Ora possiamo dunque dirlo con chiarezza: Battisti è un piccolo uomo, forse uno scrittore – comunque mediocre. Il suo gruppo armato, negli anni ’70, è stato uno dei più indifendibili; autore di azioni che, sparate ideologiche a parte, non trovavano senso politico neppure in quegli anni. Figuriamoci a 40 anni di distanza. Da esule, ha sempre anteposto se stesso alla “comunità” degli esuli, comportandosi al contrario di Oreste Scalzone e tanti altri.
Detto semplicemente: è un essere umano che per fortuna non abbiamo mai avuto la sventura di frequentare.
In ogni caso: ora è un uomo libero ed è giusto che lo sia.
Per chi non lo sa (e in Italia non lo sa nessuno, visto che la stampa si guarda bene dall’entrare nei dettagli, preferendo i “titoli forti” e i pugni al cervello): in qualsiasi paese si rifiuta l’estradizione se la pena prevista dal richiedente è superiore a quella in vigore in casa. Esempio: l’Italia, giustamente, non estrada (o non dovrebbe farlo) verso paesi in cui per quel reato è prevista la pena di morte.
Le grida che salgono da una classe politica decisamente ipocrita, se fossero sincere, implicherebbero quasi una dichiarazione di guerra contro il Brasile. Naturalmente si tratta solo di occupazione dello spazio mediatico ad uso interno. Ognuno sa – a destra come nel centrosinistra degli orrori – che sul piano internazionale la posizione che va per la maggiore in Italia non può avere cittadinanza.
La tesi si riduce a questo: Battisti è un “terrorista”, ha ucciso quattro persone, non ha scontato per intero la nostra condanna, dovete ridarcelo.
Di combattenti – e anche “terroristi” – è pieno il mondo. Molti sono diventati capi di stato (il defunto Menachem Begin, ex capo dell’Irgun, in Israele, per esempio); la quasi totalità è rientrata nella vita normale, in patria o in altri paesi. In pochi stanno invecchiando in esili da sfigati o marcendo in prigioni molto diverse, sotto regimi anche contrapposti. Il destino che tocca ai combattenti, a guerra finita, copre quasi l’intero arco delle possibilità umane. Ma ovunque – una volta che la guerra sia finita – si smette di perseguire gli sconfitti. Se non per i casi di “delitti contro l’umanità”; una dizione che si è molto dilatata negli ultimi 20 anni, fino a diventare un’arma in più per il neocolonialismo travestito da “ingerenza umanitaria”. Ma che, in ogni caso, proprio non può arrivare a comprendere la guerriglia; se non altro per la povertà di mezzi di cui in genere dispone.
E’ accaduto anche in Italia; con i fascisti, addirittura, dopo la Resistenza; e nessuno li ha perseguiti per non aver rispettato i patti (non “ricostituire il partito fascista”, in primo luogo).
Ma – sempre in Italia – lo stesso non è avvenuto con la lotta armata di sinistra.
Per quale ragione?
Solo nel nostro paese la guerriglia – negli anni ‘70 fenomeno comune a tutti i continenti e tutti i paesi, Stati Uniti compresi (Weathermen, simbionesi, Black Panther) – non è stata riconosciuta per quel che era: un normale movimento rivoluzionario.
Solo in Italia, si è imposta una “verità politica ufficiale” che faceva palesemente a cazzotti persino con la verità giudiziaria, fino a negare ogni “politicità” alla lotta armata e ai suoi protagonisti. Creando il curioso caso storico (un unicum) di un ventennio – in un solo paese tra i tanti che provavano in contemporanea l’identica febbre – attraversato da migliaia di combattenti ufficialmente “senza causa e senza ragioni”.
Solo in Italia, del resto, c’è stato un Partito Comunista “di lotta e di governo”, a lungo – e in anni decisivi – in bilico tra tensione al cambiamento radicale e propensione all’accomodamento subalterno.
Solo in Italia, dunque, c’è stata una repressione del fenomeno che è ricorsa ai dispositivi eccezionali “d’emergenza” (tortura compresa) qualificati comunque come “pienamente democratici” e come tali mantenuti in vigore anche al di là del tempo del conflitto.
Solo in Italia abbiamo avuto un “ex comunista” (del Pci, sia chiaro) che, dopo aver sostenuto per 20 anni la panzana del “doppio Stato”, ha ricoperto la carica di ministro dell’interno senza consegnare al paese – in tre anni – neppure un documento minore sulla strategia delle stragi e sul coinvolgimento diretto dei servizi segreti italiani e statunitensi. Fino all’inarrivabile paradosso di diventare “capo” di uno Stato sempre “doppio”, per la pubblicistica d’area, ma “unitario” sotto la sua copertura.
Solo in Italia si usa la più che monitorata pattuglia di “esuli” all’estero come “riserva di caccia” in cui andare a scadenza regolare a “catturarne” uno per far vedere a un paese ottenebrato che “questo è un governo del fare, non stiamo mica qui a pettinar le bambole”.
Un paese speciale, fatto di leggi speciali, di carceri speciali, di tribunali speciali(zzati), barricato dietro una “magistratura in prima linea” (fin quando, esaurita la bisogna, non s’è occupata d’altro) e un apparato mediatico giustificazionista e falsario (i “servi liberi e forti” non sono un incidente, ma la norma).
Un paese ridicolo e reazionario, incapace di fare i conti col proprio passato e quindi sempre di nuovo sull’orlo della guerra civile. Che crea e osanna personaggi inqualificabili, e dunque si merita d’esser svillaneggiato da un Berlusconi, un La Russa o un Cicchitto.
Quel che qui appare “normale” è semplicemente abnorme in ogni altro paese a democrazia liberale. Soprattutto in quelli – come la Francia o il Brasile del dopo-dittatura – che hanno dovuto e saputo fare i conti, anche sul piano giuridico-istituzionale, con la gestione dei conflitti interni. Piccoli o grandi che siano.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa