volontà, percependo l’esistenza umana in termini profondamente pessimistici, come un processo viziato di autodissoluzione.[22] Il concetto di volontà, o volontà di vita, che Schopenhauer attribuisce a tutta l’esistenza, assume così la forma di un egoismo cosmico. Riducendo tutto alla fine alla pura volontà, la filosofia di Schopenhauer, scrive Lukács, «antropomorfizza l’intera natura».
La volontà, per Schopenhauer, abbracciava le cose in sé (noumena) di Immanuel Kant, al di là della percezione umana. «Devo riconoscere», dichiarò Schopenhauer, «le forze imperscrutabili che si manifestano in tutti i corpi naturali come identiche a quella che in me è la volontà, e come se ne differenziassero solo in misura».[23]
La nozione di volontà di Schopenhauer è forse meglio rivelata dalla sua risposta alla famosa affermazione di Baruch Spinoza, secondo cui una pietra che cade, se fosse cosciente, penserebbe di avere il libero arbitrio e che il suo slancio è il prodotto della sua stessa volontà – un’argomentazione volta a confutare la nozione di libero arbitrio.
Schopenhauer invertì il significato di Spinoza e dichiarò: «La pietra avrebbe ragione. La spinta è per essa ciò che per me è il motivo, e ciò che per essa appare come coesione, gravità, perseveranza nello stato assunto è, nella sua essenza intima, la stessa cosa che io conosco in me come volontà».[24] Per Schopenhauer, il «materialismo grossolano» negava semplicemente l’immanenza di quelle «forze vitali» che erano identiche alla volontà di vita, al di là della quale non c’era «nulla».[25]
La fine del XIX secolo fu un periodo in parte caratterizzato dall’affermarsi in filosofia del neokantismo, a incominciare da Storia del materialismo e critica della sua importanza attuale (1866) di Friedrich Lange, che cercò di rovesciare tutte le tendenze materialiste, in particolare il materialismo storico di Karl Marx.[26] Ma ancora più influente, e orientato alla nuova era imperialista, fu l’irrazionalismo come tendenza filosofica generale.
Il principale seguace di Schopenhauer (oltre a Nietzsche, sul quale esercitò una notevole influenza), e figura dominante dell’irrazionalismo filosofico alla fine del XIX secolo, fu Hartmann, con il suo massiccio tomo La filosofia dell’inconscio (1869). Pensatore più eclettico rispetto a Schopenhauer, Hartmann dichiarava di riunire l’ottimismo di Hegel con il pessimismo di Schopenhauer. Ma furono il profondo pessimismo e l’irrazionalismo dell’opera di Hartmann a colpire maggiormente i lettori dell’epoca, soprattutto per la sua nozione di suicidio cosmico.
Secondo il punto di vista di Hartmann, questo era il migliore dei mondi possibili, ma la non esistenza era superiore all’esistenza. Pertanto, egli riteneva che a un certo punto la volontà, o «Spirito Inconscio», si sarebbe talmente avviluppata nella specie umana «al culmine del suo sviluppo», da condurre a un suicidio cosmico, portando a una «fine temporale» dell’intero processo mondiale, con il conseguente «ultimo giorno».
A quel punto, «la negazione umana della volontà» «annienterebbe l’intera volontà effettiva del mondo senza residui e farebbe scomparire l’intero kosmos in un colpo solo per ritiro della volontà, che sola gli dà esistenza». La fine dell’umanità non avrebbe assunto la forma di una tradizionale “apocalisse”, proveniente dall’esterno, ma sarebbe scaturita dal suicidio della volontà, estendendosi all’universo nel suo complesso.[27]
Nietzsche morì nel 1900. La data è significativa, poiché secondo Lukács Nietzsche è il «fondatore dell’irrazionalismo nel periodo imperialista», allora solo all’inizio. La fase imperialista o monopolistica del capitalismo nella teoria marxista inizia nell’ultimo quarto del XIX secolo, ma, per quanto riguarda la vita e l’opera di Nietzsche, erano già visibili «i primi germogli e le prime gemme di ciò che sarebbe accaduto».
Il genio di Nietzsche è stato quello di cogliere istintivamente il senso di ciò che stava per accadere e di sviluppare il metodo dell’irrazionalismo per la nuova età dell’impero come «forma mitizzante» di analisi, resa più oscura dal frequente uso di aforismi. Tutto in Nietzsche è presentato in modo nebuloso, cosicché, se da un lato l’intero orientamento politico-sociale della sua filosofia non è messo in dubbio, dall’altro dà luogo a infinite discussioni che nascono dal suo carattere mitico, che attrae imitatori, stabilendo la forma dominante in cui l’irrazionalismo filosofico viene perseguito fino ad oggi.
Riassumendo il carattere principale della filosofia di Nietzsche, Lukács scrive:
«Quanto più un concetto è fittizio e quanto più le sue origini sono puramente soggettive, tanto più è elevato e “vero” nella scala mitica dei valori. L’Essere, finché il suo concetto contiene anche solo le minime vestigia di un rapporto con una realtà indipendente dalla nostra coscienza, deve essere soppiantato dal Divenire (uguale idea).
L’essere, tuttavia, se liberato da queste catene e visto come pura finzione, come prodotto della volontà di potenza, può essere, per Nietzsche, una categoria ancora più alta del Divenire: un’espressione della pseudo-oggettività intuitiva del mito. Per Nietzsche, la funzione speciale di una tale definizione del Divenire e dell’Essere consiste nel sostenere la pseudo-storicità vitale per la sua apologetica indiretta e nel respingerla contemporaneamente, confermando filosoficamente che il Divenire storico non può produrre nulla di nuovo e di superiore al capitalismo».[29]
Tuttavia, nonostante la genialità – e persino l’attrattiva – della filosofia di Nietzsche, non si può negare il suo sistematico carattere reazionario e irrazionalista. Alla fine del suo Il mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer aveva dichiarato che la volontà di vita era tutto, oltre la quale non c’era nulla. Nietzsche, in un aforisma su Schopenhauer, ha notoriamente affermato: «Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E anche voi stessi siete questa volontà di potenza – e nient’altro!».[30]
In Al di là del bene e del male (1886), Nietzsche, in opposizione al marxismo, scrive:
«La vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie, un incorporare o per lo meno, nel più temperato dei casi, uno sfruttare… ove sia un corpo vivo e non moribondo… dovrà essere la volontà di potenza in carne e ossa, sarà volontà di crescere, di estendersi, di attirare a sé, di acquistare preponderanza – non trovando in una qualche moralità o immoralità il suo punto di partenza, ma per il fatto stesso che esso vive, e perché la vita è precisamente volontà di potenza.
In nessun punto, tuttavia, la coscienza comune degli Europei è più riluttante all’ammaestramento di quanto lo sia a questo proposito; oggi si vaneggia in ogni dove, perfino sotto scientifici travestimenti, di condizioni di là da venire della società, da cui dovrà scomparire il suo «carattere di sfruttamento» – ciò suona alle mie orecchie come se si promettesse di inventare una vita che si astenesse da ogni funzione organica.
Lo «sfruttamento» non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto fondamentale funzione organica; è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita».[31]
Qui Nietzsche confonde l’appropriazione – che nella teoria politica classica e nell’opera di pensatori diversi come John Locke, Hegel e Marx significava il processo di acquisizione della proprietà (e che, per Marx, implicava in ultima analisi la produzione) – con lo sfruttamento vero e proprio.
Inoltre, nell’uso di Nietzsche, lo sfruttamento non era diverso dall’espropriazione (cioè l’appropriazione senza equivalenti o reciprocità). In questo modo, con un gioco di prestigio, l’appropriazione, che è la base della vita, viene equiparata allo sfruttamento/espropriazione, che non è essenziale per l’esistenza, escludendo così qualsiasi nozione di un futuro egualitario o umano.
Inoltre, Nietzsche fonda la sua visione su un determinismo biologico che, ci dice, costituisce l’«essenza» della «volontà di potenza». In questo modo, il suo essenzialismo rispetto alla natura umana si differenzia da quello di Thomas Hobbes solo nella misura in cui quest’ultimo, nel contesto storico del XVII secolo, era un pensatore progressista piuttosto che regressivo.[32]
Negli scritti di Nietzsche si trovano infiniti attacchi al socialismo e persino alla democrazia. «Il socialismo», scrisse, «quale finale tirannia dei più piccoli e dei più stupidi».[33] Con un’interpretazione del darwinismo, di cui si appropriò sotto forma di un semplice cliché sulla falsariga del darwinismo sociale, sostenne che la società europea non era caratterizzata dalla sopravvivenza del più adatto, ma dalla sopravvivenza del non adatto. In quest’ottica, le masse mediocri o «animali da gregge» stavano sottraendo alla società, con la forza del numero, gli elementi più «nobili», cosicché erano gli spiriti nobili a dover essere protetti con la forza.[34]
«Periremo», scriveva, «a causa dell’assenza di schiavitù». Detestando la società borghese, ma ancor più la democrazia e il socialismo, Nietzsche dichiarava: «Tali fantasmi, come la dignità dell’uomo e la dignità del lavoro, sono i miseri prodotti di una schiavitù che vuole nascondersi a sé stessa».[35]
La società moderna, per Nietzsche, interferiva con la naturale gerarchia delle razze, costituendo «un’epoca» che «mescola indiscriminatamente le razze».[36] Ciò richiedeva la riaffermazione della «razza padrona», che egli raffigurava in termini «ariani», come rappresentata dalla «bionda bestia germanica» che si trova «al centro di ogni razza nobile». Al contrario, «i discendenti di tutte le schiavitù europee ed extraeuropee, in particolare di tutte le popolazioni pre-ariane, rappresentano il declino dell’umanità».[37]
Rallegrandosi della sconfitta della Comune di Parigi, Nietzsche la definì «la forma più primitiva di società», poiché rappresentava gli interessi del branco. Si preoccupò del tragico destino che attendeva «la razza dei conquistatori e dei signori, quella degli ariani» nell’era democratica e socialista.
Questa «umanità ariana» conquistatrice aveva caratteri originariamente biondi e «completamente pura e primordiale», in contrapposizione ai precedenti «abitanti nativi dalla pelle scura e dai capelli scuri» dell’Europa e di altre parti del mondo.[38]
Nella Volontà di potenza, dichiarò apertamente: «La maggioranza degli uomini non ha diritto all’esistenza, ma costituisce una disgrazia per gli uomini superiori. Ancora, non concedo agli inadatti questo diritto. Ci sono persino popoli inadatti», privi del diritto di esistere.[39]
Nella nozione di «eterno ritorno» di Nietzsche, gli spiriti «nobili» e la razza padrona avrebbero sperimentato nuovamente il trionfo della volontà nelle oscillazioni cicliche della storia. Tuttavia, l’eterno ritorno significava una mancanza di progresso generale, cosicché il risultato cumulativo era «il nulla (il ‘non senso’) per sempre!».
Sebbene Nietzsche desiderasse superare il nichilismo attraverso il Superuomo come personificazione della volontà di potenza, era al nichilismo che tutto tornava sempre eternamente, poiché il vero progresso era precluso.[40]
Il vitalismo, o Lebensphilosophie, è stato, nella concezione di Lukács, il pensiero filosofico dominante dell’intero periodo imperialista in Germania. In quel periodo il vitalismo fu principalmente rappresentato in Francia dall’opera di Bergson. La filosofia di Bergson si basava su due forme di coscienza: l’intelletto e l’intuizione. L’intelletto, legato al mondo meccanico delle scienze naturali, l’intuizione alla metafisica e quindi al regno della filosofia.
Egli riteneva che, guardando all’interno dell’ambito dell’intuizione, fosse possibile risolvere problemi come il carattere del tempo e dell’evoluzione, in modi che completavano, ma andavano oltre, la scienza e la ragione. Così, egli metteva in discussione, per dirla con Lukács, «il carattere scientifico della normale conoscenza scientifica», creando un «aspro confronto tra la razionalità e l’intuizione irrazionalistica».[41]
I due concetti più importanti di Bergson sono quelli di tempo, come durata soggettiva e di élan vital, o impulso vitale. Sulla base di questi concetti, propose una sorta di terza via filosofica, al di fuori del materialismo meccanicistico e dell’idealismo/teleologia. Il «tempo», affermava, «è invenzione o non è nulla». Nel momento in cui ci confrontiamo con la «durata, vediamo che significa creazione». La nostra stessa vita ci fornisce gli indizi per svelare il segreto del tempo, o la capacità di durare, poiché la durata non è un attributo «della materia stessa, ma della vita che risale il corso della materia».[42]
L’élan vital è l’impulso creativo della vita, che illumina la materia e spiega l’evoluzione. Su queste basi, essenzialmente mistiche, Bergson ha continuato a sfidare la teoria dell’evoluzione di Charles Darwin come selezione naturale, e la concezione dello spazio-tempo di Albert Einstein, per non aver colto le basi soggettive, intuitive e creative dell’esistenza.
Bergson è nato nel 1859, l’anno della pubblicazione de L’origine delle specie di Darwin, ma non ha mai accettato la teoria della selezione naturale di Darwin, sostenendo che la scienza naturale fosse inadeguata in questo campo e che alla base di tutta l’evoluzione doveva esserci un impulso vitale e creativo, un cosmico élan vital.
Per mezzo di argomenti che oggi sono utilizzati dai sostenitori dell’Intelligent Design – ad esempio che l’evoluzione dell’occhio non poteva essere spiegata dalla selezione naturale – egli attribuì l'”evoluzione creatrice” a un potere vitale indipendente dalla materia e dall’organizzazione.[43]
Gli attacchi di Bergson alla teoria darwiniana della selezione naturale e alla ragione in generale, fecero sì che E. Ray Lankester, protetto di Darwin e Thomas Huxley, amico intimo di Marx e principale biologo britannico dell’epoca, si ribellasse alla presentazione di Bergson dell’«intuizione come vera guida e dell’intelletto come guida erronea».
Lankester, materialista rigoroso, nel valutare il contributo di Bergson scrisse: «Per lo studioso delle aberrazioni e delle mostruosità della mente dell’uomo, le opere di M[onsieur] Bergson saranno sempre documenti di valore», simili all’interesse che «un collezionista può nutrire per una curiosa specie di coleottero».[44] (In seguito, i biologi socialisti superarono il dibattito tra meccanicisti e vitalisti attraverso la dialettica materialista, che costituì un importante contributo alla scienza).[45]
Bergson era irritato dalla teoria della relatività di Einstein, che interpretava il tempo (o lo spaziotempo) in termini fisici e che stava progressivamente ricevendo un generale riconoscimento. Nell’aprile del 1922, in un famoso faccia a faccia, Bergson sostenne, in opposizione a Einstein, che una nozione fisica del tempo professata dall’intelletto era insufficiente e che il tempo poteva essere pienamente compreso solo se affrontato soggettivamente e intuitivamente in termini di durata.
Einstein rispose che «il tempo dei filosofi [confondendo tempo psichico e tempo fisico] non esiste, resta solo un tempo psicologico, che differisce da quello dei fisici». Per Einstein, né l’élan vital di Bergson né la sua durata avevano alcun significato in termini di scienza fisica.[46]
Secondo Lukács, non esiste una filosofia “innocente”. Questo è chiaramente il caso di Heidegger, nonostante il suo aspetto esoterico.[47] Nel capolavoro di Heidegger del 1927, Essere e tempo, la considerazione degli esseri individuali è minimizzata nella ricerca dell'”ontologia fondamentale” dell’Essere metafisico. Egli propone che l’Essere può essere interpellato sulla base di un’analitica esistenziale incentrata sul Dasein, o esistenza umana, che, come spiegherà in seguito, può essere concepita come dimorante e svolgente il ruolo di “pastore dell’Essere”.
Quindi, sebbene l’Essere, per Heidegger, non possa essere appreso direttamente, può, in parte, essere rivelato fenomenologicamente ed esistenzialmente attraverso l’esame del Dasein, nel contesto del suo “divenire-con” il mondo.[48] Tutte le filosofie precedenti, da Platone all’epoca moderna, erano considerate da Heidegger superficiali e strettamente metafisiche, in quanto non si concentravano sul problema ontologico fondamentale dell’Essere.[49] Una conseguenza della filosofia di Heidegger è stata quella di decentrare l’Io cosciente (trascendentale) e di spostare la filosofia dalle questioni di relazione soggetto-oggetto all’autenticità e all’inautenticità.[50]
Dato che la ricerca dell’Essere in quanto tale è l’asse portante dell’analitica esistenziale di Heidegger, si potrebbe pensare che non abbia molta relazione con la politica e l’etica. Tuttavia, pur non essendo presenti in superficie, gli elementi reazionari, irrazionali e vitalistici della filosofia di Heidegger trapelano in vari modi, mostrando la vera natura della sua logica irrazionalista.
Ciò si è verificato non solo nel periodo ufficiale del nazismo ma anche nei lavori successivi al dopoguerra, ed erano probabilmente impliciti fin dall’inizio, nella sua intera posizione filosofica. Nelle lezioni pubblicate su Essere e verità, presentate all’Università di Friburgo nell’inverno 1933-1934, poco dopo l’adesione al partito nazista e solo pochi anni dopo la pubblicazione di Essere e tempo, così Heidegger ha dichiarato:
Un nemico è ogni persona che rappresenta una minaccia essenziale per il Dasein [esistenza] del popolo e dei suoi singoli membri. Il nemico non deve essere necessariamente esterno, e il nemico esterno non è nemmeno sempre il più pericoloso. E può sembrare che non ci sia alcun nemico. Allora è una necessità fondamentale trovare il nemico, portare alla luce il nemico, o addirittura creare prima il nemico, in modo che possa darsi questa posizione contro il nemico e che il Dasein non perda la sua estremità….
[La sfida è] portare il nemico allo scoperto, non nutrire illusioni sul nemico, tenersi pronti all’attacco, coltivare e intensificare una costante prontezza e preparare l’attacco guardando avanti con l’obiettivo dell’annientamento totale.[51]
I ruoli di Heidegger come funzionario del partito nazista, ideologo e preminente sostenitore accademico di Hitler durante i suoi anni come rettore all’Università di Friburgo, sono ormai ben noti. Egli ha contribuito a istituire la Gleichschaltung, o l’allineamento all’interno dell’accademia tedesca, svolgendo un ruolo di primo piano nell’eliminazione dall’università di colleghi e studenti che non si conformavano ai dettami del regime nazista. Ha anche lavorato a stretto contatto con Schmitt, il teorico del diritto e principale autore del famigerato principio del Führer, promuovendo l’ideologia nazista e presiedendo ai simbolici roghi di libri.[52]
La sua Introduzione alla metafisica del 1935 non solo ha fornito un tributo al nazismo, ma anche un argomentazione per il trionfo del «Volk [popolo] storico … e quindi della storia dell’Occidente», attivando «nuove energie spirituali».
In una conversazione con Karl Löwith a Heidelberg nel 1936, Heidegger accettò «senza riserve» la suggestione che la sua «partigianeria per il nazionalsocialismo risiedesse nell’essenza della sua filosofia».[53]
Heidegger ha spesso lodato Mussolini e Hitler, presentando Nietzsche come un precursore di entrambi i leader fascisti. Nel libro di Heidegger su Friedrich Schelling, una lunga frase della conferenza originale è stata omessa nell’edizione del 1971, ma è stata successivamente reinserita su richiesta dello stesso Heidegger. Diceva: «Come è noto, i due uomini che in Europa hanno inaugurato, nella formazione politico-nazionale dei rispettivi popoli, i movimenti di opposizione [Gegenbewegungen] al nichilismo, ossia Mussolini e Hitler, sono stati a loro volta, ciascuno a suo modo, essenzialmente influenzati da Nietzsche; e questo senza che l’autentico dominio metafisico di Nietzsche fosse stato raggiunto».
Nietzsche, spiegò Heidegger nelle sue lezioni, aveva dimostrato che la «democrazia» portava a una «forma degenerata di nichilismo» e quindi richiedeva un movimento Volk più autentico. In un corso di logica nel 1934, Heidegger dichiarò che «i negri sono uomini ma non hanno storia… La natura non ha storia… Quando l’elica di un aeroplano gira, in realtà non ‘accade’ nulla. Al contrario, quando lo stesso aereo porta Hitler da Mussolini, allora accade la storia».[54] La «cultura fittizia» della civiltà occidentale, ha spiegato, sarà sostituita solo dal «mondo spirituale» del Volk basato sulla «più profonda conservazione delle forze del suolo e del sangue».[55]
Nei suoi famigerati Black Notebooks (un diario filosofico che Heidegger chiese di inserire alla fine delle sue Opere complete), diede ripetute prove del suo profondo antisemitismo. Così, ha attribuito i difetti della modernità e del razionalismo occidentale al “giudaismo mondiale”, un termine usato nel Mein Kampf di Hitler in riferimento a una cospirazione ebraica per il dominio del mondo.
«Il giudaismo mondiale», scrisse Heidegger nei Black Notebooks, «è ovunque inafferrabile [a causa del suo predominio del pensiero razionalista] e non ha bisogno di essere coinvolto in azioni militari pur continuando a dispiegare la sua influenza, mentre a noi [la Germania nazista nella Seconda Guerra Mondiale], non resta che sacrificare il miglior sangue, dei migliori del nostro popolo».[56]
Dopo la pubblicazione dei Black Notebooks, come ha osservato lo studioso di Heidegger, Tom Rockmore, «sembra sempre più chiaro che la filosofia di Heidegger, il suo passaggio al nazionalsocialismo e il suo antisemitismo, non siano né separati né separabili, ma piuttosto indissolubilmente legati».[57]
È chiaro che Heidegger non si è mai allontanato, o non ha mai avuto intenzione di farlo, dalle sue estreme posizioni reazionarie, che sono state alla base di tutto il suo impegno filosofico. Nella sua famosa Lettera sull’umanesimo, pubblicata nel 1947, sferrò un attacco sistematico all’umanesimo, denigrando pensatori illuministi tedeschi come Johann Wolfgang Goethe e Friedrich Schiller.
A differenza dell’odierno postumanesimo, tuttavia, Heidegger si preoccupava principalmente di negare la nozione di essere umano, come essere materiale o corporeo, dotato di una “logica animale“. Per Heidegger, la verità risiedeva nell’analitica esistenziale del Dasein, concependo la vera esistenza umana come avvicinamento all’Essere. Con il suo solito linguaggio velato, Heidegger annunciava un “destino” ancora da venire, basato su una storicità “più primordiale” – più vicina al Dasein – “dell’umanesimo”.
L’umanesimo, che egli identificava con il razionalismo, andava sempre contrastato, «perché non pone l’humanitas abbastanza in alto», promuovendo l’ontica empirista di meri esseri individuali e materiali, in contrapposizione all’ontologia fondamentale dell’Essere, in cui il l’io cosciente è decentrato.[58]
Heidegger ha lasciato intendere che, a causa del linguaggio, che egli considerava al centro del Dasein, c’era una stretta relazione tra la cultura greca antica e quella tedesca (lungo quella che era generalmente concepita come la linea ariana) che rendeva la Germania unica nel promuovere l’autentica storicità dell’Occidente.[59]
Nella sua Lettera sull’umanesimo, Heidegger riconosce la potenza della critica di Marx dell’alienazione, prima di continuare a criticare ingenuamente il materialismo e ridurre la teoria dell’alienazione di Marx alla questione della tecnologia. Come ha affermato Lukács, non c’erano dubbi su ciò che Heidegger stesse dicendo in questo caso, vale a dire che vedeva «il marxismo come il principale antagonista».[60]
Il ritorno dell’irrazionalismo
Lukács ha identificato la crescita dell’irrazionalismo con la fase imperialista del capitalismo. Sulla scia di Lenin e Rosa Luxemburg, [l’imperialismo] è stato concepito in primo luogo economicamente, come un sistema di capitalismo monopolistico, caratterizzato in termini di rivalità interimperialista e di guerra nella lotta per le colonie e le sfere di influenza. Ma fu soprattutto Lenin, secondo Lukács, a tradurre la concezione economica dell’imperialismo nella «teoria della concreta situazione mondiale creata dall’imperialismo», concentrandosi sulla politica di classe e sugli schieramenti tra le nazioni.[61]
Inoltre, Lenin riconobbe che gli accordi di pace nella fase imperialista erano «inevitabilmente, nient’altro che una ‘tregua’ nei periodi tra le guerre», all’interno di una più ampia lotta geopolitica inerente al capitalismo monopolistico.[62] Gli aspetti politici dell’imperialismo hanno così permeato la cultura di intere nazioni, generando quelle che Raymond Williams, in un altro contesto, avrebbe chiamato «strutture del sentimento».[63] Fu questo che portò all’interfaccia tra imperialismo e irrazionalismo nella storia dell’Europa dal 1870 al 1945.
Il tardo imperialismo, iniziato nel 1945, può essere quindi diviso in tre periodi:
(1) L’immediata Guerra Fredda dal 1945 al 1991, in cui gli Stati Uniti come potenza egemonica dell’economia mondiale capitalista cercarono di ottenere il dominio sul Sud del mondo impegnato in rivolte anticoloniali, conducendo allo stesso tempo una lotta globale contro l’Unione Sovietica e la Cina.
(2) Il periodo dal 1991 al 2008, in cui Washington ha tentato di consolidare un permanente mondo unipolare, nel vuoto lasciato dall’uscita dell’Unione Sovietica dalla scena mondiale e dall’apertura della Cina all’economia mondiale.
(3) Dal 2008 (la Grande Crisi Finanziaria) ad oggi, caratterizzato dal riemergere di Cina e Russia come grandi potenze, e dalla designazione ufficiale da parte di Washington, di questi due paesi come suoi principali nemici, portando a una Nuova Guerra Fredda, segnata dal conflitto tra il mondo unipolare incentrato sugli Stati Uniti e un emergente ordine mondiale multipolare.
Durante tutto questo tempo “la sinistra” occidentale ha occupato, nei propri Paesi, una debole posizione all’interno del capitalismo monopolistico, mentre all’estero ha avuto un ambiguo approccio all’imperialismo, con la relativa sommersione della lotta di classe. Inoltre, ha anche subito una grave sconfitta nel 1968.
Con l’avvento della Nuova Guerra Fredda, la guerra ibrida dell’imperialismo collettivo della triade contro il Sud del mondo, comprese le principali economie emergenti, è venuta pienamente alla luce. In queste circostanze, l’irrazionalismo borghese è arrivato a definire il clima intellettuale dominante del tardo imperialismo, riflettendo la continua distruzione della ragione.
Oggi è ampiamente riconosciuto che il pensiero reazionario tedesco, associato alla “connessione Nietzsche-Heidegger-Carl Schmitt“, insieme alla rinascita del bergsonismo, è presente nelle opere dei post-marxisti, dei postmodernisti e dei postumanisti, da Derrida, a Deleuze a Latour.[64]
Nelle parole di Keti Chukhrov, un «fascino per la negatività e il nichilismo», caratteristico delle filosofie irrazionaliste della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento, si ritrova nell’opera di «Deleuze e Guattari o nelle distopie accelerazioniste e nelle teorie post-umaniste del presente».[65]
In Nietzsche e la filosofia di Deleuze, ci viene detto che il carattere «decisamente antidialettico» del pensiero di Nietzsche, i suoi concetti di “volontà di potenza”, di “eterno ritorno” e il sogno del Superuomo, rappresentano un trionfo sulla dialettica di Hegel, che porta alla «creativa identità di potenza e volontà» come consumazione della volontà di potenza.[66]
Esiste un “legame segreto” che collega vari pensatori contrari alla filosofia dello Stato. Questo legame segreto, ci dice Deleuze, include Spinoza (reinterpretato come vitalista), Nietzsche e Bergson, considerati tutti come filosofi dell’immanenza, rappresentanti di una tradizione “nomade” contraria non solo al razionalismo europeo in generale, ma in diretta opposizione a Hegel e Marx.[67]
La posizione di Bergson nel suo dibattito con Einstein è sostenuta da Deleuze nel suo Bergsonism del 1966, nel tentativo di privilegiare ancora una volta la nozione soggettiva e intuitiva di tempo, separato dalla fisica e anche dal tempo storico.[68]
I capovolgimenti irrazionalisti e reazionari a cui stiamo assistendo, all’interno di quella che rimane prettamente un’analisi di sinistra, sono molti. Come osserva Chukhrov:
In Capitalismo e Schizofrenia, Deleuze e Guattari trovano che il capitale sia mostruoso, ma allo stesso tempo un terreno desiderabile da cui potrebbe scaturire la sovversione e il suo potenziale di emancipazione. [Tuttavia,] l’accettazione della viziosa contemporaneità capitalista è inevitabile, data la condizione dell’impossibilità della sua sublimazione… Un aspetto molto importante di tale aberrazione risiede in quanto segue: il sottofondo capitalista di queste teorie emancipatrici e critiche, non funziona come un programma di uscita dal capitalismo, ma piuttosto come la radicalizzazione dell’impossibilità di questa uscita.[69]
Questo godimento per l’impossibilità di uscire può essere vista nel confronto principale di Deleuze e Guattari con Marx. All’inizio del loro autorevole lavoro del 1972, L’Anti-Edipo: Capitalismo e Schizofrenia, postulano una relazione «industria-natura» che si traduce in «sfere relativamente autonome che si chiamano produzione, distribuzione e consumo». Queste sfere separate, sostengono Deleuze e Guattari, furono evidenziate da Marx solo come un prodotto della divisione capitalista del lavoro, e della falsa coscienza che essa produceva. Ma da lì, sono saltati alla proposizione trans-storica:
Non facciamo alcuna distinzione tra uomo e natura: l’essenza umana della natura e l’essenza naturale dell’uomo [frase di Marx] diventano una cosa sola all’interno della natura sotto forma di produzione o industria, proprio come fanno all’interno della vita dell’uomo come specie… L’industria allora non è più considerata dal punto di vista estrinseco dell’utilità, ma piuttosto dal punto di vista della sua fondamentale identità con la natura come produzione dell’uomo e da parte dell’uomo… L’uomo e la natura non sono due termini opposti che si confrontano… sono una stessa realtà essenziale, il prodotto del produttore.[70]
Su questa base, la natura e l’umanità sono viste come un’ineluttabile unità ideale – ciò che Marx, che viene qui citato, chiamava «l’essenza umana della natura e l’essenza naturale dell’uomo». Questo, è l’inevitabile esito dell’industria vista come un astratto e transistorico fenomeno, che, invece di essere concepito come alienato sotto il capitalismo, come in Marx, è lo strumento diretto e immediato dell’unificazione di natura e umanità.
Il complessivo concetto di alienazione, o di autoestraniazione dell’umanità, come realtà materiale centrale del capitalismo (che Marx aveva presentato come un tragico “difetto” da superare), viene così rimosso all’inizio.[71] Natura e umanità, per Deleuze e Guattari, sono “una realtà essenziale”, generata, in astratto, dall’industria.
Avendo di fatto eliminato il fenomeno storico dell’alienazione, Deleuze e Guattari passano immediatamente alla caratterizzazione della produzione come “principio immanente” delle macchine desideranti, sfociando in una schizofrenia universale. La «schizofrenia» in questo senso è definita come «l’universo delle produttive e riproduttive macchine desideranti, [che rappresentano] la produzione primaria universale come “realtà essenziale di uomo e natura”».[72]
L’alienazione di Marx, derivante da estraniate relazioni sociali, è così sostituita da un sistema universale di macchine desideranti o da un “inconscio macchinico” che produce una realtà schizofrenica più ampia di cui il capitalismo è una semplice manifestazione. Questa realtà schizofrenica-desiderante si colloca sul piano dell’immanenza, al di sopra dell’umanità stessa.[73] Ci troviamo così di fronte a un universo di energia libidica e forze vitali, guidati da macchine desideranti da cui non c’è scampo.[74] L’irrazionalismo reazionario di Nietzsche trionfa sulla prassi rivoluzionaria di Marx.
Un simile capovolgimento può essere visto in Derrida rivelatosi, ancora in relazione a Marx, nel famoso Spettri di Marx. In questo e in altri lavori, Derrida ha avanzato una prospettiva post-strutturalista heideggeriana di sinistra. L’immediata risposta pubblica a Spettri di Marx, scritto poco dopo la fine dell’Unione Sovietica, è stata quella di aver riaffermato Marx. Tuttavia, ciò è avvenuto sotto la forma di un’ indiretta apologia che sottolineava la “spettrologia di Marx”. Qui, Derrida si è concentrato sulla famosa frase di apertura del Manifesto del Partito Comunista in cui Marx ed Engels avevano scritto: «Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo».[75]
Il marxismo, sosteneva Derrida, continuava a perseguitare l’Europa, anche se solo in un senso spettrale, in cui svolgeva un ruolo indispensabile per continuare a sfidare il monolite capitalista. Tuttavia, il Marx di Derrida – o il Marx che desiderava conservare – era, nelle parole di Richard Wolin, un “Marx heideggerianizzato”, impoverito dall’idea che il nemico principale sia ora semplicemente la modernità tecno-scientifica.
Qui i «pregiudizi ontologici dell’antiumanesimo filosofico, un’eredità heideggeriana» escludono tutta la sostanza della teoria di Marx, comprese le forze sociali alla base della prassi rivoluzionaria. In effetti, «la spettrologia di Marx”, spiega Derrida, non era limitata a Marx stesso «ma lampeggia e brilla dietro i nomi propri di Marx, Freud e Heidegger». Quindi, Marx continua a perseguitare il capitalismo, ma non solo come apparizione di se stesso, ma anche come fantasma di Heidegger, il cui «pensiero epocale… elimina la storicità».[76]
Le nuove filosofie dell’immanenza hanno quindi prodotto ogni sorta di teorie apparentemente radicali ma in realtà reazionarie. Ciò è evidente nei trattamenti postumanisti della crisi ecologica, in particolare nella forma del cosiddetto “nuovo materialismo”.
Gran parte di ciò è determinato dalla discutibile riappropriazione di Spinoza come teorico vitalista da parte di Deleuze, soprattutto attraverso il concetto spinoziano di conatus, che viene interpretato come l’attribuzione di motivo, mente, persino gioia, agli oggetti stessi, ad esempio una pietra.[77]
Questo ha aperto la strada a una vasta diffusione di nuove opere vitaliste (il cosiddetto “nuovo materialismo”) da parte di figure come Bennett e Morton, spesso in nome dell’ecologia, in cui l’esito è un animismo universale. In questa prospettiva, un pezzo di carbone, un microbo, la serie di dinosauri di plastica di Adorno, una pietra, ecc., sono tutti trattati come dotati di “poteri vitali”, posti con l’umanità su un piatto piano ontologico.[78]
Come Schopenhauer (nella sua risposta a Spinoza), Bennett sostiene che una pietra che cade, se fosse cosciente, avrebbe ragione a pensare di avere volontà e di muoversi di sua spontanea volontà.[79] Il risultato è la demolizione di ogni significativa distinzione tra natura umana e non umana.
Una strategia comune a Latour, Bennett e Morton, è quella di negare la famosa critica di Marx al feticismo delle merci, capovolgendola semplicemente e presentando tutte le cose/oggetti come agenti vitali o attori. Ciò equivale a un’universalizzazione del feticismo della merce e della reificazione (the thingification of the world ) [la cosificazione del mondo N.d.T.], con la conseguente riduzione di qualsiasi nozione di soggetto umano. Costituisce l’eliminazione della concezione classica della critica.[80]
Con il suo ben noto rifiuto del “moderno”, Latour ha cercato di negare, secondo la moda heideggeriana di sinistra, ogni validità ai concetti di natura e umanità, presentandoli come un falso dualismo introdotto dalla modernità illuminista. Il rifiuto del dualismo natura-società è il cuore della sua “ecologia politica”, che sostituisce gli attori umani con assemblaggi di “attanti”.[81] Ma quando ha tardivamente percepito la necessità di considerare l’effettiva emergenza ecologica planetaria rappresentata dalla nuova epoca antropocenica della storia geologica, Latour si è trovato privo di punti di riferimento – poiché, nella sua filosofia, anche l’ecologia era stata messa in discussione – ed è tornato a concetti mistificanti come Gaia e ciò che lui chiamava Earthbound (una rielaborazione e personificazione della nozione di “terrestre”).
Ma soprattutto, data la natura della distruzione planetaria, si trovò di fronte alla domanda su come concepirla dal punto di vista dell’ordine politico. Si rivolse quindi a Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum di Carl Schmitt, scritto nella Germania nazista. L’opera di Schmitt cercava di radicare il diritto nella terra (non nel senso dell’ecologia, ma piuttosto della territorializzazione), concependola come la base dello stato di guerra permanente che fonda il diritto internazionale.[82]
La valutazione di Lukács sullo Schmitt di questo periodo è naturalmente molto più severa di quella di Latour. Il teorico del diritto nazista, sosteneva Lukács, si era rapidamente adattato al nuovo clima imperiale dopo la caduta del Terzo Reich. «Per lui – Carl Schmitt – non ha nessuna importanza se sia Hitler, Eisenhower o un imperialismo tedesco appena sorto, a instaurare la dittatura assoluta del capitalismo monopolistico».[83]
Tuttavia, basando la sua analisi su Schmitt, Latour ci dice che la risposta sta in «un nuovo stato di guerra» a favore di Earthbound. Nel 2015 conclude La sfida di Gaia elogiando lo spirito di Cristoforo Colombo.[84] Nonostante la sua critica ai “moderni”, Latour si era alleato, almeno per un certo periodo, con gli ultra-ecomodernisti capitalisti del Breakthrough Institute, invitando la gente a «Love Your [Frankenstein] Monsters».[85]
L’irrazionalismo è ora nuovamente di moda. È evidente un’ulteriore «radicalizzazione dell’impossibilità di…uscita», mentre il mondo nel tardo imperialismo affronta due forme di sterminismo: la guerra nucleare e l’emergenza ecologica planetaria.
In una conferenza e in un libro che affronta l’antisemitismo e il nazismo nei Black Notebooks di Heidegger, che rappresentano uno sforzo disperato per salvare in qualche modo il pensiero del filosofo nonostante le rivelazioni secondo cui il nazismo era parte integrante della sua intera visione, è stato il filosofo lacaniano-hegeliano Žižek ad avere l’ultima parola, senza dubbio per la sua reputazione di pensatore di sinistra. Žižek ha cercato di difendere l’importanza di Heidegger per la filosofia, nonostante il suo nazismo, sulla base del significato della sua ontologia fondamentale della “differenza ontologica”, o del rapporto degli enti con l’Essere, da cui sono derivate l’analisi del Dasein e la decostruzione dell’ego cosciente di Heidegger.
Questo, quindi, è visto come separabile dalle specificità del percorso politico di Heidegger. Anche se non si è allontanato dalle sue visioni di estrema destra, non riuscendo a ripudiare il suo passato nazista, Heidegger, ci viene detto, va ancora lodato per l’ontologia fondamentale del suo Essere e tempo e per le sue critiche alla civiltà scientifico-tecnologica, viste come distinguibili dalla sua complicità con il Terzo Reich.[86]
Nell’opera di Žižek Meno di niente: Hegel e l’ombra del materialismo dialettico, Heidegger è lodato ancora più intensamente. Non solo Heidegger è qui presentato come una figura che opera «controcorrente» all’interno di una pratica «stranamente vicina al comunismo», ma ci viene anche detto che Heidegger «della metà degli anni ‘30», quando era un membro del Partito nazista, può essere visto come «un futuro comunista», anche se non è mai arrivato a quella meta. Il nazismo di Heidegger, dichiara apologeticamente Žižek, «non fu un semplice errore, ma piuttosto un “passo giusto nella direzione sbagliata”».
Pertanto, «Heidegger non può essere semplicemente liquidato come una reazione volkisch tedesca” [Il termine tedesco völkisch, corrisponde all’italiano ‘popolo’ N.d.T.]. Nel suo periodo nazista, Heidegger, postula Žižek, stava aprendo «possibilità che vanno… verso una politica emancipatrice radicale“. Certo, questo è stato scritto prima della pubblicazione dei Black Notebooks, anche se ben dopo la pubblicazione di molti degli scritti nazisti di Heidegger. Ma come abbiamo visto, i Black Notebooks, con il loro virulento antisemitismo, non hanno modificato di molto la difesa generale della filosofia di Heidegger da parte di Žižek.[87]
La fedeltà di Žižek al progetto antiumanista di Heidegger è evidente nella sua attuale posizione postumanista in cui sostiene (mentre elogia Bennett) che la natura e l’ecologia, insieme all’umanità, non sono più categorie significative. In questa prospettiva, anche la difesa indigena della terra viene sminuita.
In un articolo, focalizzato sulla discussione sul concetto marxiano di frattura metabolica, Žižek ha risposto all’appello del presidente socialista e indigeno boliviano Evo Morales, per la difesa della Madre Terra, con la battuta: «A questo si è tentati di aggiungere, che se c’è una cosa buona del capitalismo è che sotto di esso, la Madre Terra non esiste più».
Cosa si intendesse con ciò, come in gran parte degli scritti di Žižek, non era immediatamente chiaro, ma si adatta ad altre sue altre affermazioni che riflettono un simile disprezzo per i problemi ecologici e un’indiretta apologia del sistema, come la sua dichiarazione che «l’ecologia è un nuovo oppio per le masse».[88]
In effetti, sia la denaturalizzazione della natura che la disumanizzazione dell’umanità sono integrate nella generale visione antiumanista di Žižek, che si uniforma al principio della radicalizzazione dell’impossibilità di uscita. Così, ha dichiarato in modo nichilista che: «Il potere della cultura umana non è solo quello di costruire un universo simbolico autonomo al di là di ciò che sperimentiamo come natura, di produrre nuovi “innaturali” oggetti naturali che materializzano la conoscenza umana. Non solo “simbolizziamo la natura”; noi [anche], per così dire, la denaturalizziamo dall’interno… L’unico modo per affrontare le sfide ecologiche è accettare pienamente la radicale denaturalizzazione della natura».
Ma questo implica anche la radicale disumanizzazione dell’umanità, poiché, come egli stesso afferma: «Ci sono esseri umani solo in quanto esiste una impenetrabile natura inumana (la “terra” di Heidegger)». Il problema di tutte le discussioni sulla «inclusione dell’umanità nella natura» e delle analisi della frattura metabolica, sostiene Žižek, è che tendono a regredire in una «ontologia generale dialettico-materialista», riferendosi al naturalismo dialettico di Engels e Lenin.
In accordo con l’approccio idiosincratico, idealista e irrazionalista di Žižek al «materialismo dialettico», che pretende di «ritornare da Marx a Hegel e attuare un “rovesciamento materialista” di Marx stesso» attraverso l’idealismo puro, sia il naturalismo-materialismo che l’umanesimo critico devono essere rifiutati, in generale conformità con l’heideggerianismo di sinistra.[89]
La realtà materiale lascia così il posto al Reale astratto. Tali visioni portano a un ritiro da qualsiasi prassi significativa, a un profondo pessimismo e a una dialettica dell’irrazionalismo. Senza mai affrontare seriamente la crisi ecologica globale o la lotta di classe contro il capitalismo, necessaria per evitare di superare i punti critici planetari, Žižek dichiara spensieratamente che «dobbiamo assumere la catastrofe come nostro destino».[90]
Tale irrazionalismo, in relazione alla crisi ambientale del capitalismo, è evidente anche nella risposta di Žižek all’attuale crescente minaccia di un conflitto nucleare tra NATO e Russia nel contesto della guerra in Ucraina. In effetti, oggi assistiamo a un’ulteriore distruzione della ragione, frutto di un confuso antiumanesimo misto a fervore nazionalista. Ciò è evidente nell’insistenza di Žižek sul fatto che la NATO dovrebbe continuare a sostenere la guerra in Ucraina e abbandonare i colloqui di pace, nonostante i crescenti pericoli di uno scambio termonucleare globale che quasi certamente annienterebbe tutta l’umanità, semplicemente per “salvare la faccia”.
Altri come Noam Chomsky, che hanno sollevato la questione del rapporto con la crescente minaccia sterminista globale, vengono erroneamente liquidati da Žižek come sostenitori della Russia di Putin. Al contrario, egli chiede una NATO più forte e globale, in grado di combattere sia la Russia che la Cina. Ci viene detto che la stessa “logica” che governa l’insistenza della Russia per non far entrare l’Ucraina nella NATO e per non far collocare armi nucleari sul suolo ucraino, che presenterebbe una «crisi esistenziale per lo stato russo… impone che anche l’Ucraina abbia armi [fornite nel suo caso dall’Occidente] – e persino armi nucleari – per raggiungere la parità militare» con la Russia.[91]
Qui vediamo il “suicidio cosmico” di Hartmann come la manifestazione suprema dell’intelletto e della volontà che improvvisamente riemerge nel nostro tempo. Ancora una volta l’irrazionalismo, coltivato ai più alti livelli intellettuali, che dominava la visione dell’Occidente all’inizio della Prima Guerra Mondiale, sta soffocando ogni alternativa razionale.
Offrire un sostegno acritico agli obiettivi della triade imperiale di Stati Uniti/Canada, Europa e Giappone, o sostenere una NATO globale nel contesto tardo imperialista, significa identificarsi con l’irrazionale volontà di potenza del centro imperiale del dell’economia mondiale, che porta o all’eterno ritorno dello sfruttamento/espropriazione, oppure al suicidio cosmico di Hartmann.
Oggi, la Ragione esige il superamento dello sfruttamento e dell’espropriazione, e delle relative tendenze sterministe del nostro tempo. Ciò può essere realizzato, come ha notato Baran negli anni ’60, solo sulla base dell’«identità degli interessi materiali di una classe [o delle forze sociali basate sulla classe] con… la critica della Ragione all’irrazionalità esistente».
La fonte di una tale identità di «interessi materiali con una classe» si trova attualmente soprattutto nel Sud del mondo, e con quei movimenti rivoluzionari che ovunque cercano di rovesciare l’intero sistema capitalista-coloniale-imperialista per il bene dell’umanità e della terra.
Note
[1] György Lukács, Die Zerstörung der Vernunft (Berlin: Aufbau-Verlang, 1953), English translation, The Destruction of Reason (London: Merlin Press, 1980), traduzione italiana, La distruzione della ragione (Sesto San Giovanni: Mimesis Edizioni, 2011).
[2] George Lichtheim, “An Intellectual Disaster,” Encounter (May 1963): 74–79. Lichtheim stava apparentemente revisionando il testo di György Lukács, The Meaning of Contemporary Realism (London: Merlin Press, 1963).
[3] Rodney Livingston, Perry Anderson, and Francis Mulhern, “Presentation IV,” in Theodor Adorno, Walter Benjamin, Bertolt Brecht, and György Lukács, Aesthetics and Politics (London: Verso, 1977), 142–50; Theodor Adorno, “Reconciliation Under Duress,” in Adorno, Benjamin, Brecht, and Lukács, Aesthetics and Politics, 152–54; István Mészáros, The Power of Ideology (New York: New York University Press, 1989), 118–19. Adorno ha sostenuto che «La distruzione della ragione… ha rivelato più chiaramente la distruzione della ragione dello stesso Lukács». Ha falsamente affermato che nel libro «Nietzsche e Freud sono semplicemente etichettati come fascisti» — nonostante il fatto che Nietzsche sia affrontato da Lukács in termini di irrazionalismo filosofico, che non costituisce di per sé un fascismo, mentre Freud è appena menzionato nel libro, e non in modo negativo. Adorno, “Reconciliation Under Duress,” 152.
[4] Lichtheim, “An Intellectual Disaster,” 78–79; Lichtheim citato in Árápad Kadarkay, “Introduction: Philosophy and Politics,” in György Lukács, The Lukács Reader, ed. Árápad Kadarkay (Oxford: Blackwell, 1995), 215. Va notato che, mentre Kadarkay cita Lichtheim sia qui che nella sua biografia di Lukács, riferendosi a Destruction of Reason come a un “crimine intellettuale”, questa affermazione non si trova in realtà nella pagina del numero di Encounter, che Kadarkay cita in entrambe le occasioni e che altri citano tramite Kadarkay. Tuttavia, poiché Lichtheim si riferisce chiaramente, in un altro numero di Encounter, all’opera di Lukács in questa fase come a un “disastro intellettuale” e a una “catastrofe intellettuale”, l’affermazione “crimine intellettuale” ha un certo fondo di verità.
[5] Lichtheim, “An Intellectual Disaster,” 76. Nonostante l’impressione che lascia Lichtheim, Lukács non ha fatto alcuna allusione agli “incubi di Kafka” nel suo libro. Le virgolette intorno alla frase citata sono di Lichtheim, poiché Lukács non ha fatto alcuna affermazione del genere.
[6] Lukács, The Destruction of Reason, 770.
[7] Lukács, The Destruction of Reason, 792–93.
[8] Árápad Kadarkay, György Lukács: Life, Thought and Politics (Oxford: Blackwell, 1991), 421–23; Lichtheim, “An Intellectual Disaster,” 76.
[9] Enzo Traverso, “Dialectic of Irrationalism,” introduzione a György Lukács, The Destruction of Reason (London: Verso, 2021), 10. L’introduzione di Traverso, alla recente ristampa pubblicata da Verso Books di The Destruction of Reason, porta avanti, anziché prenderne le distanze, questi precedenti attacchi marxisti occidentali al libro, rendendo, in gran parte, la sua introduzione un’anti-introduzione, più tipica dell’epoca della prima Guerra Fredda.
[10] I. Lenin, Imperialism, the Highest Stage of Capitalism (New York: International Publishers, 1939). L’argomentazione di Lenin non viene analizzata direttamente nel libro di Lukács, ma costituisce comunque lo sfondo materiale dell’intera argomentazione, in quanto l’imperialismo, nei termini di Lenin, è un punto di riferimento costante.
[11] Sul tardo imperialismo, vedi John Bellamy Foster, “Late Imperialism,” Monthly Review 71, no. 3 (July–August 2019): 1–19; Zhun Xu, “The Ideology of Late Imperialism,” Monthly Review 72, no. 10 (March 2021): 1–20. Sull’imperialismo collettivo della triade, vedi Samir Amin, “Contemporary Imperialism,” Monthly Review 67, no. 3 (July–August 2015): 23–36.
[12] Vedi Xu, “The Ideology of Late Imperialism“; Paweł Wargan, “NATO and the Long War on the Third World,” Monthly Review 74, no. 8 (January 2023): 16–32.
[13] Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, Monopoly Capital (New York: Monthly Review Press, 1966), 338, 341.
[14] Paul A. Baran a Paul M. Sweezy, February 3, 1957, in Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, The Age of Monopoly Capital (New York: Monthly Review Press, 2017), 154.
[15] Fëdor Dostoevskij, Notes from Underground (New York: Vintage, 1993), 13; Paul A. Baran, The Longer View (New York: Monthly Review Press, 1969), 104. L’espressione “vomito della ragione” è presa dall’interpretazione di Baran del rifiuto, da parte dell’Uomo del sottosuolo, delle “leggi della natura” e “due per due fa quattro”, per cui il protagonista del romanzo di Dostoevskij, secondo Baran, “vomita la ragione”.
[16] Sull’irrazionalismo, vedi Lukács, The Destruction of Reason; Herbert Aptheker, “Imperialism and Irrationalism,” Telos 4 (1969): 168–75; Étienne Balibar, “Irrationalism and Marxism,” New Left Review I:107 (January–February 1978): 3–18; Frederick Copleston, A History of Philosophy, vol. 7, Part II, Modern Philosophy: Schopenhauer to Nietzsche (Garden City, New York: Doubleday, 1963); “Irrationalism,” [Encyclopedia] Britannica, no date, britannica.com.
[17] James H. Meisel, “A Premature Fascist? Sorel and Mussolini,” The Western Political Quarterly 3, no. 1 (March 1950): 26; H. Stuart Hughes, Consciousness and Society (New York: Vintage, 1958), 162.
[18] Hitler citato da Herman Raushning, Gespräche mit Hitler (New York: Europa Verlag, 1940), 210, tradotto in Gerald Holton, “Can Science Be at the Centre of Modern Culture?,” Public Understanding of Science 2 (1993): 302. Per una traduzione un pò diversa, vedi Herman Raushning, Voice of Destruction (New York: G. P. Putnam’s Sons, 1940), 222–23.
[19] Lukács, The Destruction of Reason, 5.
[20] Lukács, The Destruction of Reason, 192.
[21] Copleston, Schopenhauer to Nietzsche, 27; Lukács, The Destruction of Reason, 193–98.
[22] Lukács, The Destruction of Reason, 204–8.
[23] Arthur Schopenhauer, The World as Will and Idea, vol. 3 (London: Trübner, 1883), 164; Lukács, The Destruction of Reason, 225. L’attribuzione della volontà a tutta l’esistenza da parte di Schopenhauer sarebbe sembrata ai suoi lettori meno fantastica di quanto non lo sia oggi. Come notò criticamente il grande geologo Georges Curvier nel suo famoso “Discorso preliminare” alle sue Researches on Fossil Bones del 1812, alcuni scienziati del primo Ottocento, tra cui il mineralogista Eugène Patron, attribuirono alla «molecola più elementare… un istinto, una volontà». Georges Curvier, Fossil Bones, and Geological Catastrophes, ed. Martin J. S. Rudwick (Chicago: University of Chicago Press, 1997), 201.
[24] “From Baruch Spinoza’s ‘Letter to G. H. Schuller’ (1674),” Explanitia (blog), October 3, 2018, explanatia.wordpress.com; Schopenhauer, The World as Will and Idea, vol. 3, 164. Lukács, The Destruction of Reason, 225–27.
[25] Schopenhauer, The World as Will and Idea, vol. 3, 159, 165–66, 531–32; Lukács, The Destruction of Reason, 225. è
[26] Friedrich Lange, The History of Materialism (New York: Humanities Press, 1950).
[27] Eduard von Hartmann, Philosophy of the Unconscious, vol. 3 (London: Kegan, Paul, Trench, and Trübner, 1893) 131–36; Copleston, Schopenhauer to Nietzsche, 57–59; Thomas Moynihan, X-Risk: How Humanity Discovered Its Own Extinction (Falmouth, UK: Urbanomic Media, 2020), 273–78; Lukács, The Destruction of Reason, 409; Frederick C. Beiser, After Hegel: German Philosophy, 1840–1900 (Princeton: Princeton University Pres, 2016), 158–216.
[28] Lukács, The Destruction of Reason, 309, 319–21.
[29] Lukács, The Destruction of Reason, 388–89.
[30] Friedrich Nietzsche, The Will to Power (New York: Vintage, 1967), 550.
[31] Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Vol. VI, tomo II delle OFN, Milano, 1976, pp. 177-178.
[32] Lukács, The Destruction of Reason, 361. Su Hobbes, vedi István Mészáros, Beyond Leviathan (New York: Monthly Review Press, 2022), 42–44.
[33] Nietzsche, The Will to Power, 25, 77; Nietzsche, Beyond Good and Evil, 118.
[34] Nietzsche, The Will to Power, 33, 78, 364–65, 397–98; Nietzsche, Beyond Good and Evil, 110–11, 115; Friedrich Nietzsche, Twilight of the Idols (Indianapolis: Hackett Publishing Co., 1997), 41.
[35] Nietzsche, citato da Lukács, The Destruction of Reason, 327.
[36] Nietzsche, Beyond Good and Evil, 111.
[37] Friedrich Nietzsche, On the Genealogy of Morality (Cambridge: Cambridge University Press, 2007), 23–24, 33. Stanamente, Deleuze vede il concetto di “superuomo” di Nietzsche, come il suo trionfo finale sulla dialettica di Hegel. Gilles Deleuze, Nietzsche and Philosophy (New York: Columbia University Press, 1983), 147–94.
[38] F. Nietzsche, Genealogia della morale, in Vol. VI, tomo II delle OFN, Milano, 1976, p. 229.
[39] La traduzione qui riportata segue quella di Michael Scarpitti, “The Perils of Translation, or Doing Justice to the Text,” 38, academia.edu. La traduzione di Kaufman di The Will to Power omette le ultime due frasi. Nietzsche, The Will to Power, 467. Vedi anche Ronald Beiner, Dangerous Minds: Nietzsche, Heidegger, and the Return of the Far Right (Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 2018), 4, 137.
[40] Lukács, The Destruction of Reason, 392; Deleuze, Nietzsche and Philosophy, 198.
[41] Lukács, The Destruction of Reason, 25, 403.
[42] Henri Bergson, Creative Evolution (New York: Henry Holt, 1911), 340–42.
[43] Frederick Copleston, A History of Philosophy, vol. 9, Maine de Biran to Sartre; Part I: The Revolution to Henri Bergson (New York: Doubleday, 1974), 216–23. Sul rapporto tra l’argomentazione di Bergson sull’occhio e quella degli attuali teorici del creazionismo scientifico, vedi John Bellamy Foster, Brett Clark, and Richard York, Critique of Intelligent Design (New York: Monthly Review Press), 14–15, 158–61.
[44] Ray Lankester, Preface in Hugh S. R. Elliot, Modern Science and the Illusions of Professor Bergson (New York: Longmans, Green, and Co., 1912), vii–xvii.
[45] See B. Sadoski, “The ‘Physical’ and ‘Biological’ in the Process of Organic Evolution,” in Nikolai Bukharin et. al., Science at the Crossroads (London: Frank Cass and Co., 1971), 69–80; Joseph Needham, Time: The Refreshing River (London: Georg Allen and Unwin, 1943), 241–46.
[46] Bergson, Creative Evolution, 342; Jimena Canales, The Physicist and the Philosopher (Princeton: Princeton University Press, 2015), 46–47; “Einstein vs. Bergson: The Struggle for Time”, Faena Aleph, faena.com.
[47] Lukács, The Destruction of Reason, 5, 496.
[48] Martin Heidegger, Basic Writings (New York: HarperCollins, 1993), 53–57, 234; Michael Wheeler, “Martin Heidegger,” Stanford Encyclopedia of Philosophy, October 12, 2011, plato.stanford.edu.
[49] Heidegger fa un’eccezione per alcuni filosofi presocratici, in particolare per Eraclito.
[50] Richard Wolin, Labyrinths (Amherst, Massachusetts: University of Massachusetts Press, 1995), 184; Lukács, The Meaning of Contemporary Realism, 20–21, 26–27.
[51] Martin Heidegger, Being and Truth (Bloomington: Indiana University Press, 2010), 73 (corsivo aggiunto); Beiner, Dangerous Minds, 4–5, 137.
[52] Emmanuel Faye, Heidegger: The Introduction of Nazism into Philosophy in Light of the Unpublished Seminars of 1933–1935 (New Haven: Yale University Press, 2009), 39–58; Richard Wolin, ed., The Heidegger Controversy (Cambridge, Massachusetts: MIT Press, 1993); Richard Wolin, Labyrinths,103–22.
[53] Heidegger citato da Wolin, Labyrinths, 126, 138. Vedi anche Wolin, The Heidegger Controversy, 30.
[54] Briner, Dangerous Minds, 105–8; Wolin, Labyrinths, 134–35.
[55] Heidegger citato da Wolin, Labyrinths, 131.
[56] Philip Oltermann, “Heidegger’s ‘Black Notebooks’ Reveal Antisemitism at the Core of His Philosophy,” Guardian, March 12, 2014.
[57] Tom Rockmore, “Heidegger After Trawny,” in Heidegger’s Black Notebooks, ed. Andrew J. Mitchell and Peter Trawny (New York: Columbia University Press, 2017), 152.
[58] Heidegger, Basic Writings, 225, 234, 241–47; Lukács, The Destruction of Reason, 833–36.
[59] Wheeler, “Martin Heidegger.”
[60] Heidegger, Basic Writings, 243–44; Lukács, The Destruction of Reason, 836–37.
[61] György Lukács, Lenin (Cambridge, Massachusetts: MIT Press, 1971), 41–43.
[62] Lenin, Imperialism, the Highest Stage of Capitalism,119.
[63] Raymond Williams, The Long Revolution (Cardigan, UK: Parthian, 2012), 69.
[64] Wolin, Labyrinths, 1.
[65] Keti Chukhrov, Practicing the Good (Minneapolis: e-flux/University of Minnesota Press, 2020), 20.
[66] Deleuze, Nietzsche and Philosophy, 8–10, 198.
[67] Gilles Deleuze, “I Have Nothing to Admit,” Semiotexte 2, no. 3 (1977), 112; Brian Massumi, introduction in Gilles Deleuze and Félix Guattari, A Thousand Plateaus (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1983), x.
[68] Gilles Deleuze, Bergsonism (New York: Zone Books, 1991), 79–85.
[69] Chukhrov, Practicing the Good, 20.
[70] Gilles Deleuze e Félix Guattari, Anti-Oedipus: Capitalism and Schizophrenia (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1983), 3–5.
[71] Karl Marx, Early Writings (London: Penguin, 1974), 349–50 (citato, in accordo, da Deleuze e Guattari, op. cit.), 398–99.
[72] Deleuze e Guattari, Anti-Oedipus, 5.
[73] Félix Guattari, The Machinic Unconscious (Los Angeles: Semiotext(e), 2011); Karl Marx e Friedrich Engels, The Communist Manifesto (New York: Monthly Review Press, 1964), 1.
[74] Nella filosofia vitalistica di Deleuze, le essenze sono immanenti nelle cose mobili e materiali, e quindi si distinguono dall’essenzialismo nel senso di idee fisse e trascendenti.
[75] Jacques Derrida, Specters of Marx (London: Routledge, 1994), 219–20. Se in Spettri di Marx, Derrida cerca di decostruire la prassi marxiana, altre opere hanno utilizzato la figura dello spettro di Marx per ricostruire la prassi rivoluzionaria. Vedi soprattutto China Miéville, A Spectre Haunting: On the Communist Manifesto (Bloomsbury: Head of Zeus, 2022).
[76] Derrida, Specters of Marx, 93, 219; Wolin, Labyrinths, 238–39.
[77] Baruch Spinoza, Ethics (London: Penguin,1996), 75 (III, prop. 6); “From Baruch Spinoza’s ‘Letter to G. H. Schuller’ (1674)”; Gilles Deleuze, Spinoza: Practical Philosophy (San Francisco: City Lights, 1988), 97–104.
[78] Jane Bennet, Vibrant Matter (Durham: Duke University Press, 2010), xiv–xv, 1–4; Timothy Morton, Humankind (London: Verso, 2019), 33, 55, 61–63, 71, 97, 166–71. Vedi John Bellamy Foster, “Marx’s Critique of Enlightenment Humanism,” Monthly Review 74, no. 8 (January 2023): 1–15. (trad italiana: La critica di Marx all’umanesimo illuminista: una prospettiva ecologica rivoluzionaria, Antropocene.org)
[79] Bennet, Vibrant Matter, 1–4.
[80] Foster, “Marx’s Critique of Enlightenment Humanism,” 10–12. (trad italiana: La critica di Marx all’umanesimo illuminista: una prospettiva ecologica rivoluzionaria, Antropocene.org)
[81] Bruno Latour, The Politics of Nature (Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press, 2004), 75–80; Bruno Latour, Reassembling the Social (Oxford: Oxford University Press, 2007), 54–55; Bruno Latour, We Have Never Been Modern (Cambridge, MA: Harvard University Press,1993).
[82] Bruno Latour, Facing Gaia (Cambridge: Polity, 2017), 220–54, 285–92, traduzione italiana La sfida di Gaia (Sesto san Giovanni: Meltemi, 2020); Bruno Latour, Down to Earth (Cambridge: Polity, 2018).
[83] Lukács, The Destruction of Reason, 839–40.
[84] Latour, Facing Gaia, 285–92.
[85] Bruno Latour, “Love Your Monsters,” Breakthrough Institute, February 14, 2012, org. Nel suo ultimo libro postumo, Latour ha compiuto un passo più progressista e meno irrazionalista, ma non radicale. Vedi Bruno Latour and Nikolaj Schultz, On the Emergence of an Ecological Class (London: Polity, 2022).
[86] Slavoj Žižek, “The Persistence of Ontological Difference,” in Heidegger’s Black Notebooks, ed. Mitchell and Trawny, 186–200.
[87] Slavoj Žižek, Less Than Nothing: Hegel and the Shadow of Dialectical Materialism (London: Verso, 2013), 6, 878–79. traduzione italiana, Meno di niente: Hegel e l’ombra del materialismo dialettico (
[88] Slavoj Žižek, “Ecology Against Mother Nature,” Verso Blog, May 26, 2015; Slavoj Žižek, “Censorship Today: Violence, or Ecology as a New Opium for the Masses,” 2007, lacan.com; Slavoj Žižek, Absolute Recoil: Toward a New Foundation of Dialectical Materialism (London: Verso, 2016), 7–12. Pur essendo critico nei confronti del nuovo materialismo, Žižek simpatizza con la sua prospettiva virulentemente antiumanista e antirealista.
[89] Slavoj Žižek, “Where Is the Rift?: Marx, Lacan, Capitalism, and Ecology,” Los Angeles Review of Books 20 (January 2020); Žižek, Less than Nothing, 207. Žižek sostiene che oggi esistono quattro forme rilevanti di materialismo: (1) il riduzionista materialismo volgare (psicologia cognitiva, neodarwinismo), (2) l’ateismo (Christopher Hitchens), (3) il materialismo discorsivo (Michel Foucault) e (4) il “nuovo materialismo” (Deleuze). Il marxismo è deliberatamente escluso dalla sua lista. Contrapponendosi a Engels e Lenin sostiene che l’unica via per un praticabile “materialismo dialettico”, è un “materialismo senza materialismo” attraverso l’idealismo hegeliano portato ai suoi limiti e reinterpretato per mezzo di Jacques Lacan e Heidegger. La sua “nuova fondazione del materialismo dialettico” come filosofia nichilista del “meno di niente” trova la sua giustificazione finale non in Hegel o Marx, ma in Heidegger. Slavoj Žižek, Absolute Recoil, 5–7, 413–14.
[90] Žižek, Less Than Nothing, 983–84, 207; Žižek, Absolute Recoil, 31, 107. Žižek presenta la previsione della catastrofe come destino, come una “soluzione radicale”, nei termini di mossa filosofica. Tuttavia questa non può essere vista né come “radicale” né come “soluzione”, ma semplicemente come una proiezione del suicidio cosmico come destino, dato che nella sua analisi non viene fatto alcun tentativo di indicare un modo per contrastare questo “destino”. Per una critica dell’approccio, idiosincratico e idealista, di Žižek alla dialettica, vedi Adrian Johnston, A New Dialectical Idealism: Hegel, Žižek, and Dialectical Materialism (New York: Columbia University Press, 2018); vedi anche Adrian Johnston, “Materialism without Materialism: Slavoj Žižek and the Disappearance of Matter,” in Slavoj Žižek and Dialectical Materialism, ed. Agon Hamza and Frank Ruda (London: Palgrave Macmillan, 2016), 3–22. Come afferma Johnston, l’opera di Žižek costituisce un «tradimento, piuttosto che una reinvenzione, del materialismo dialettico». Johnston, “Materialism without Materialism,” 11.
[91] Slavoj Žižek, “The Ukraine Safari,” Project Syndicate, October 13, 2022; Slavoj Žižek, “Pacifism Is the Wrong Response to the War in Ukraine,” Guardian, June 21, 2022; “Ukraine and the Third World,” Kurtay Academics, March 4, 2022, kurtayacademics.com; Jonathan Cook, “A Lemming Leading the Lemmings: Slavoj Žižek and the Terminal Crisis of the Anti-War Left,” MintPress News, June 23, 2022. Sui rischi nucleari della Nuova Guerra Fredda, vedi John Bellamy Foster, John Ross, and Deborah Veneziale, Washington’s New Cold War (New York: Monthly Review Press, 2022).
Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org
Fonte: Monthly Review, vol. 74, n. 9 (01.02.2023)
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Eros Barone
In un suo scritto Feuerbach ha giustamente affermato con una suggestiva metafora geometrica che, in séguito alla “rivoluzione scientifica”, di cui, come è noto, la “rivoluzione astronomica” è stata ‘magna pars’, la verità è diventata ellittica, il che significa che ha due fuochi. Questi sono rappresentati, nel bel saggio di John Bellamy Foster (in cui vengono, tra l’altro, liquidate le posizioni irrazionaliste di figure filosoficamente e politicamente pericolose come Zizek), dal pensiero di Engels e dal pensiero di Lukàcs. Tale impostazione lo avvicina fortemente al nostro Ludovico Geymonat, filosofo della scienza e pensatore profondamente influenzato da Marx, Engels e Lenin, nonché fautore, negli anni ’70 del secolo scorso, di un rilancio del materialismo dialettico. Ecco perché è sicuramente utile, al fine di individuare i nessi di quel tessuto unitario che è la ricomposizione del marxismo teorico, chiarire sia il senso della battaglia culturale condotta da Geymonat sia la centralità e la priorità del materialismo dialettico, che fa di questa battaglia una prosecuzione delle indagini e delle conclusioni filosofiche di Engels e di Lenin. In uno specifico capitolo della fondamentale «Storia del pensiero filosofico e scientifico», Geymonat, riassumendo le critiche rivolte all’attività teorica di Engels (quella di essere un positivista e quella di essere un semplice ripetitore di Hegel), fornisce una risposta argomentata con cui, oltre a fare giustizia di un certo anti-engelsismo di maniera, delinea la propria posizione filosofica. Il pensatore torinese ricorda, in primo luogo, che Engels comprese che il positivismo rappresentava nel secolo scorso l’erede diretto dell’illuminismo, di cui proseguì le più significative battaglie (contro l’oscurantismo clericale, a favore del pieno riconoscimento dell’importanza teorica e pratica della scienza) e che, essendo cosciente della sua importanza (non tanto quale corrente filosofica quanto) quale espressione dell’atmosfera culturale diffùsasi in Europa a séguito dei successi della ricerca tecnico-scientifica, sostenne che la classe operaia, che era portatrice di una nuova cultura, doveva schierarsi accanto ai positivisti e non contro di essi (cioè non a fianco dell’irrazionalismo del periodo imperialista), pur combattendone instancabilmente gli errori filosofici e le tendenze metafisiche. Geymonat spiega, del resto, come Engels nel portare avanti tale battaglia abbia riscoperto l’importanza e il valore, sul piano razionale, della filosofia hegeliana. Occorre, allora, anziché contrapporre la ragione scientifica moderna (espressa dal positivismo) alla ragione dialettica moderna (espressa dall’idealismo), come fanno sia gli apologeti della scienza che i suoi denigratori, ricercare la sintesi fra l’una e l’altra, scoprire il nesso intimo fra le due impostazioni culturali: questa è la tesi, limpida e profonda come l’acqua dei laghi svizzeri, enunciata da Geymonat. Il quale non dimentica, a differenza di chi gli rimprovera di oscillare tra positivismo ed hegelismo, l’insegnamento di Lenin, secondo cui, nell’epoca dell’imperialismo, la teoria marxista, diversamente dall’età precedente in cui Marx ed Engels dovettero combattere altri avversari, è caratterizzata dalla preminenza del materialismo dialettico rispetto al materialismo storico. In questo senso, la stessa applicazione della teoria gnoseologica del rispecchiamento, elaborata da Lenin, al rapporto struttura-sovrastruttura, concetto-chiave del materialismo storico, conferma la preminenza del materialismo dialettico.
alessandro cocuzza
Sono tra i redattori della rivista antropocene.org da cui avete tratto il presente testo, traduzione a cui ho partecipato. Ho apprezzato il commento di Eros Barone, che mi farebbe fra l’altro piacere poter contattare, avendolo conosciuto in anni lontanissimi in provincia di Varese.
Alessandro Cocuzza
(alessandro. cocuzza@tiscali.it)