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Crisi economica e lotta per il reddito. Dove sono i veri privilegi?

Con il prolungarsi e l’accentuarsi della crisi economica, la questione del reddito e della sua distribuzione in questo paese è diventato un tema centrale, un argomento che viene discusso un po’ ovunque.

L’impoverimento progressivamente crescente mette sempre più in luce che il divario esistente tra classi ricche e ceti meno abbienti aumenta a dismisura e ciò provoca una sempre più sdegnata reazione da chi viene sottoposto, dalle misure di “rigore” finanziario del governo, a sacrifici e rinunce sempre più pesanti ed insopportabili.

Già da qualche anno abbiamo sviluppato un ragionamento su questo argomento, una riflessione basata su poche semplici constatazioni, che sono sotto gli occhi di tutti, ma che nonostante la loro evidenza, vengono sottovalutate e spesso, anzi, volutamente ignorate.

Deficit pubblico e rimedi inadeguati.

A detta di chi ci ha governato negli ultimi decenni, anche prima dell’inizio di questa ultima crisi mondiale, il nostro paese soffre di una endemica inadeguatezza delle risorse finanziarie da destinare al “Welfare”, inteso in senso lato;  in altre parole, ciò significa che la società non sarebbe (il condizionale è d’obbligo) in grado di produrre le risorse finanziarie necessarie per i servizi previdenziali, assistenziali, scolastici ecc..

Con una logica perversa e del tutto rovesciata, partendo da questo presupposto (l’insufficienza delle risorse a disposizione) – che tra l’altro risulta anche parecchio discutibile ad un’analisi attenta di alcuni dati – si sviluppa così tutto il percorso “riformatore”, teso non già ad individuare nuove fonti di finanziamento del sistema, ma invece a  ridimensionarne fortemente le prestazioni, fino a quasi annullarle.

Da qui nascono i continui interventi nel tentativo di ridurre la spesa.

Soprattutto sul sistema pensionistico, individuato come la causale di spesa  che sembra pesare di più su tutto il complesso delle finanze pubbliche. Una serie continua ed ininterrotta di riforme che sono sfociate nella ultima di qualche mese fa, che ha portato (o porterà nei prossimi anni) l’età pensionabile ormai molto vicina ai 70 anni.

Ma anche sugli altri sistemi la logica è sempre la stessa, ridurre la spesa eliminando in continuazione servizi ed attività che invece dovrebbero essere considerate irrinunciabili per un paese moderno.

Due prime osservazioni.

  • Ridurre la spesa tagliando le prestazioni (ritardata uscita dal lavoro, riduzione della misura delle pensioni, eliminazione di cattedre, eliminazione di posti letto ecc.) è una logica che si è dimostrata fallimentare: tanto è vero che storicamente le tutte le riforme che si sono succedute, totalmente ispirate a questo principio, non hanno potuto, dopo tutti questi anni, raggiungere l’obiettivo di ridurre il deficit, che anzi è aumentato.
  • L’adeguamento del sistema di welfare di un paese moderno e democratico dovrebbe basarsi sul reperimento di nuove risorse per il suo finanziamento, al fine di ristrutturare i servizi ed adattare le prestazioni alle nuove richieste che scaturiscono dai mutamenti sociali (maggiore incidenza della popolazione anziana e quindi aumento delle esigenze assistenziali e sanitarie, ma anche l’incremento di esigenze formative ed educative dipendenti dallo sviluppo tecnologico e dalle nuove professionalità ad esso correlate ecc.). 

Reperire nuove risorse.

Incentrando il ragionamento sul bilancio del sistema previdenziale, con le nostre precedenti pubblicazioni abbiamo provato a ribaltare la logica irrazionale ed inutile del continuo taglio della spesa, anche di quella fondamentale, ponendoci il problema di come trovare fonti aggiuntive ed utili per sostenere, invece, il suo necessario finanziamento.

Per fare ciò abbiamo eseguito un’analisi non rivolta all’interezza del sistema pensionistico, non come un insieme  omogeneo e indifferenziato, ma rivolgendo una maggiore attenzione alle sue diverse componenti, ben diversificate e caratterizzate da differenze ben marcate.

Di solito non è questo l’approccio usato dagli analisti “ufficiali”, e non è un caso, perché guardare unicamente alle pensioni prese nel loro assieme, con la solita media del pollo, senza considerare le diversità tra le categorie e l’ammontare dei trattamenti che vengono riservati ad esse,  è strumentale ai disegni di destrutturazione del sistema stesso.

Con questo tipo di analisi siamo giunti ad individuare qual è il punto di sofferenza maggiore e che determina l’endemico stato di crisi del sistema previdenziale.

Questa “difficoltà” infatti, non è certo data dall’insieme delle risorse assorbite dai trattamenti delle categorie più numerose e meno remunerate, quelle del lavoro dipendente di livello esecutivo, per essere chiari.

Cifre alla mano, essa si deve senz’altro attribuire, invece, al peso delle prestazioni destinate alle categorie dei quadri dirigenziali, sia nel lavoro privato che nel pubblico impiego, che assorbono risorse largamente sproporzionate rispetto al numero di individui che ad esse appartengono.

Chi assorbe la maggior parte della spesa.

La tabella ed il grafico che seguono sono ricavati dagli ultimi dati diffusi da INPS sulla distribuzione delle pensioni per fasce di importo

Tali dati confermano sicuramente ciò che noi, sulla base di calcoli e stime ragionate, ma non ufficiali, avevamo precedentemente ipotizzato.

La distribuzione percentuale della spesa previdenziale è la seguente:

 

numero pensioni

percentuale spesa

meno di 500€

14,0%

4,65%

500 – 1000€

31,0%

18,01%

1000-1500€

23,5%

23,40%

1500-2000€

14,5%

20,45%

sopra 2000€

16,5%

33,49%

Facendo qualche aggregazione ci accorgiamo che, rispetto alla spesa totale, che ammonta a 258 miliardi e 500 milioni di €., per un totale di 16 milioni e 500 mila pensioni:

  1. 1)Il 45% (7 milioni e 425mila pensioni) che sta sotto i 1000 € assorbe solamente il 22% (58.558.500.000) della spesa totale.
  2. 2)Al contrario, vediamo che le pensioni sopra i 2000 €, pari al 16,5 % del totale, per una spesa di 86.578.250.000 di € assorbono il 33,49% della spesa totale.

I dati ufficiali ci confermano che le stime fatte nei precedenti documenti si avvicinavano molto alla realtà ed anzi probabilmente se avessimo a disposizione gli elementi di dettaglio ci accorgeremmo che i nostri calcoli erano sottostimati.

Perciò le nostre tesi e le nostre proposte, che in quella sede avevamo formulato, vengono rafforzate nella loro validità, per cui riteniamo utile rinnovarle qui, utilizzando i nuovi dati a disposizione per ottenere un calcolo ancora più affidabile delle risorse che sarebbe possibile recuperare.

Le nostre proposte.

Il nostro ragionamento, partendo dal fatto che esiste uno squilibrio di trattamento pensionistico tra i “quadri” dirigenziali di questo paese ed il resto del lavoro dipendente – constatazione come abbiamo visto largamente confermata anche dai dati ufficiali – ci fa considerare come unica strada percorribile per riequilibrare il sistema e allo stesso tempo per riuscire a finanziare agevolmente un sistema di welfare efficace e moderno, quella di intervenire sui trattamenti più alti, ridimensionandoli in una misura più equa.

Come abbiamo già sottolineato nei documenti precedenti questo non vuol dire affatto ridurre sul lastrico improvvisamente chi percepisce le pensioni più alte, ma esclusivamente porre dei limiti, anche piuttosto contenuti, a queste pensioni, che, per il loro importo non trovano alcuna giustificazione, soprattutto se si raffrontano alle pensioni medie continuamente taglieggiate e ridotte.

La nostra proposta si articola essenzialmente in due misure:

  1. 1.istituzione di un tetto massimo per pensioni ed retribuzioni.
  2. 2.istituzione di limiti al cumulo tra pensioni e a quello tra pensioni e redditi di diversa natura (lavoro, rendita ecc.)

Tetto massimo alle pensioni.

Il ragionamento che abbiamo esposto sulle pensioni ci porta a ritenere non solo praticabile, ma necessario riequilibrare i trattamenti istituendo un limite massimo all’importo di pensione erogabile dalla previdenza pubblica.

Gli enti (ma ormai è possibile parlare di INPS come ente unico) potrebbero così reperire le risorse necessarie sia a stabilizzare il loro bilancio che a finanziare misure di sostegno ai redditi più bassi, come ad esempio l’aumento delle pensioni sociali oppure l’istituzione di un reddito di cittadinanza spettante a chi è fuori dal circuito produttivo, perché estromesso (licenziamenti) o perché disoccupato, temporaneamente o definitivamente.

Nei documenti precedenti avevamo stabilito la misura di questo tetto in 5.000 € mensili. Avendo ora a disposizione riferimento ufficiali più precisi, possiamo affinare il calcolo del risparmio ottenibile.

Dai dati INPS sappiamo ora che le pensioni sopra gli 8.000 € sono circa 109.000. Tra queste vi sono naturalmente anche numerose pensioni che superano di parecchio i 10.000 € (molti, come sappiamo, si avvicinano e superano anche i 30.000€ mensili! e su questi, guarda caso, le statistiche ufficiali sorvolano regolarmente), perciò possiamo tranquillamente attestare una media utile per il calcolo sui 9.000 €.

Utilizzando questa media, si ottiene che la spesa annua attuale per queste pensioni di importo alto è, quindi, non meno di 12 miliardi e 700 milioni (9.000 x 109.000).

Se applichiamo il tetto da noi proposto, la spesa scende a circa 7 miliardi (5.000 x 109.000).

Riepiloghiamo visivamente il risultato, evidenziando qual è la differenza di spesa.

 

 

 

Il risparmio ottenibile applicando il tetto alle pensioni è di almeno 5 miliardi di € all’anno.

Si consideri che applicare il tetto di 5000 € a redditi di questa portata non produce un cambiamento sostanziale al tenore di vita di questi soggetti.

Essi infatti appartengono a categorie sociali che, normalmente, praticano attività che li portano a conseguire guadagni e profitti, anche in misura prevalente, da investimenti e rendite aggiuntive rispetto alla pensione; durante la loro vita lavorativa il loro reddito gli da modo di procurarsi agevolmente queste rendite,  garantendosi una vecchiaia agiata a prescindere dal trattamento previdenziale che ricevono.

Tra l’altro essi molto spesso praticano attività di lavoro anche dopo il pensionamento, ricavando ulteriori compensi. Su questo ragioneremo più avanti.

Quindi, sarebbe per essi un “sacrificio” molto relativo la rinuncia ad una parte della pensione, dato che questa non costituisce la parte più importante dei loro introiti. E poi, chi di noi non si “accontenterebbe” di una pensioncina di 5000€ ?

Queste semplici considerazioni potrebbero essere esteso non solo alle pensioni, ma anche alle retribuzioni, con risultati ancora più eclatanti.

Tetto massimo alle retribuzioni.

Se i pensionati sopra gli 8.000 € sono, come abbiamo visto, circa 109.000, possiamo stimare che i soggetti in età di lavoro che percepiscono retribuzioni superiori a questo importo non possono essere meno di  150.000 individui.

Attribuiamo a queste retribuzioni la stessa media di 9.000 € già adoperata per le pensioni.

Il calcolo della spesa per queste retribuzioni, annualmente, ci porta ad un importo di circa 17 miliardi e 500 milioni. Con l’applicazione del tetto anche sulle retribuzioni la spesa scenderebbe a 9 miliardi e 750 milioni, potendo così conseguire un risparmio di poco meno di 8 miliardi.

 

 

 

Sommando il recupero ottenibile con il tetto alle pensioni più alte con quello ottenibile dal tetto alle retribuzioni avremmo un risparmio ingentissimo, sicuramente superiore ai 15 miliardi l’anno.

Limiti al cumulo tra pensioni e altri redditi.

Come ben sanno le persone che godono di una pensione di reversibilità, queste pensioni sono sottoposte ad una serie di sensibili riduzioni quando chi le riceve percepisce già un altro trattamento previdenziale.

Questa regola, però, assurdamente, non viene applicata a tutti.

Come abbiamo avuto modo di analizzare nei documenti precedenti, tutta una folta schiera di persone che ricoprivano funzioni dirigenziali pubbliche e private (come coloro che hanno svolto compiti di alto livello nelle forze armate, nella magistratura, nelle università, nelle strutture sanitarie, nelle aziende bancarie, finanziarie ed assicurative, negli organi di informazione ecc. ecc.), una volta collocati in pensione, si trovano a percepire oltre al trattamento previdenziale, altri redditi.

Questi redditi possono scaturire dalle attività che essi continuano a svolgere, sulla scorta dell’esperienza, dei contatti, delle professionalità acquisite negli anni di lavoro: consulenze, partecipazione e convegni, pubblicazioni e collaborazioni varie. Attività che non appartengono certo a tutti i lavoratori che vanno in pensione, ma che sono evidentemente possibili solo a certe categorie.

In moltissimi casi, questi soggetti percepiscono due o più pensioni, riferibili ad incarichi svolti in diversi enti, società, con diversi compiti e funzioni. Naturalmente, data la loro posizione sociale, con retribuzioni (e quindi pensioni) molto alte.

Un’altra fonte non trascurabile di reddito per questi soggetti, proviene dalla possibilità che hanno avuto di effettuare investimenti ed acquisire rendite di vario genere. Anche questa prerogativa non è propria certo di tutti i pensionati, ma solo di quelli che avevano retribuzioni molto alte, che gli consentivano di destinare parte dei guadagni a questo tipo di impiego. E non è trascurabile neppure la misura delle liquidazioni da centinaia di migliaia (se non di milioni) di € che ricevono al momento della pensione.

Ebbene, queste fonti di reddito, che si cumulano con il reddito da pensione, non sono, nel nostro “equo” sistema, motivo sufficiente per giustificare nessuna riduzione della pensione, come avviene invece prontamente per le misere pensioni di reversibilità.

Questa diversità di trattamento ci appare iniqua ed irrazionale, soprattutto in relazione a tutti i discorsi che si fanno sulla sostenibilità del sistema previdenziale.

Sulla base dei dati INPS ora a disposizione, sappiamo che il numero di trattamenti pensionistici erogati sono 23 milioni e mezzo circa. Lo stesso INPS dichiara contemporaneamente che il numero dei pensionati, come persone fisiche, ammonta invece a 16 milioni e mezzo circa.

Si desume che vi sono, quindi, 7 milioni di trattamenti che vengono percepiti da soggetti che già ricevono un’altra pensione.

Dai dati INPS 2011 ricaviamo che le pensioni di reversibilità sono un po’ meno di 4 milioni. E queste vanno escluse da qualsiasi intervento, perché già sottoposte a riduzione.

Di conseguenza i 3 milioni di pensioni che restano sono doppie, triple o anche quadruple, in capo agli stessi soggetti.

Possiamo dedurre che un buon numero di costoro appartengano alle categorie di pensionati con alti redditi di cui abbiamo parlato, per capirci appartengono al quel 4% che riceve pensioni superiori a 8000 €.

Ipotizziamo che poco meno della metà di questi abbiano altre pensioni, altri compensi, altre rendite. Avremmo come minimo 50.000 persone che usufruiscono di un cumulo tra la pensione ed altri redditi e che potrebbero e dovrebbero essere sottoposte ad una riduzione dell’ammontare della pensione.

Siccome i trattamenti di reversibilità subiscono una riduzione che parte già tagliando la pensioni originaria al 60%, possiamo “divertirci” a calcolare una medesima ipotetica riduzione anche per questo cumulo tra pensioni e tra pensioni e altri redditi.

Avremmo che anche solo riducendo al 60 % la pensione di quei 50.000 di cui parlavamo, la spesa annua passerebbe da quasi 6 miliardi (media pensione di 9000 mensili x 50.000 persone) a poco più di 3 miliardi e mezzo.

Un risparmio che già in questa ipotesi molto minima ammonta a ben 2 miliardi e mezzo annui.

Anche in questo caso è valida la considerazione che una tale riduzione inciderebbe in misura minima sul livello di vita di queste persone. Chi ha un reddito annuo da pensione di 100.000 euro e superiore, che, lo ripetiamo, si accompagna generalmente con altre fonti di guadagno, magari anche più sostanziose (investimenti immobiliari, speculazioni borsistiche ecc.), non risente sicuramente di una riduzione di 30 o 40.000 €, che marginalmente assume una importanza trascurabile.

Alcune considerazioni finali.

Come utilizzare le somme recuperate.

Come abbiamo visto le somme che sarebbe possibile recupera all’uso collettivo con queste misure sono rilevanti.

Esse potrebbero essere accumulate in fondi specifici dall’ente previdenziale pubblico, ai fini della loro destinazione a finalità sociali, a scopi di utilità comune che hanno assunto soprattutto in tempi di crisi economica globale una importanza molto considerevole.

Chi perde temporaneamente o definitivamente il lavoro, chi ha un lavoro saltuario e con un salario insufficiente a mantenere una vita dignitosa, chi ha la volontà di proseguire gli studi ma non ha la possibilità economica per poterlo fare, chi percepisce pensioni al minimo che non garantiscono un tenore di vita sufficiente, chi deve sostenere il peso di situazioni familiari difficili, come ragazzi con handicap o anziani non autosufficienti, chi si trova a combattere con malattie invalidanti o croniche, magari scaturite dal proprio lavoro, che comportano spese per servizi aggiuntivi rispetto al normale, ecc. ecc.: tutte queste categorie ampiamente e continuamente sacrificate sull’altare delle compatibilità e dei limiti dettati dal deficit, potrebbero finalmente trovare adeguato aiuto da forme di sostegno finanziate da questi fondi.

Benefici sull’economia generale.

Ma crediamo che le somme ricavabili siano così rilevanti da poter permettere il rilancio e l’ammodernamento anche di alcuni altri settori, come la scuola e la sanità, ad esempio, che hanno risentito fortemente della logica miope e inutile che vede nei tagli l’unica strada da percorrere per risanare la finanza pubblica.

E non va trascurato che, coerentemente con quello che ormai anche molti analisti non certo rivoluzionari affermano, le risorse così rimesse “in circolo”, cioè sottratte all’accumulazione nelle mani di pochi soggetti, ma restituite ad una platea più ampia di persone, bisognosa di riprendere i propri consumi a partire da quelli primari, produrrebbero indubbi e rimarchevoli effetti benefici sulla situazione economica, rilanciando la domanda interna, con un effetto a catena sui meccanismi produttivi, sulla commercializzazione dei prodotti e sullo stato generale di benessere socialei che nessun altro provvedimento di “austerity” sarebbe in grado di provocare. 

I nostri contributi non ci verranno mai restituiti.

Vi è poi un dato che emerge in contraddizione con la pretesa incidenza dei costi della previdenza su quelli del complesso della macchina pubblica, presa a movente per giustificare tutte le politiche di taglio finora assunte.

Se calcoliamo l’ammontare della contribuzione che il lavoratore dipendente medio versa nel corso della sua vita lavorativa abbiamo che, ad esempio, ad un salario di 20.000 € all’anno corrisponde una contribuzione di circa 260.000 € accumulati alla fine della suo periodo lavorativo.

La pensione calcolata con il sistema più favorevole, quello retributivo – ormai al tramonto – ammonta in questo caso a circa 15.000 euro l’anno. Per poter “ammortizzare” i versamenti effettuati durante gli anni di lavoro, il pensionato dovrà vivere almeno fino a 83 anni. Gli indici internazionali assegnano all’Italia una durata media della vita di 81,4 anni, ben al di sotto di quel limite che è necessario per riavere tutto ciò che si è versato.

Questo “differenziale”, poi, aumenta sensibilmente se si considera la realtà dei trattamenti che saranno erogati nel futuro.

Già con una pensione, calcolata con lo sfavore dato dal sistema contributivo, che ammonti – ottimisticamente – al 60% della retribuzione, per recuperare tutto il montante contributivo versato, il lavoratore dovrà tirare a campare fino ad 87 anni, ben 6 anni più della durata media della vita in Italia.

E si deve tenere conto che questo calcolo è effettuato al lordo delle imposte, non su quanto effettivamente è “spendibile” dal pensionato. Riferendoci al netto un pensionato che percepisca 1200 € lordi, quindi circa 700 € netti, dovrà vivere fino a 94 anni per arrivare a riprendersi, in termini di reddito reale,  i contributi versati !

Da quello che abbiamo calcolato, perciò, con conti sicuramente approssimativi, ma anche difficilmente discutibili nella sostanza, parrebbe che il sistema non restituisca quasi mai ciò che è il capitale versato come montante contributivo.

Come si può sostenere, quindi, che lo stesso sistema, in base a quei montanti versati, non riesce a garantire trattamenti adeguati ?

Queste osservazioni ci inducono a ritenere che i dati che INPS fornisce pubblicamente sono quantomeno insufficienti, perché non danno un raffronto tra quanto l’ente introita come contributi e quanto esso eroga come pensioni. Ciò impedisce – e forse non è casuale – di ricavare un giudizio oggettivo sull’effettività del deficit previdenziale.

Per quel che ci riguarda, restiamo convinti che, in questa fase di perdurante ed acuta crisi del sistema economico, da parte del movimento sia necessario, nel proposito di agire per il superamento di questo sistema proporre una analisi alternativa sull’apparato del welfare, funzionale ad ottenere una ridistribuzione più equa del reddito ed un rilancio dell’economia generale che esca dal pantano delle ristrette compatibilità capitalistiche, riequilibrando l’utilizzo delle risorse finanziarie a vantaggio di fasce maggiori di popolazione. 

In questa direzione si incanalano le nostre proposte, che certamente non sono esaustive, ma che hanno, crediamo, il merito di rendere evidenti, le inique disparità che esistono e di suggerire una possibile linea di condotta e di lotta su questo tema.

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