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“il manifesto”, un giornale dalla bussola incerta

 

Come i nostri lettori sanno, riportiamo spesso gli articoli da “il manifesto”. Anche se spesso non ci troviamo d’accordo, molti pezzi sono comunque stimolanti.

Ci dispiace quindi dover sottolineare come – proprio sulla questione politica fondamentale: la natura del governo Monti – questo storico giornale stia perdendo grinta e acume. Accanto a servizi che evidenziano la logica “eversiva” degli atteggiamenti di alcuni ministri, del premier o persino di Napolitano (eccellente l’analisi in punta di Costituzione fatta da Gianni Ferrara, pochi giorni fa), ce ne sono altri noiosamente sdraiati sulle necessità contingenti di questo o quel politico; quasi sempre del Pd, al massimo di Vendola.

L’editorale di oggi a firma Andrea Fabozzi mette in chiaro l’anima “minimalista” e retrò dei redattori di terza generazione.

Cuore del pezzo avrebbe dovuto essere la battuta più pesante pronuciata di Monti in quel di Corea: “Se il Paese, attraverso le sue forze sociali e politiche, non si sente pronto a quello che secondo noi è un buon lavoro, non chiederemo certo di continuare per arrivare a una certa data”. Un aut aut giustamente interpretato come tale da tutto il mondo politico e mediatico, che non ha comunque evidenziato l’enormità aberrante di un premier che si pone platealmente al di sopra del paese che dovrebbe rappresentare. Che un governante debba “dirigere” e non “seguire” il senso comune è ovvio; che dispensi apertamente disprezzo per il “suo popolo”, invece, è una novità. Orrenda.

 

Curiosamente, Fabozzi preferisce invece giocarsi tutto sul parallelo con Andreotti e la nota alternativa tra il “tirare a campare o tirare le cuoia”, che Monti aveva citato per rifiutarla in radice, come summa filosofica di un modo di governare navigando a vista. E sfiora appena la linea ad alta tensione dell’”antipolitica di palazzo” – che Monti e Fornero praticano in dosi massicce – sempre a un passo dal precipitare in eversione pura e semplice.

“Così Monti, che non sarà Andreotti ma un po’ democristiano è stato, alla fine deve recuperare proprio il manuale di navigazione nella palude parlamentare. Minaccia clamorosi abbandoni, ragiona sulla successione a nuovi incarichi, mercanteggia una riforma epocale per un cda della Rai. Ieri è tornato persino il vecchio «vertice di maggioranza». È già questa l’unica «tecnica» con la quale il governo può tirare a campare fino al 2013”.

Sul piano concettuale, ricondurre Monti a un Andreotti del nuovo millennio è operazione povera, un “ricondurre l’ignoto al noto”. Un sottovalutare, o non vedere proprio, la novità senza precedenti che questo esecutivo rappresenta. Sia per come è stato fatto nascere, sia per il suo programma, palesemente “scritto altrove” e “imposto qui”. Anche a dispetto di molti (non tutti) interessi costituiti.

Sottolineare i compromessi – col Vaticano, con le banche, con Berlusconi sul “salvacondotto giudiziario”, ecc – è sempre utile, perché segnala le debolezze di un esecutivo privo di base sociale, a volte distonico persino rispetto a Confindustria. E certo il “vertice di maggioranza” è scadenza che sembra riproporre i volti di un Mastella o uno Scilipoti.

Ma ogni analogia nasconde una differenza che spesso è essenziale. Questo governo ha bisogno del voto parlamentare, ma non ne dipende. Il rapporto tra esecutivo e “partiti” è totalmente asimmetrico in termini di potere. Il primo è e si concepisce come “la cura” elaborata altrove, i secondi sono parte integrante della “malattia”. Non si dà, dentro il cerchio magico dei poteri europei e dei mercati, un’alternativa che non sia sanguinosa; innalzamento dello spread, spettro del default e sommovimenti sociali ingovernabili sarebbero dietro l’angolo. “Volete questo?”, dice Monti. “Se sì, ce andiamo subito”. È retorica, naturalmente; è scontato che proprio tutti i partiti presenti in Parlamento correrebbero a trattenerlo camminando sulle ginocchia.

Ci sarà pure un “vertice di maggioranza”, allora. Ma per ricondurre i partiti all’ordine, non viceversa. Anzi. Il partito da rimettere a posto è in fondo soltanto uno: il povero Pd. Che ci sembra sia l’unica preoccupazione vera di Fabozzi, purtroppo per “il manifesto”

 

 

 

 

 

 

L’Andreotti tecnico

Andrea Fabozzi

Sinceri democratici, quando illustrano le virtù del governo Monti, mettono al primo posto l’averci liberato dalla «cappa» del berlusconismo. La parola è cappa. Tre mesi dopo quella liberazione, mettere in discussione le proposte del governo in materia di lavoro equivale a venire accusati di alto tradimento. Dissentire non si può e non perché dissente una minoranza. Stavolta è contro la maggioranza delle forze sociali e avanza dubbi un bel pezzo del parlamento. Nell’ideologia del montismo, però, queste sono vecchie e superate abitudini. Il coro degli apologeti amplifica la stessa musica, sulla nota dell’emergenza. O così o, dio non voglia, Monti se ne va. Tolta la cappa è venuta fuori una gabbia.
Ieri Monti ha citato Andreotti spiegando che non tirerà a campare. Del resto è un tecnico cui hanno disegnato il profilo del salvatore della patria. Sempre Andreotti, però, raccomandava di fare attenzione alla cattiveria dei buoni. Consiglio utile. Adesso, a chi le chiede di correggersi, Elsa Fornero risponde «non distribuisco caramelle». Perché quella è roba «da politici», spiega la ministra con argomento tipicamente grillino – nel senso del comico, non del viceministro dell’economia. Così Monti, con la Corea sullo sfondo, si fa venire il dubbio che sia il paese, il nostro, a non essere ancora pronto per lui.

Il messaggio non è nuovo, diventa solo più duro mano a mano che ci si inoltra in questa gestione tecno-emergenziale della crisi. Dal primo giorno in parlamento Monti si è rivolto ai partiti con il «voi». Ha argomentato che «loro», i tecnici – cioè i più importanti banchieri, avvocati d’affari, consulenti della pubblica amministrazione, presidenti di Authority e di commissioni ministeriali, collaboratori di un certo numero di governi – non avevano alcuna responsabilità per la situazione disastrosa del paese. Ieri ha insistito, ricorrendo anche a qualcosa di simile a un sondaggio sullo «scarso gradimento» degli eletti dal popolo.
Eppure non è un segnale di forza se dopo tre mesi il presidente del Consiglio ha in tasca ancora e soltanto questo argomento. Evidentemente è in difficoltà, altri sondaggi lo testimonierebbero, Monti deve alzare la voce. Non gli basta più il consenso operoso di cui gode, consenso che va dal Quirinale al direttore del primo giornale italiano che non trova disdicevole discutere a cena, a casa del primo ministro e con il presidente del senato, come sveltire l’iter del pacchetto lavoro in parlamento.
Ma l’antipolitica esercitata dal palazzo non è cosa che possa durare a lungo. A meno che non lo si voglia coerentemente trasformare in eversione. Così Monti, che non sarà Andreotti ma un po’ democristiano è stato, alla fine deve recuperare proprio il manuale di navigazione nella palude parlamentare. Minaccia clamorosi abbandoni, ragiona sulla successione a nuovi incarichi, mercanteggia una riforma epocale per un cda della Rai. Ieri è tornato persino il vecchio «vertice di maggioranza». È già questa l’unica «tecnica» con la quale il governo può tirare a campare fino al 2013. A tirare le cuoia saranno altri.

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