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Non solo Alice è stata nel paese delle meraviglie

Martedì 5 giugno, invece, chi ha partecipato alla presentazione del libro di Luciano Vasapollo e di don Antonio Tarzia ( “Una settimana a Cuba,con il Papa, Raul, Fidel e molti altri”. Jaca Book, 2012), sul loro recente viaggio a Cuba (che si è tenuta al Rettorato dell’Università degli Studi ‘La Sapienza’ di Roma in presenza del Prorettore Antonello Biagini), ha avuto la possibilità di comprendere bene e (forse) in forma definitiva alcune cose. È stato un viaggio che due amici del popolo cubano hanno fatto insieme, sebbene da due prospettive diverse, in occasione della visita del Papa; una settimana di lavoro che ha permesso loro e, indirettamente a chi legge il libro, di misurarsi con l’approssimazione e, spesso, con la mistificazione dell’informazione europea e italiana in particolare.

La sala era quella prestigiosa del Senato Accademico,era gremita e l’atmosfera seria e carica di aspettative. Lo era per il tema, per le caratteristiche degli autori, un intellettuale marxista ateo e un uomo di Chiesa, ma anche per i giornalisti chiamati a presentare il libro stesso (G. Chiesa, M. Matteuzzi del Manifesto, G. Ciulla della Rai) e per la presenza dell’Ambasciatrice cubana in Italia che ha, in questo modo, riconosciuto la valenza internazionale dell’iniziativa.

La prima cosa che circostanze come questa ricordano a tutti noi è il valore insostituibile della cultura e della formazione pubblica in tutte le sue articolazioni: dalla Scuola Primaria all’Università.

Considerazione questa fatta propria tanto dal Prorettore quanto da Luciano Vasapollo che ha sottolineato con orgoglio sia il suo essere Docente in quella Università  sia l’essere Delegato del Rettore per i rapporti coi Paesi dell’Alba (unica Università in Europa a coltivare questi importanti rapporti scientifici). Che un marxista, fiero e orgoglioso della tradizione culturale e politica cui appartiene, svolga una funzione scientifica di ricerca e una prassi pedagogica nelle istituzioni pubbliche italiane è un patrimonio che va salvaguardato e sul quale investire; come comunisti e come cittadini democratici di questo paese.

Solo qualche giorno prima l’attuale Ministro dell’Istruzione si era reso protagonista di una nuova proposta sulla formazione e l’educazione pubblica nel nostro paese che, dietro il paravento ‘ideologico’ della meritocrazia, sembra andare nella stessa direzione di tutte le altre proposte di cambiamento (ma mai di vera riforma nel senso progressivo del termine) che negli ultimi anni hanno interessato l’immobilistica, ma gloriosa, tradizione dell’istruzione e della ricerca pubblica nel nostro paese.

A volte essere ‘conservatori’ è funzionale all’essere ‘rivoluzionari’: conservatori in senso relativo ma rivoluzionari in senso assoluto, scriveva infatti Engels.

L’importanza d’iniziative come questa va, dunque, ben oltre la presentazione di un libro e il dibattito che ne può derivare; significa tenere alta la guardia, difendere l’istruzione e la formazione pubblica – e, d’altra parte, proprio l’istruzione pubblica (insieme alla sanità) è il fiore all’occhiello di Cuba, del suo Governo e della sua Rivoluzione – perché solo questa può garantire un’effettiva e piena libertà d’ espressione.

Solo un luogo ‘pubblico’ può equamente rappresentare la pluralità dei punti di vista e porsi nell’ottica della promozione culturale e sociale di un paese; per questa ragione opporsi a processi di privatizzazione del sapere, surrettizia o manifesta, è un dovere democratico che gli intellettuali devono praticare, occupando fisicamente e culturalmente tutti gli spazi possibili, senza reticenze, indifferenza o atteggiamenti aventiniani. In ogni interstizio della vita pubblica di un paese (e nell’Italia uscita dalla Resistenza con ancora più vigore), come nel costituirsi di ogni mediazione istituzionale è presente e riconoscibile il contributo di lotte e d’intelligenza che il movimento comunista ha potuto determinare. Questo vuol dire anche che, dalla Costituzione repubblicana, democratica e antifascista, alla sedimentazione istituzionale e nei luoghi di lavoro o nella legislazione ordinaria, il contributo politico e culturale dei comunisti in questo paese è stato grande e importante; ma questo, per converso, vuol dire anche che davanti allo sfacelo del tessuto democratico, allo sfilacciamento sociale e alla permeabilità culturale e ideologica dell’oggi, egualmente grande ne è la responsabilità.

Sarà forse un caso che gli unici partiti comunisti europei che sono oggi all’altezza dei punti posti all’ordine del giorno, sono quelli che a suo tempo rimasero sobri durante la sbornia dell’eurocomunismo? 

Permeabilità culturale e ideologica al pensiero dominante che, probabilmente, è stata la linea conduttrice dell’intera serata: chi la denunciava, con diverse sfumature e chi, invece, la mostrava, per subalternità.

Non è stato, allora, casuale che oltre Cuba e le sfide del socialismo del XXI secolo, al centro del dibattito si è collocato il modo in cui i media raccontano la realtà: le parole e le cose. Così Giulietto Chiesa, per prima cosa, ha voluto prendere le distanze dalla ‘corporazione’ dei giornalisti, mentre G. Ciulla ha sottolineato che, a suo dire, chi mistifica non fa il giornalista. Entrambi, dunque, hanno comunque riconosciuto il problema: l’enorme sproporzione tra i fatti e la loro conoscenza pubblica. Perché il punto è proprio questo: l’appropriazione pubblica dei fatti. Processo complicato – è ovvio – ma necessario: appropriarsene vuol dire interiorizzarli e, dunque, trasformarli, facendoli anche diventare alimento della propria coscienza e del proprio agire.

Il pomeriggio era iniziato con l’intervento di Maurizio Matteuzzi del Manifesto, testata storica della sinistra italiana, e si è concluso con l’intervento di Luciano Vasapollo che, tra le altre cose, ha voluto ricordare come siano stati molto spesso i giornali di ‘sinistra’ a scrivere le maggiori imprecisioni su Cuba. Non è sfuggito, infatti, a nessuno dei presenti come le critiche principali, non tanto al libro, quanto all’operazione politico-culturale nel suo complesso, siano venute ancora una volta proprio da un giornale la cui ‘militanza’ politica è espressa chiaramente (sebbene qualcuno non casualmente negli anni ha provato a cambiare più volte tale ‘dichiarazione’, magari per adeguarlo maggiormente alla realtà della sua funzione e impostazione). Si, perché dopo aver ammiccato all’intrigante parallelismo tra don Camillo e Peppone e aver sostenuto che i due autori si sono mostrati più realisti del re, Matteuzzi ha subito posto l’accento su quella che gli è sembrata la posta in gioco: il prezzo che Cuba può pagare a queste aperture, già dai tempi di Fidel e Giovanni Paolo II, cioè il Papa che sommamente ha contribuito alla sconfitta dei paesi del socialismo reale (possibile).

Ma la storia non ha un fine predeterminato né una fine e, come ricordava G. Chiesa, anche il viaggio di Gorbacev a Cuba, nell’89, poco prima cioè della fine dell’URSS, faceva pensare che anche Cuba sarebbe crollata. Ma è stato un errore pensarlo (per alcuni sperarlo). Anche l’altra perplessità avanzata da Matteuzzi ha rievocato tutta l’ambiguità storica di alcuni marxisti e di alcuni comunisti: quella del rapporto tra pianificazione, economia di mercato e costruzione del socialismo. Il riferimento, in questo caso, è alle Nuove Linee della Programmazione Economica in atto a Cuba da pochi mesi.

Appare superfluo ricordare come ogni processo reale si costruisce attraverso contraddizioni, tentativi di superamento, sconfitte e vittorie. Che dunque nulla vada sempre benissimo e che nessuna realtà sia mai pacificata, sono considerazioni sicuramente ben note ai due autori che, per formazione, si confrontano uno con le contraddizioni e il disequilibrio del Modo di Produzione Capitalista, l’altro con quella tra una dimensione immanente e una trascendente dell’esistenza. 

S’intenda bene però: queste osservazioni non volevano andare nel senso di una maggiore rigidità o presunta ortodossia bolscevica contro il pericolo reazionario rappresentato dalla chiesa e dalla fede nella battaglia per l’egemonia, ma da una prospettiva compiutamente liberale; legittima, ma liberale. Scientemente o meno, infatti, questa è la prospettiva che s’impone oggettivamente ogni qual volta i temi e i problemi della transizione socialista, della lotta di classe interna ed esterna (che non finisce dopo una rivoluzione) e dell’imperialismo, lasciano il posto a un’angolatura ‘interna’ che non si oppone cioè come contraddizione, come motore della trasformazione. Non c’è, vale a dire, una vera ricerca del ‘fuori’, di un luogo ‘altro’ da cui pensare e parlare.

Al fallimento delle società del capitale, oggi, è onesto associare il fallimento pure di tutte quelle forme, sviscerate e non, di accomodamento e di opportunismo che hanno contraddistinto una parte, anche importante, della sinistra italiana ed europea. Il capitale e l’avversario di classe hanno fatto e continuano a fare il loro mestiere, qualcun altro da tempo, ha smesso di fare il proprio, in particolare tra gli ex comunisti ora riappacificati intorno al capitalismo “dal volto umano”.

E a ricordare quanto il marxismo e il movimento comunista internazionale abbiano contribuito a innalzare i livelli di consapevolezza del genere umano nel suo complesso, è bastato un passaggio di un uomo di Chiesa, don Tarzia, che ha difeso, ben oltre il concetto di ‘frontiera’ su cui si è soffermato G. Ciulla, la legittimità della via attualmente intrapresa dai paesi dell’Alba. Perché la conclamata fine dell’eurocentrismo, ormai, non è più una categoria del terzomondismo marxista ma un fatto riconosciuto da tutti. 

Quanto fosse necessario scrivere questo libro è la domanda che si è posto L. Vasapollo nel suo intervento conclusivo. Oltre ovviamente dalla sua risposta, anche a giudicare dal dibattito suscitato sembrerebbe proprio di si, per continuare la battaglia delle idee, come la chiama il Comandante Fidel, per chiarire e affermare cosa voglia dire democrazia, libertà, giustizia o eguaglianza fuori dall’ordine dominante del discorso; e ciò con ancora più forza davanti  all’attuale crisi sistemica, che identifica il fallimento del Modo di Produzione Capitalista nel garantire il massimo sviluppo possibile delle facoltà umane.

Le parole perdute del marxismo vanno infatti riprese, perché il lavoro di sovvertimento della sintassi del pensiero politico dominante è ancora lungi dal finire. E se qualcuno ci ha abbandonati in questo percorso rivoluzionario, la realtà lavora, invece, per noi. Ancora una volta: ben scavato vecchia talpa.

Con buona pace di molti.

* direttore di Contropiano rivista

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1 Commento


  • Ale

    Ben scritto professore

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