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Samir Amin: per una critica dell’eurocentrismo

Finalmente è stato pubblicato in italiano l’importante testo di Samir Amin dedicato alla critica all’Eurocentrismo. Pubblichiamo l’introduzione di Giorgio Riolo al testo “Eurocentrismo”.Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di Giorgio Riolo, traduzione di Nunzia Augeri, Napoli, La Città del Sole, 2023, pp. 276.

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Samir Amin rientra tra coloro i quali più si sono attenuti alla feconda interazione e al reciproco sostanziarsi di teoria e di storia, di astratto e di concreto, di conoscenza e di realtà fattuale storico-sociale. È il suo un contributo di grande valore per dare coerenza teorica e categoriale a questo materiale empirico, reale. È in lui soprattutto la feconda interazione e la stretta interdipendenza di impegno politico militante e di necessaria riflessione teorica e culturale. La quale riflessione teorica e culturale era concepita da Amin non come semplice orpello.

EUROCENTRISMO

Il militante (comunista, terzomondista-internazionalista, antimperialista, altermondialista ecc.) dialoga e illumina l’intellettuale marxista. E viceversa. È un pendolo, una oscillazione tra i due poli, costante. L’intera sua parabola di vita, e il suo apporto per noi, si dispiega dalla precoce adesione ai valori (morali, etici, intellettuali) socialisti e comunisti e dalla precoce lettura di Marx fino alla scomparsa nel 2018 come continuo confronto con la storia reale, con il capitalismo realmente esistente (locuzione da lui preferita), con Marx e con i marxismi storici, con la storia del movimento operaio, socialista e comunista, e dei movimenti di liberazione nazionale del Sud del mondo, con il socialismo reale e con le varie rivoluzioni nelle periferie (Cina, Vietnam, Cuba, Algeria ecc.), con la concezione generale dell’alternativa socialista.

I.

Nell’ampia produzione intellettuale e teorica di Samir Amin, costituita di opere sistematiche e di numerosi saggi e articoli, Eurocentrismo occupa un posto particolare. Già nella prima edizione del 1988, ma soprattutto nella stesura fatta per la seconda edizione, la cui traduzione italiana qui presentiamo.

In essa Amin affronta tante questioni e tanti temi, già trattati in L’accumulazione su scala mondiale (1970) e in Lo sviluppo ineguale (1973) e poi in vari saggi come La loi de la valeur e Le matérialisme historique (1977), Classe et nation (1979) e La déconnexion (1985). Ma qui, nella presente opera, alcuni sviluppi sono inediti.

Il modo di operare di Amin testimonia della sua tendenza a tenere aggiornata la sua analisi. Senza preoccupazione eccessivamente filologica e senza pensare alla sistematicità. Il libro, il saggio o l’articolo sono a suo avviso semplici strumenti. Il fine è sempre l’efficacia nella conoscenza e nell’azione. Spesso egli riprende, precisa e affina analisi e categorie già esposte nelle opere precedenti.

II.

Il compito mio in questa introduzione è, a grandi linee naturalmente, quello di soffermarmi sul peculiare marxismo di Amin e sui suoi apporti al sistema di idee che origina da Marx. E di rendere conto della storia reale della sua militanza politica come apporto originale al progetto di emancipazione umana che chiamiamo socialismo, in primo luogo per i popoli e per le classi subalterne delle periferie del mondo.

In particolare, richiamerò alcuni passaggi e alcuni sviluppi che ritengo importanti contenuti nella presente opera.

III.

La prima mossa è sempre una mossa etica, una scelta morale, una scelta di campo. Questo è per tutti nella vita, ma è soprattutto per chi non si accontenta dello stato di cose e si accinge a impegnarsi per cambiare. Il ragazzo Amin proviene da un ambiente famigliare e sociale relativamente privilegiato, non ricco, ma abbiente.

Nella realtà di un Egitto povero, sotto protettorato britannico, la visione di bambini e coetanei condannati alla miseria non lo lascia indifferente. Nella scuola media francese in cui studia metà degli studenti si professa “nazionalista” e metà “comunista”. Con ovvia idea molto vaga di cosa ciò significhi e comporti. A 15 anni legge il Manifesto del partito comunista e a 18 Il capitale, ma ora è a Parigi per completare gli studi. Si iscrive al Partito comunista francese. Come militante comunista egiziano, nel 1950 ha la possibilità di assistere a una riunione informale di esponenti di vari partiti comunisti asiatici e africani.

Costoro non aderiscono alla posizione espressa dalla relazione di Ždanov del 1948 con cui l’Urss di Stalin sanciva la definitiva e codificata, com’era abitudine nella gerarchia mondiale comunista di allora, teoria del mondo diviso in due campi. A Ovest il campo occidentale capitalistico, a guida Usa, e a Est il campo orientale socialista, a guida Urss. Era nondimeno quella la reazione sovietica alla dichiarazione della cosiddetta “guerra fredda”, contenuta nella dottrina Truman del 1947.

Questi comunisti, diversamente dai partiti comunisti occidentali e latinoamericani, di stretta osservanza sovietica, reagiscono e affermano, anche se non ancora pubblicamente, che il mondo in realtà è diviso in tre poli, in tre campi. Esiste un terzo campo, il Sud del mondo, alla mercé del colonialismo, del neocolonialismo, dell’imperialismo. Un campo impegnato nelle lotte per affrancarsi da questi sistemi di dominio e di oppressione. È il cosiddetto “terzo mondo”, come lo denominerà nel 1952 il sociologo francese Alfred Sauvy.

IV.

La svolta storica, la data periodizzante è rappresentata dalla Conferenza di Bandung, in Indonesia, nell’aprile 1955. L’India di Nehru, l’Egitto di Nasser, l’Indonesia di Sukarno, la Jugoslavia di Tito e tanti altri paesi, con il beneplacito e la partecipazione della Cina, e con la presenza di Chou En-Lai, danno avvio al movimento o “era di Bandung”, con rinnovato impulso alla decolonizzazione e allo sviluppo nazionale e popolare autonomo. Con il successivo avvio del movimento dei paesi non-allineati con la Conferenza di Belgrado nel 1961.

È un’era non così lineare, con forti contraddizioni, ma è un processo nuovo su scala mondiale. L’Urss e i partiti comunisti favoriscono questo processo. Questi sviluppi storici interagiscono con il coevo lavoro teorico di Amin per la tesi di dottorato.

La questione all’ordine del giorno, la domanda cruciale è “perché esiste il cosiddetto sottosviluppo?”. La risposta immediata non è il ritardo nella traiettoria lineare degli “stadi di sviluppo”, non è mancanza di sviluppo, teorie degli anni cinquanta poi rese coerenti dal lavoro di Walt W. Rostow nel 1960. Il “divario” non è possibile colmarlo con opportune politiche economiche. Il sottosviluppo è il prodotto necessario, speculare e dialettico dello sviluppo (o sovrasviluppo, nel generale “malsviluppo”, come noi “terzomondisti”, tra fine anni sessanta e anni settanta, preferivano denominare) dei paesi dominanti del centro capitalistico. Essendo il capitalismo una formazione storico-sociale caratterizzata dallo sviluppo polarizzante e asimmetrico a vocazione planetaria.

Le coppie dialettiche Nord-Sud, Centro-Periferia, Sviluppo-Sottosviluppo costituiscono la chiave per capire come realmente funziona il capitalismo, come funziona il mondo. Tutto ciò confluirà nella prima opera sistematica di Amin L’accumulazione su scala mondiale. Critica del sottosviluppo del 1970 e ancor più rigorosamente, dal punto di vista teorico, nella successiva opera del 1973 Lo sviluppo ineguale.

V.

Va da sé che queste acquisizioni retroagiscono sulla interpretazione di Marx e dei vari marxismi storici e del socialismo come movimento reale. Ad Amin non interessa la cosiddetta “marxologia”, lo studio accademico, l’interpretazione dei testi, ritenuti “sacri”, di Marx. “Partire da Marx”, ripete sempre Amin, non per “andare oltre Marx”, bensì “con Marx” svilupparlo, rivederlo (nozione legittima di “revisionismo”), correggerlo anche, pensare con la propria testa. In breve, proseguire la sua opera.

Un Marx condizionato dal proprio tempo e dal non aver avuto modo di completare la propria opera. Un Marx condizionato da un certo “eurocentrismo”. È soprattutto il Marx degli articoli scritti per la New York Daily Tribune nei primi anni cinquanta dell’Ottocento, sulla dominazione britannica in India, sulla Cina ecc. È una visione da “missione civilizzatrice del capitalismo”. Tutto questo poi rivisto e corretto dall’ultimo Marx, dal 1870 in poi, quando si confronta con la Russia e con i rivoluzionari russi e con le letture di opere di storia, di etnologia, di antropologia ecc. (vedi i Quaderni etnologici, pubblicati postumi nel 1972 dall’etnologo Lawrence Krader).

Come è noto, Marx nei vari piani di stesura del Capitale, pose il titolo “mercato mondiale” al futuro, e mai scritto, Libro VI dell’opera. Egli finì la stesura e curò personalmente solo il Libro I. Il Libro II e Libro III li curò l’amico Engels, ricavandoli dai suoi numerosi quaderni e dalle stesure provvisorie.

Il risultato è che Marx studiò da par suo statica e dinamica del modo di produzione capitalistico a partire dalla sede classica, l’Inghilterra, di questa formazione storico-sociale. La forma-merce, il feticismo delle merci, il denaro, il capitale, la categoria del valore e poi del plusvalore e via via tutte le numerose acquisizioni e categorie dal Libro I fino al Libro III sono aspetti rilevanti del microcosmo della fabbrica e dell’economia su scala nazionale (anche se già il Libro III allarga il discorso “ai tanti capitali” e alla loro interazione, alle crisi del sistema ecc.).

Ora però si tratta di considerare la compiuta formazione storico-sociale capitalistica. Amin pone al centro la nozione di “formazione sociale” rispetto alla pur necessaria nozione di “modo di produzione”. In questo modo si cerca di evitare lo “economicismo” e il “determinismo” dei marxismi storici, semplificati, scolastici ed eurocentrici. È una totalità in cui interagiscono i vari momenti, l’economico, il sociale, il culturale, il politico, l’ideologico ecc. Anche se il momento economico è da considerarsi “egemonico”, come dice Marx nei Lineamenti di critica dell’economia politica, i famosi Grundrisse.

En passant, su questi temi, da un versante più propriamente filosofico, e apparentemente non conoscendosi i due famosi marxisti, ha molto sviluppato György Lukács, soprattutto nell’ultima sua opera Ontologia dell’essere sociale.

Si tratta insomma di considerare lo “organismo intero” e non solo la “cellula”, i vari organi e apparati. È il capitalismo nella sua evoluzione su scala mondiale, come sistema mondiale, come unità di analisi quindi, e non come semplice sommatoria di formazioni nazionali giustapposte. Nella logica intrinseca di questo sistema è l’intero che determina, che soverchia e plasma le sue singole parti.

In questo senso, Amin considera la centralità del “materialismo storico” e quindi della storia come campo di interazione delle dinamiche strutturali, economiche, sociali ecc., e delle dinamiche un tempo dette sovrastrutturali, del momento ideologico, delle culture profonde, nei centri capitalistici e nelle periferie. Eurocentrismo si sofferma molto su questa visione.

VI.

Il marxismo come sistema, come scolastica, nasce nel contesto della Seconda Internazionale e dei tanti partiti socialisti di ispirazione marxista dal 1870 in avanti. Nasce a opera di Kautsky, di Plechanov e altri. È una interpretazione di Marx in senso economicistico e deterministico, confacente a una fase storica in cui la classe operaia occidentale, grazie alla “rendita imperialistica”, come la definisce Amin, grazie ai sovrapprofitti da sfruttamento coloniale e imperialistico, può ottenere relativamente più alti salari, rispetto ai salari da fame della precedente epoca del capitalismo industriale ottocentesco.

È l’epoca della seconda mondializzazione capitalistica, del capitale finanziario, del capitale monopolistico (l’epoca degli “oligopoli”, come dice giustamente Amin), dell’imperialismo classico e della nuova espansione mondiale del capitalismo.

Già lo stesso Engels aveva messo in guardia i socialdemocratici tedeschi a non considerare il socialismo alla stregua di un “capitalismo senza capitalisti”. E dopo ci torniamo a proposito del socialismo reale. È, dice Amin, la “alienazione economicistica”, tipica nella società capitalistica. Dal momento che la legge del valore dagli ambiti propriamente economici si estende a ogni ambito della società e della vita degli individui e dei gruppi umani, investe ogni forma di vita, individuale e collettiva. L’economicismo è la religione vera della società capitalistica. Di contro alla “alienazione metafisica” delle formazioni sociali precapitalistiche. E tuttavia economicismo e alienazione economicistica investono anche coloro i quali dovrebbero trasformare questo stato di cose.

La forma di lotta tradunionistica, come dirà in seguito Lenin, per più alti salari rappresenterà la forma principale di lotta in Occidente. Già Engels, il quale muore nel 1895, aveva intravisto la nascita della cosiddetta “aristocrazia operaia”, condizionante molto la complessiva classe operaia inglese. La “rendita imperialistica”, all’origine di detta aristocrazia operaia, era ricavata in primo luogo dallo sfruttamento coloniale dell’Irlanda e poi delle altre colonie, soprattutto l’India, e poi dal corso “normale” dell’imperialismo su scala mondiale.

Inoltre questi marxismi storici condividevano una concezione lineare, stadiale, dei modi di produzione e delle formazioni sociali nella storia. La cosiddetta “teoria dei cinque stadi” e soprattutto il rapporto meccanicistico base-sovrastruttura completano questa concezione della storia, distorta rispetto alla concezione originale di Marx.

Amin innova rispetto a questa concezione e nella presente opera vi si trova ampia trattazione. Ai cinque stadi canonici occorre sostituire una teoria dei tre stadi (comunitario, tributario e capitalistico). Già ne Lo sviluppo ineguale aveva introdotto la nozione di “modo di produzione tributario”, a indicare l’intero corso storico dalla fine del modo comunitario al modo di produzione capitalistico. Questa nozione unifica quello che veniva designato come modo di produzione asiatico (tributario centrale, caratteristico delle civiltà monumentali, Egitto, Mesopotamia, India, Cina ecc.) e quello designato come modo di produzione feudale (tributario periferico, Europa e Giappone). Secondo Amin, il modo di produzione schiavistico è trascurabile, essendo confinato temporalmente e geograficamente, interstiziale rispetto al contesto più vasto tributario.

Altra innovazione operata da Amin si riferisce alla periodizzazione storica. Nell’Eurocentrismo è argomentato come il medioevo debba essere esteso temporalmente, dal 300 a. C., epoca di Alessandro Magno e dell’ellenismo, al 1500, esordio del capitalismo dell’era mercantilistica. E sempre nella presente opera Amin insiste sulla suddivisione tra capitalismo ancora non compiuto, ancora non maturo nella transizione mercantilistica, tra 1500 e 1800, e il capitalismo compiuto e maturo dell’era industriale a partire dal 1800.

VII.

La cosiddetta “accumulazione originaria” o “primitiva” (è il famoso capitolo XXVI del Libro I del Capitale), descrive bene il processo storico che conduce alla nascita del capitalismo compiuto. Già Marx affermava che era da intendersi anche come condizione permanente al fine di produrre e riprodurre il processo capitalistico stesso. Amin sottolinea “accumulazione permanente”, “accumulazione per espropriazione-spoliazione” (in ciò riprendendo Giovanni Arrighi). Espropriazione-spoliazione dapprima dei contadini e la loro conseguente espulsione dalle campagne, costretti ad andare a vendere la propria forza-lavoro nelle fabbriche, nelle città. E poi espropriazione-spoliazione dei popoli su scala mondiale.

I contadini, espropriati dei beni comuni o demaniali, ancestrali (boschi, pascoli, terre, fiumi ecc.), per mezzo delle “recinzioni”, e delle leggi che autorizzavano questo processo, i famosi Enclosures Acts. Oltre ai furti, alle violenze (“la violenza, forza economica essa stessa”, Marx nel capitolo sopraccitato), ai soprusi ecc. I popoli, espropriati per mezzo della espansione predatoria e polarizzante del capitalismo.

Nel Libro I del Capitale, Marx a un certo punto dice che nel capitalismo la ricchezza scaturisce “minando al contempo le due fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio”. In sostanza, amplia il discorso Amin, per “terra” si intende la “natura” e per “operaio” si intendono gli esseri umani. Il giusto rilievo fatto da Marx occorre, nota ancora Amin, ampliarlo e aggiungere una terza fonte, “i popoli oppressi”.

VIII.

Da Marx in avanti la classe-soggetto per eccellenza della trasformazione era considerata, ed è tuttora considerata da molti marxismi, la classe operaia, il proletariato urbano e di fabbrica.

Si riteneva che il soggetto contadino, i contadini, fosse una classe destinata a scomparire nel processo evolutivo e nella marcia trionfale del capitalismo, almeno in Occidente. Oppure veniva considerata “riserva della reazione”, soprattutto nell’esperienza francese, nella fattispecie della Vandea prima, nel contesto della grande rivoluzione del 1789, e poi nel contesto della rivoluzione del 1848 e della Comune di Parigi del 1871, tutti fenomeni parigini o cittadini in generale. Kautsky aveva trattato della “questione agraria”, in ambito della Seconda Internazionale. Ora in Amin, la questione diventa “contadina”.

Nel “marxismo della periferia”, come preferisco definire questa corrente di pensiero e di movimento reale, la classe-soggetto “i contadini” ha un posto centrale. A partire dalla semiperiferia Russia (e ricordiamo le avvertenze di Lenin, nella costruzione del socialismo, e poi di Bucharin, di preservare la preziosa alleanza operai-contadini), le rivoluzioni del Novecento saranno soprattutto rivoluzioni contadine. Cina, Vietnam, Cuba, Algeria ecc. Mao, Ho Chi Minh, Giap, Josè Carlos Mariategui, Frantz Fanon, Fidel e il Che e tanti altri rientrano in questo marxismo. Amin è uno dei principali esponenti di questa corrente. È la “vocazione terzomondista del marxismo”, come egli ricorda spesso.

Da qui la propensione di Amin per la via cinese, per la Cina, per Mao. Già dal 1957 e poi decisamente dall’avvio nel 1960 dell’ormai aperto conflitto cino-sovietico.

Il modello cinese serve anche ad Amin per compiere un’analisi e una critica del socialismo reale e del modello sovietico.

IX.

Per completare l’apporto di Amin nel proseguire l’opera di Marx, occorre fare riferimento ad alcuni sviluppi del suo pensiero, in relazione anche ad altri sviluppi.

In primo luogo, per rendere conto delle profonde trasformazioni del capitalismo su scala mondiale, da fine Ottocento in avanti, si erano avuti i contributi di Rosa Luxemburg (L’accumulazione del capitale del 1913), di Lenin (L’imperialismo, fase suprema del capitalismo del 1916, in realtà nell’originale russo “più recente”, “ultima”), aiutato dalle opere di Hilferding (sul capitale finanziario) e di Hobson (sull’imperialismo come politica), e di Bucharin (L’economia mondiale e l’imperialismo del 1915).

Dopo il 1945 si erano venute precisando tre scuole, a proposito di rapporto Nord-Sud, centro-periferia, sviluppo-sottosviluppo in ordine di tempo:

  1. la “scuola dell’accumulazione polarizzante” di Samir Amin
  2. la “scuola della dipendenza” (Fernando Henrique Cardoso, divenuto in seguito presidente liberista del Brasile, Celso Furtado, Theotonio dos Santos, Andre Gunder Frank), anche come critica del “desarrollismo”, lo “sviluppismo”, in America Latina concepito da Raul Prebisch, al quale si devono, tra l’altro, le nozioni di “centro” e di “periferia”.
  3. la “scuola del sistema-mondo” di I. Wallerstein, alla luce anche della lezione dello storico francese Fernand Braudel.

Nella concezione della rendita imperialistica e quale contributo innovativo di Amin rientra “la legge del valore mondializzato” a misura delle differenze nazionali dei salari, dei prezzi della forza-lavoro. Soprattutto su scala mondiale, nella frattura decisiva tra Nord Globale e Sud Globale. In un contesto nel quale dei tre fattori della produzione capitalistica (merci, capitali, forza-lavoro) solo i primi due circolano liberamente nel mondo, mentre la forza-lavoro, il lavoro salariato giocoforza (corpi, esseri umani) ha impedimenti enormi in questa circolazione.

Quella che Immanuel Wallerstein ha definito “differenziazione etnica della forza-lavoro”, quale carattere permanente del capitalismo storico, a partire dalla tratta degli schiavi fino a oggi (migranti ecc.), in Amin diventa “differenziazione nazionale dei salari”, una delle componenti fondamentali dell’enorme trasferimento di valore dalle periferie sottosviluppate e subalterne ai centri sviluppati e dominanti del mondo.

X.

Amin deve molto a chi, nel secondo dopoguerra, si è prodigato per proseguire l’opera di Marx e per rendere conto delle trasformazioni del capitalismo nel Novecento. Sono soprattutto i marxisti attorno alla rivista Usa Monthly Review. In particolare Paul M. Sweezy e Paul Baran.

Già a partire dagli anni cinquanta essi elaborarono la categoria di “surplus”, non nuova, essendo categoria esplicativa dello sviluppo umano, della civiltà, dalla rivoluzione neolitica in avanti (eccedenza, sovrappiù, plusprodotto). Ora come aspetto importante nella riproduzione capitalistica, come categoria per capire la riproduzione complessiva del sistema, come risorsa per la spesa pubblica, soprattutto il surplus per la spesa militare. Ritorna il “militarismo” come categoria importante. Aveva iniziato Rosa Luxemburg nell’indicare come il militarismo fosse non solo fenomeno antropologico, sociologico, culturale, politico (politica di potenza, camarille guerrafondaie, violente ecc.), ma fosse un aspetto importante come settore della produzione complessiva sociale. Fosse parte organica, e non estemporanea, della produzione capitalistica e della riproduzione del capitalismo nel suo complesso.

Questi marxisti proposero, e propongono tuttora, di aggiungere ai due settori tradizionali, studiati da Marx nel Libro II del Capitale, della produzione complessiva sociale, il primo settore “mezzi di produzione” e il secondo settore “mezzi di consumo”, anche il terzo settore dei “mezzi di distruzione di massa”. Le armi e l’industria militare in sostanza. Il famoso complesso militare-industriale.

Baran e Sweezy sono gli autori del libro fondamentale del 1966 Il capitale monopolistico, diventato poi uno dei “libri del ‘68”. Nel quale si fa soprattutto riferimento alla “struttura economica e sociale americana”, al ruolo egemonico Usa, al suo militarismo ecc.

In questo libro, i due autori statunitensi esprimono in modo netto e diretto l’assunto di tutto questo “marxismo della periferia” e dei movimenti di liberazione del Sud del mondo. Una sorta di lapidario manifesto del terzomondismo, nelle periferie del mondo e nei movimenti giovanili in Occidente. “L’iniziativa rivoluzionaria che prima era appannaggio del proletariato europeo è ormai passata alle masse diseredate delle periferie del mondo”.

In questo rovesciamento, in questa “rivoluzione copernicana”, in questa visione anche palingenetica, messianica anche in settori del terzomondismo occidentale, delusa dal proletariato occidentale, considerato ormai “integrato nel sistema”, secondo la concezione anche di Marcuse, agiva anche l’altra visione apocalittica proveniente dalla Cina. Da Lin Piao nel 1965, poco prima dell’avvio della “rivoluzione culturale”. In un suo famoso intervento spiegava come i popoli oppressi di Asia, Africa e America Latina, la “campagna mondiale”, dovessero accerchiare la “città mondiale”, formata dalle potenze imperialistiche, Usa in primo luogo. Il calco nello scenario mondiale della rivoluzione cinese, svoltasi e vinta avente come base le campagne e i contadini.

XI.

Dicevamo che il modello cinese aiuta molto Amin nella sua valutazione del socialismo reale e del sistema sovietico. Un suo saggio riporta il titolo appunto “Trent’anni di critica del sistema sovietico 1960-1990”.

Dapprima Amin sembra aderire alle tesi dell’altro maoista francese Charles Bettelheim. Le nozioni usate erano “capitalismo di stato” e “borghesia di stato”. Ma poi Amin si avvicina alle tesi di Sweezy per capire in che cosa consiste il socialismo di tipo sovietico.

Amin ricorda Engels. Come si diceva prima, l’amico e compagno di Marx diffidava i socialdemocratici tedeschi dal concepire il socialismo come “capitalismo senza capitalisti”. Non si tratta solo di sviluppo delle forze produttive, soprattutto nell’arretrata Russia appena uscita dalla rivoluzione. Non si tratta solo di rattrapage, come dice Amin, di sforzo, tensione, per “colmare il divario”, come si prescrive nella teoria degli stadi di sviluppo ai paesi cosiddetti sottosviluppati. In questo caso, a causa dell’arretratezza, per raggiungere il livello di sviluppo industriale e di benessere dei paesi capitalistici sviluppati.

Bensì si tratta, sempre nelle parole di Amin, di faire un’autre chose. Si tratta di costruire altri rapporti sociali, di pensare che la più grande forza produttiva è l’uomo stesso, che occorre porre fine all’alienazione mercantile e al rapporto alienato processo produttivo-operaio sovietico ecc.

La deriva di Stalin (criticato dallo stesso Mao nei suoi appunti di lettura “Stalin ignora la politica e le masse, mette in rilievo solo la tecnologia e i quadri tecnici” e “Stalin non prende in considerazione l’uomo. Vede le cose, non l’uomo”) era, secondo Amin, preparata anche dalla concezione di Lenin secondo il quale, e secondo la sua celebre definizione, il socialismo era “Soviet + elettrificazione del Volga”. Tanto che poi, esautorati i soviet, è rimasta solo “l’elettrificazione”. Inoltre, sempre secondo Amin, Lenin condivideva la concezione, dominante nella società borghese, della cosiddetta neutralità della scienza e della tecnica.

Anche se Amin spesso cita il Mao nel suo discorso del 1963 rivolto ai quadri del Partito comunista cinese (“Voi avete costruito una borghesia. Non dimenticatelo; la borghesia non vuole il socialismo, vuole il capitalismo”) tuttavia rigorosamente, per Sweezy, e poi per Amin stesso, nel sistema sovietico non di borghesia si tratta. Perché non c’è accumulazione e non esiste proprietà privata. Esiste bensì una “nuova classe”, dominante, privilegiata, che controlla la proprietà statale, non collettiva, dei mezzi di produzione e controlla la distribuzione dei beni. Una nuova classe che si riserva l’accesso a consumi privilegiati, di lusso, molti importati dall’Occidente solo a beneficio di questa classe. Una classe che per continuare a dominare intrattiene rapporti clientelari-mafiosi con il resto del popolo. Come elargizioni di favori e di effimeri privilegi, comportando questo in basso narcosi sociale, apatia.

Queste dinamiche hanno condotto alla deideologizzazione e alla spoliticizzazione diffuse, di massa, nel popolo sovietico, come rilevava Lukács in una delle sue ultime interviste nel 1970.

XII.

Per Amin il socialismo è da concepire come “transizione”, come lungo processo storico, al pari della lunga transizione e gestazione del capitalismo. Il capitalismo europeo impiegò secoli per giungere alla sua fase compiuta, dai prodromi della rivoluzione comunale del XI secolo fino al Rinascimento e soprattutto nella transizione mercantilistica tra Rinascimento e avvio della rivoluzione industriale, tra 1500 e 1800, come Amin indica.

Questa possibile alternativa socialista deve confrontarsi oggi con la nuova globalizzazione-mondializzazione, che noi chiamiamo del neoliberismo trionfante e che Amin preferisce chiamare degli “oligopoli generalizzati”, in presenza di potenti oligarchie finanziarie transnazionali. Nel contesto della fine

  1. a Ovest, nell’Occidente capitalistico, dei compromessi sociali (il “compromesso socialdemocratico”) tra capitale e lavoro, come risultato della vittoria sul nazifascismo e della forza acquisita dal movimento operaio e dalle forze politiche della sinistra
  2. a Est, del socialismo reale e del sistema sovietico
  3. a Sud, con la fine di Bandung e del primo “risveglio del Sud”

La ripresa del socialismo come transizione su scala mondiale esige una “Bandung 2”, un nuovo “risveglio del Sud”. In presenza di un mutato quadro del contesto mondiale, dal momento che nella nuova globalizzazione-mondializzazione è sì consentita e incoraggiata l’industrializzazione di alcuni paesi, alcuni detti emergenti, ma sempre come sviluppo dipendente grazie ai “cinque monopoli” (tecnologia, mezzi di comunicazione, controllo delle risorse, finanza, armi di distruzione di massa) appannaggio dei paesi della cosiddetta “Triade”, dell’imperialismo collettivo di Usa, Europa e Giappone.

Allora ritorna a essere fondamentale per il Sud del mondo la nozione di “sviluppo autocentrato” di contro allo “sviluppo extravertito”, al servizio dello sviluppo dei paesi dominanti. È la concezione dello sviluppo autonomo, rispondente ai bisogni della nazione e del popolo. Si tratta di produrre beni per il proprio fabbisogno e non beni per l’esportazione (caffè, cacao, soia, mais ecc. a beneficio dei consumi dei paesi dominanti, per l’allevamento di animali da carne ecc.).

Per fare questo occorre la mossa preliminare della déconnexion, del delinking, dello “sganciamento” (come abbiamo reso questa categoria nella traduzione italiana) dalla logica dello sviluppo capitalistico nel quale le periferie debbono soggiacere allo “aggiustamento strutturale” continuo secondo i voleri dei paesi dominanti del centro.

Questo sviluppo decisivo nella visione di Amin, quale alternativa al capitalismo realmente esistente, è affrontato dapprima diffusamente nel libro del 1985 La déconnexion, ma poi anche in Eurocentrismo.

XIII.

In questo processo, un passaggio fondamentale è la costruzione di un “mondo multipolare”. Contro il dominio unilaterale, unipolare, degli Usa. E contro il suo continuo tentativo di “controllo militare del pianeta”.

L’egemonia Usa è messa in discussione da alcuni paesi come la Cina, la Russia, l’India, l’Iran ecc. Con l’avvertenza che questi paesi svolgono sì un ruolo “antiegemonico”, appunto, ma non “antisistema”, non anticapitalistico. Non mettono in discussione il capitalismo. Anzi. Tuttavia così facendo contribuiscono a creare un mondo multipolare, retroterra necessario per futuri avanzamenti antisistemici.

XIV.

Amin definisce il capitalismo come “una parentesi della storia”. Come sistema ormai “obsoleto”, “senile”, “in declino”, addirittura dal 1880, dalla fase degli oligopoli e dell’imperialismo, dalla grande crisi detta “grande depressione” del 1873-1896. Quella fase inaugura un’epoca di guerre e di rivoluzioni che si dispiega in tutto il Novecento.

La questione ambientale è questione cruciale e Amin ne è consapevole. Già attivo dalla Conferenza di Stoccolma del 1972, nella costruzione in Africa di Enda (Azione Ambientale e di Sviluppo nel Terzo Mondo) e nella successiva costruzione, a inizio degli anni ottanta, del Forum du Tiers Monde.

Infine, entro il Forum Mondiale delle Alternative, su impulso di Amin e di Houtart, ci siamo impegnati per accogliere il contributo del Global Footprint Network (la Rete mondiale dell’Impronta Ecologica promossa soprattutto da Mathis Wackernagel) e quello di Elmar Altvater (“socialismo solare”) e di John Bellamy Foster, attuale direttore della Monthly Review. Altvater e Bellamy Foster, con Michael Löwy e Joel Kovel, fautori di quel “socialismo ecologico” o “ecosocialismo”, tanto più necessario oggi, a fronte delle sfide e delle minacce per l’equilibrio e la sopravvivenza della vita nel pianeta. In questo la contraddizione capitale-lavoro si coniuga strettamente, e non gerarchicamente, con la contraddizione uomo-natura e produzione-ambiente.

XV.

Con Amin e Houtart abbiamo contribuito a creare e sviluppare il Forum Mondiale delle Alternative. In ciò precorrendo la nascita del Forum Sociale Mondiale, da Porto Alegre 2001 in avanti.

L’assunto era contenuto nello slogan “convergenza nella diversità” delle varie correnti, tendenze, culture, movimenti, partiti ecc. che si opponevano alla globalizza-zione-mondializzazione neoliberista. Il cosiddetto movimento altermondialista origi-na da lì. In Italia tale movimento si è palesato soprattutto al vertice G8 di Genova nel luglio 2001.

Il Forum Sociale Mondiale si è mosso sempre tra due poli. Nella metafora usata da Houtart, e ripresa da Amin, tra la “Woodstock sociale”, come happening, come spazio aperto in cui ritrovarsi e conoscersi, ma senza alcuna implicazione organizzativa, senza parole d’ordine vincolanti ecc., e una sorta di “nuova Internazionale”, con implicazioni organizzative e misure vincolanti. Amin è stato critico nel vedere prevalere entro il Forum le potenti Ong occidentali. Com’egli diceva, una concezione edulcorata della lotta al neoliberismo, consona a un capitalismo che si degna di

  1. “dare una verniciata di verde” (greenwashing), con il cosiddetto sviluppo sostenibile
  2. concedere la “lotta alla povertà”, come mitigazione delle gravi sperequazioni e ineguaglianze diffuse
  3. promuovere la governance, il “buon governo” degli organismi sovranazionali, questi ultimi senza alcuna legittimazione democratica e responsabili di molti squilibri a livello planetario.

Negli ultimi tempi sosteneva che le lotte sociali decisive nel mondo ormai si svolgevano fuori dal contesto del Forum Sociale Mondiale, perdendo così quest’ultimo ruolo e importanza nell’arena mondiale, dopo le esaltanti e promettenti fasi iniziali dei primi forum.

Propugnava la versione antisistemica più radicale nella creazione della cosiddetta “V Internazionale”. A suo parere, possibile, auspicabile. Malgrado le serie difficoltà che personalmente ritengo presenti in una simile impresa. Auspicabile, ma, a misura della frammentazione, delle scissioni, delle diverse traiettorie di partiti, di movimenti ecc. nel mondo, molto difficile a realizzarsi.

XVI.

Sempre entro il Forum Sociale Mondiale, Amin ha insistito sulla ripresa della nuova “questione agraria”. La vera e propria “questione contadina” contemporanea.

La micidiale azione dello agrobusiness, l’agricoltura capitalistica fortemente meccanizzata e a intenso uso di fertilizzanti chimici e di pesticidi continua a rovinare la piccola agricoltura famigliare di sussistenza. Vale a dire a rovinare l’esistenza di metà della popolazione mondiale, circa 3,5 miliardi di persone. Ciò comporta un’ulteriore espulsione di contadini e delle loro famiglie dalle campagne del Sud del mondo. In presenza di uno sviluppo dell’industria asfittico su scala mondiale, non più capace di assorbire questa manodopera resa libera, queste espulsioni si risolvono in un ingrossamento a dismisura dell’esercito industriale di riserva, di persone allo sbando nello Slum Planet, nella “bidonvillizzazione del mondo”, con le molte città delle periferie del mondo, accerchiate da enormi favelas, slums, bidonvilles ecc.

Circa un miliardo di persone è migrato in questo modo in questi ultimi decenni, in questi “quaranta gloriosi” di dominio del capitalismo neoliberista, essendo la migrazione Sud-Sud ormai dominante, rispetto alle poche centinaia di migliaia di persone della spesso disperata migrazione Sud-Nord.

XVII.

Nell’espansione polarizzante del capitalismo e dell’imperialismo a essere distrutte sono anche identità, appartenenze, culture, comunità. Spesso le reazioni spontanee dei popoli investiti sono state, e sono, di legittima chiusura difensiva identitaria, “culturalistica”, come la definisce Amin.

Il culturalismo è un problema, poiché è un ripiegarsi e un volgersi al passato, è passatismo. Nell’area storica interessata dall’islam, invece di volgersi, come “passatismo”, alle fiorenti civiltà egizia, mesopotamiche, arabo-persiana ecc. la prima identità che viene assunta è proprio l’islam.

Amin non distingue tra “islam moderato” e “islam radicale e fondamentalista”. Si tratta in entrambi i casi di “islam politico”, antidemocratico, repressivo, oscurantista, lesivo della dignità della donna. Un potente freno all’autentico processo di emancipazione delle classi subalterne e dei popoli delle periferie. Questo detto dal versante di una profonda conoscenza del contenuto propriamente religioso e culturale in generale, della storia complessiva dei sistemi religiosi, dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam in particolare.

In Eurocentrismo Amin dispiega una sorprendente, profonda, ricca conoscenza delle dinamiche filosofiche e culturali dell’ellenismo e poi delle “tre religioni del Libro” (appunto ebraismo, cristianesimo e islam). In più, a proposito dell’islam, agevolato com’è dall’accesso diretto in lingua araba all’ampia letteratura primaria e secondaria.

L’autore procede a una efficace relativizzazione storica delle pretese radici giudaico-cristiane e greche dell’Europa.

Essendo manifestamente il cristianesimo, dottrina-religione e movimento reale, tipicamente “orientale”. Almeno fino al 1000 d. C. Anche dopo che venne elevato a religione di Stato con l’imperatore Teodosio nel 380 d. C. Ed essendo la Grecia margine occidentale dell’Oriente. Ampiamente debitrice la civiltà greca delle civiltà monumentali, egizia, mesopotamiche, fenicia, persiana ecc. L’autore cita Martin Bernal e il suo famoso libro Black Athena e il fatto che metà del lessico della lingua greca ha origini egizie e fenicie.

XVIII.

L’eurocentrismo, del pari, è un culturalismo. È speculare ai culturalismi delle periferie. Il capitalismo si accompagna alla modernità e agli sviluppi culturali dal Rinascimento all’Illuminismo e alla rivoluzione francese. L’assunto è l’affrancarsi dalla “alienazione metafisica”, con la ferma consapevolezza, un pregiudizio laico e razionale, che l’individuo è artefice del proprio destino, è colui che fa la storia.

Modernità, democrazia, progresso, sviluppo materiale e civile ecc. sostanziano il pregiudizio primigenio della “superiorità bianca” dell’europeo, e dell’occidentale in generale. Nel colonialismo e nell’imperialismo classici era normale parlare di razze e culture “superiori” e di razze e culture “inferiori”. Oggi, argomenta Amin, un discorso apertamente razzista non è così esplicito, tranne che in certi movimenti e in certi partiti politici occidentali. L’assunto è piuttosto implicito e la categoria di eurocentrismo è sempre all’opera.

Si parla di “differenza culturale”. In un’intervista, alcuni mesi prima della scomparsa nell’agosto 2018, disse “Gli europei rimangono persuasi che il loro modo di vita è differente e superiore”.

L’universalismo proclamato dalla modernità, dal Rinascimento all’illuminismo, alla rivoluzione francese, in realtà è un universalismo monco, troncato, dal momento che al contempo si proclama la “superiorità bianca”, europea e occidentale.

La sfida per i movimenti antisistemici, per i popoli delle periferie del mondo, risiede nella possibilità che, nel proprio fondarsi sulla identità, sul recupero della propria storia e della propria cultura, come risposta, come resistenza, rispetto al tentativo della omogeneizzazione-omologazione, e in definitiva negazione, da parte dei dominanti, non rappresenti tutto ciò chiusura ed esclusione identitaria, bensì rappresenti apertura universalistica, includente e non escludente.

XIX.

Samir Amin rientra nella generale corrente, tra Ottocento e Novecento, dello “ottimismo storico”. Una forza e una dinamica necessarie che hanno sospinto potenti movimenti, potenti masse umane, hanno consentito potenti resistenze, grandi trasformazioni, rivoluzioni riuscite o fallite, importanti riforme, grandi conquiste sociali e politiche di varia natura ecc.

Oggi, alla luce dell’esperienza storica e in questo contesto di crisi generalizzata delle forze antisistema, abbiamo qualche difficoltà ad accogliere le posizioni di Amin a proposito del capitalismo “obsoleto”, “senile”, “parentesi della storia” ecc. Eppure ci sono esponenti non marxisti, valenti studiosi, che parlano di “postcapitalismo”, com’è proprio il titolo del libro di Paul Mason.

La fiducia e il fermo convincimento in Amin secondo cui c’è sempre una via d’uscita, c’è sempre un orizzonte, la storia non è finita, erano tuttavia contagiosi. Com’erano contagiosi il suo costante equilibrio e il suo costante buon umore, il suo istintivo impulso a confrontarsi sempre, con il colto e con lo sprovveduto, con il giovane militante inesperto e con il vecchio attivista, carico di esperienza, senza differenza.

Il capitalismo ha contribuito fortemente a sviluppare le capacità umane (scienza, tecnica, specialismi, macchine, mezzi di produzione, “forze produttive” in generale). E questo è importante, sempre comunque ricordando lo sviluppo apportato dalle tante civiltà extraeuropee della storia globale. In gioco però è soprattutto lo sviluppo della personalità umana. Vale a dire l’etica, le qualità umane di relazione, la cultura, l’apertura mentale e morale ecc. La lotta per il socialismo, oltre al cambiamento economico-sociale, strutturale, come si diceva, è anche questo. Samir Amin rappresenta una personalità di questo tipo, nella processualità storico-collettiva e nella processualità individuale.

Di sé diceva che il suo posto lo considerava sempre nel terzo mondo africano e arabo. E ne era fiero. Eppure era anche figlio dell’illuminismo, della grande tradizione rivoluzionaria francese. Da parte di madre, aveva antenati giacobini della rivoluzione del 1789. Da parte della moglie Isabelle, tra gli antenati, c’era Camille Desmoulins, l’avvocato rivoluzionario che arringò la folla per dare l’assalto alla Bastiglia, inizio della rivoluzione.

Benché fermamente convinto della succitata “vocazione terzomondista del marxismo”, tuttavia egli ha disposto, proprio come segno del suo essere fino in fondo internazionalista, nella necessaria visione universalistica del marxismo e del comunismo, che alla sua morte venisse inumato al cimitero Père Lachaise di Parigi. Accanto alle tombe degli eroici combattenti della Comune di Parigi e alle tombe dei volontari delle Brigate Internazionali della guerra civile spagnola.

Una degna sepoltura a conclusione di una vita piena, ricca, intensa. Una vita degna di essere vissuta.

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