Rappresentanza politica, sovranità economica e conflitto sociale verso un Mediterraneo dei “non-sottomessi” alla UE
Sembra che Guido Carli, uno degli “architetti” italiani del trattato di Maastricht insieme a Tommaso Padoa Schioppa, tornando a Roma da quella fino ad allora ignota località dell’Europa settentrionale, nei primi di febbraio del 1992 avesse affermato riferendosi al Trattato: “nessuno in Italia è consapevole degli effetti che avrà nel nostro Paese”.
A più di 25 anni da quella data la consapevolezza di tali conseguenze è nota ai più, almeno tra le classi popolari, che anche nell’appuntamento elettorale del 4 marzo hanno confermato di recarsi alle urne con l’unico fine di votare per vendetta, pensando di mandare a casa quelle formazioni legittimamente percepite come corresponsabili della propria disgraziata condizione, nonché fedeli interpreti della politica dell’Unione Europea considerata responsabile ultima di tale situazione.
Ma se il senso comune nel nostro blocco sociale di riferimento ha delle legittime certezze – al di là delle forze politiche che ha scelto per incanalare il proprio voto anti-sistemico e che sono divenute transitorie depositarie delle proprie aspettative di cambiamento, come “ultima spiaggia” nel panorama politico istituzionale – altrettanto non si può dire del ceto politico residuale della sinistra. Non pago della batosta che indirettamente “il popolo” ha voluto dare alla sinistra tutta – di cui è una vittima “collaterale” – è ancora prudente nel parlare dell’Unione Europea come centro gravitazionale delle scelte politiche continentali che determinano, volenti o nolenti, i passaggi della nostra agenda politica a venire.
Eppure, le caratteristiche del “vincolo esterno” imposto dagli stessi attori italiani del Trattato di Maastricht – ben oltre le necessità dell’Unione Monetaria – come strumento principe per condizionare la classe politica dirigenziale a venire, svuotandone di fatto le possibilità decisionali, erano state messo in evidenza già ai tempi anche da economisti non sospettabili di simpatie radicali come Paul Krugman, come tra l’altro ci ricorda l’attuale inteso dibattito politico padronale sulla “sfida europea”.
Di lì a poco, 10 giorni per la precisione, da quel fatidico 7 febbraio ebbe inizio la stagione di “Mani Pulite” ed il Governo del socialista Amato (“incredibilmente” illeso dallo tsunami giudiziario) si incaricò di dare un segno di discontinuità, in termini di materia di politica economica, ma non solo, con la governance precedente – tra cui la manovra monstre di 92.000 miliardi delle vecchie lire – inaugurando un nuovo corso che ha caratterizzato tutto il periodo della cosiddetta “Seconda Repubblica”. Un corso che è probabilmente terminato il 4 marzo scorso con la polverizzazione di quei soggetti politici che alternativamente avevano guidato fino ad ora questo processo.
Da lì in poi, i “salti” imposti dall’Unione Europea, per tappe successive, sono stati caratterizzati da momenti in cui la torsione autoritaria nei processi decisionali, le politiche di austerity e la repressione tout court, si sono accompagnati all’affidamento di volta in volta a “nuovi campioni” politici, o a nuove configurazioni, investite dalla mission di avanzamento del processo, travestiti – con narrazioni differenti – da attori in grado di incanalare l’aspettativa di cambiamento.
Le oligarchie ordo-liberiste europee si sono fatte carico ogni volta di “suicidi politici” eccellenti e della creazione di formazioni ad hoc per guidare il processo, secondo una spregiudicatezza nel sacrificare i propri campioni nazionali pari solo alla rigidità con cui hanno imposto i propri Diktat.
Esempi eccellenti di questo rituale sono stati: Hollande nella sua “battaglia” per far approvare la Loi Travail in Francia, Renzi nella sua “lotta” per lo stravolgimento della Costituzione in Italia, la socialdemocrazia tedesca nel suo doversi piegare alla creazione della Grosse Koalition, e i conservatori britannici nella loro crisi difficilmente reversibile di fronte alla spaccatura relativa al referendum sulla Brexit.
Allo stesso tempo abbiamo visto la nascita di “En Marche” in Francia con Macron, di Ciudadanos in Spagna – cioè di quella “Podemos di destra” auspicata da un direttore di un grosso istituto di credito iberico – del ritorno in auge di Tony Blair, fatto riemergere dalle oligarchie europee per rimettere in discussione la scelta della Brexit.
L’ingegneria politica made in Ue ha dato prova di notevoli capacità plastiche, e pensiamo che il caso italiano non farà eccezione.
La fitta agenda degli impegni UE da qui all’estate, così come risulta dall’incontro tra Gentiloni e Junker della settimana scorsa, dovrebbe dirci qualcosa, soprattutto rispetto all’enfasi con cui l’euro-burocrate dava fiducia ai decision makers italiani; nel caso, Mattarella.
Riprendiamo l’elenco così come è stato citato in un articolo uscito sul Sole24Ore, del 23 marzo, che dava conto del sovra-citato incontro al vertice: conti pubblici italiani, “manovrina”, il prossimo bilancio UE, il completamento dell’Unione Bancaria, la “riforma” dell’Eurozona, migranti e la modifica del trattato di Dublino, la Brexit, le nomine nei prossimi 12-18 mesi della commissioni, le elezioni del parlamento europeo, il “dopo Draghi” dell’ottobre 2019.
Non sembra peregrino pensare che “le armi di distrazioni di massa”, alla luce dell’attuale dibattito tra gli attivisti in rapporto con quello del “mondo di sopra”, stiano preventivamente depistando anche “a sinistra” la coscienza di chi dovrebbe concentrarsi sui prossimi delitti che i serial killer in doppio petto della UE si apprestano a perpetrare.
Tra le aspettative di cambiamento di chi ha votato Lega e Movimento 5 Stelle non c’è solo l’abolizione delle leggi che agli occhi dei più hanno incarnato il peggioramento delle proprie garanzie sociali, ovvero il “Job Act” e la Legge Fornero, ma il recupero di una “sovranità economica” attraverso una capacità di ripristino della “sovranità politica” svuotata dai decision makers di Bruxelles e Francoforte.
Essendo impossibile la realizzazione di questa aspettativa dentro la Gabbia dell’Unione Europea, diventa di vitale necessità ragionare sulla cornice in cui inscrivere questa radicale trasformazione del “Sistema Paese”, in sintesi la profondità strategica della spinta di cambiamento in questo senso, in contrapposizione alle fantasiose speculazioni di “razionalizzazione” della spesa, con ridefinizioni contabili con gioco a somma zero, dentro le compatibilità europee che propone “la nuova” classe dirigente di “pentastellati” e leghisti.
Detto questo, occorre prima di tutto “scalfire” la rappresentazione che le forze politiche impegnate a formare la coalizione governativa tendono a dare dell’aspettativa di cambiamento (insieme al blocco sociale dominante), paventando una agenda politica che può sostanziarsi sotto le vesti della “novità”, ma in realtà in perfetta continuità con le politiche fino ad ora intraprese.
Se così accadesse, l’output politico del voto di Marzo si risolverebbe in una grandiosa operazione di ricreazione di consenso nei confronti di una classe dirigente assolutamente delegittimata agli occhi dei ceti popolari.
Ma sappiamo che la bolla del credito di fiducia, ricevuta da questi “nuovi protagonisti”, avrà vita breve e scoppierà…
Questo dovrebbe essere al centro della riflessione politica, tenendo conto che ad un “frattura” reale del Paese viene fornita una rappresentazione del tutto funzionale alle esigenze materiali e alle necessità ideologiche delle classi dominanti, declinando le risposte in un allentamento della pressione fiscale al nord per le imprese – come se ammortamenti, super-ammortamenti, decontribuzioni, e varie forme di regalie alle aziende non fossero già il pane quotidiano delle politiche statali – e di un reddito di cittadinanza che si inserirebbe alla perfezione nelle politiche di welfare to work, o più prosaicamente di lavoro coatto, che già riguardano le famiglie “beneficiarie” – qualora ci siano le risorse – delle misure di contenimento della povertà recentemente approvate.
Come sopra, le cifre della spaccatura del Paese sono reali: un milione e settecentomila persone sono emigrate dal Sud negli ultimi 15 anni, di queste più di 700.000 non hanno fatto ritorno, ¾ degli emigrati sono giovani dai 15 ai 34 anni e circa un terzo sono laureati.
Un dissanguamento che in una situazione di calo demografico è un fattore di forte criticità per una possibile inversione di tendenza.
Chi lavora “in regola” ha al Sud una mensilità in meno rispetto al Nord, con un differenziale salariale di circa il 16% per gli impiegati e di più del 9% per gli operai, con contratti di secondo livello assenti al Sud mentre al Nord servono sempre più ad integrare quei servizi sociali ormai privatizzati o in via di privatizzazione (salute, assicurazione, pensione…).
In questo contesto la questione sociale rispetto al welfare si pone in questi termini: accessibili a pagamento per una porzione di operai del nord, di impossibile accesso per una larga fetta delle popolazioni al Sud, come nelle aree periferiche delle grandi città o generalmente per le zone impoverite del Paese.
Un divario per cui solo il 10% dei soldi andati all’industria 4.0 sono andati al Sud, nel mentre il nuovo modello di sviluppo sembra avere come perno le Zone Economiche Speciali (le aree portuali di Napoli e Gioia Tauro dovrebbero essere i primi banchi di prova) e il “Fondo Imprese Sud”, a colpi di crediti d’imposta e di altre meravigliose opportunità a “costo zero” per i padroni, senza che il modello delle 19 aree di crisi industriali complesse (concentrate più che altro al centro sud) abbia minimamente risolto i problemi, soprattutto occupazionali; per non parlare dei più di 120.000 lavoratori di aziende (una buona parte medio-grandi) le cui vertenze sono in mano al CIPE e che non sembrano avere sbocchi, se non per le speculazioni dei grandi player della somministrazione di manodopera, divenuti ormai plenipotenziari nell’intermediazione di forza-lavoro.
Nei distretti industriali del Nord, i territori sono interessati da profonde trasformazioni produttive della piccola-media industria secondo i paradigmi produttivi dell’Industria 4.0, dove i tassi di produttività talvolta sfiorano i livelli nipponici. Un tessuto economico complessivo che si sta riconfigurando secondo un processo di integrazione “verticale”, dall’alto della catena produttiva della locomotiva franco-tedesca verso il basso del territorio italiano del Nord, che si assesta fino ad una ipotetica nuova “Linea Gotica”, che è il confine fisico della filiera economica core dell’Unione Europea.
In questi territori si approfondirà un processo di ri-concentrazione della ricchezza nelle mani di quei soggetti che saranno in grado di assicurare quel mix di ricerca scientifica, innovazione tecnologica, organizzazione aziendale ed accesso al credito, “facendo sistema” e lasciando al ruolo di vittime – tra desertificazione industriale e impoverimento dei ceti medi – coloro che le politiche della UE stanno designando come tali.
In questo contesto, non bisogna trascurare gli effetti che la disoccupazione tecnologica porterà con sé insieme al restringimento del credito prossimo venturo (fine graduale del quantitave easing e “soluzione” dei crediti deteriorati, Non Performing Loans) per quell’importante fetta di popolazione indebitatasi con le banche e sempre più nella cronica impossibilità di onorare il debito.
In sintesi possiamo convenire – invertendo “maggioranza” in “minoranza” – con ciò che afferma Giuseppe Berta dalle colonne del Sole 24 Ore: “La Governabilità dell’Italia non è soltanto messa a rischio da dinamiche della rappresentanza politica che stanno subendo un’accelerazione vertiginosa. Dipende in misura crescente dal venir meno dei legami di integrazione tra la componente maggioritaria del Paese (che appunto, sembra dar forma almeno embrionale a un modello italiano) e l’altra, quella meridionale e minoritaria, che sta divenendo il luogo di massima condensazione dell’intero ventaglio delle nostre contraddizioni”.
E’ su quelle contraddizioni che bisogna essere in grado di organizzare il conflitto, costruire il blocco sociale, riaffermare una capacità di rappresentazione politica che ristabilisca una reale sovranità economica in una prospettiva che sappia dialogare con “i non sottomessi” delle varie sponde del Mediterraneo.
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Angelo
Sono d’accordo, ma come realizzare processi di mobilitazioni realmente di massa, generali, totali e soprattutto con ricadute effettive? A loro tempo, con il movimento effimero dei forconi e degli autotrasportatori, avemmo una chiara dimostrazione che solo lo sciopero della logistica ebbe risultati quasi immediati, figurarsi uno sciopero generale a modello di quelli che si facevano una volta, agli inizi del Novecento. Bisogna convincere i “sottomessi”, i “lavoratori esterni”, i “sottosviluppati dell’Europa”, che non hanno nulla da perdere e tutto da guadagnare! I lavori sottopagati e saltuari non devono spingerci alla docilità, al fine di salvare quel poco che si riesce a rimediare quotidianamente. Tutto può cambiare da tante rivolte di Reggio Calabria, ma questa volta andrebbero disciplinate e organizzate da un’unica linea politica, quella dei mezzogiorni per una Nuova Alba? Poche parole chiare e semplici in grado di unire in un unico legame equivalenziale più domande sociali: integrazione e sviluppo sostenibile. Si é troppo schiavi dei pregiudizi e delle fisime che le oligarchie ci hanno psichicamente introiettato per anni: la politica è corrotta, il partito è una burocratizzazione, i capi politici sono padri primordiali da cui rifuggire, la violenza in tutte le forme e le modalità previste sono da rifuggire. Siamo convinti che le manifestazioni di Gandhi non furono violente? Immobilizzare un paese per spingerlo a ristrutturarsi intorno a una nuova progetto politico non è violenza di massa? Certamente, ma sarebbe una violenza organizzata e intelligente, politicizzata, finalmente efficace se unisse federalmente gli individui dei diversi movimenti in una disciplina politica volta a una comune emancipazione. Continuare a dividerci dietro il mito partito-male e movimento-bene ci portera ancora una volta all’inconcludenza. Omogeneizzare le masse non vuol dire spegnere le differenze ma porle insieme produttivamente, in modo tale che le differenze non si rivelino come divisioni e frammentazione. Basta con cortei che si lasciano picchiare e disperdere come nelle piazze di Barcellona! C’è bisogno di piazze irrefrenabili, di folle senza passi indietro, di assembramenti che se non picchiano devono disarmare, devono spingere le forze della violenza legale ad aver timore di estrarre addirittura il manganello dalla cintura, e devono invitare con una presenza forte i palazzi ad aver premura di fare ciò che è divenuto necessario: emancipare i selvaggi dell’Europa, se no fine dei giochi.