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Il proletariato europeo nel vortice dell’austerity

Che gli stati dell’Europa meridionale – simpaticamente chiamati PIGS, cioè “maiali”, dalle tecnocrazie dell’UE – siano in crisi, è cosa ormai nota. Come al solito, l’ottimismo dei governi ha avuto le gambe corte: in Italia si rivedono le cifre del PIL, che nel 2013 scenderà dello 0,6% (dopo che già quest’anno andrà giù del 2,4%); lo stesso si fa in Spagna, che vede il proprio PIL in calo del dell’1,4% invece che dello 0,6% finora pronosticato. Quanto alla Grecia, il suo baratro sembra senza fondo: il Ministro delle Finanze greco ha infatti appena annunciato che, dal 2008 al 2014, la contrazione del PIL è calcolabile intorno al 25%. Non meno preoccupante è la situazione in Portogallo, dove il PIL quest’anno è in calo del 3,3%. In queste condizioni lo spread con i titoli tedeschi ricomincia a salire, e non è più solo la Grecia a essere interessata dai piani di “aiuto”…

Ma queste cifre, che pure fotografano una situazione molto grave, non dicono tutto, anzi: vengono usate per nascondere qualcosa. I media infatti tendono a presentarci gli Stati – Italia, Spagna etc – come entità compatte, come unità nazionali che si siedono al tavolo delle trattative con unità nazionali altrettanto compatte – la Germania, la Francia etc –, come se fossimo ancora all’epoca degli Stati-nazione ottocenteschi e non in un’epoca di globalizzazione, di circolazione mondiale di capitali e di formazione di classi dominanti non più su base nazionale ma internazionale. Cerchiamo quindi di fare un po’ di chiarezza per provare a capire cosa sta succedendo per davvero.

È persino banale dire che gli Stati non sono ordinamenti super partes, ma costruzioni politiche mediante le quali la borghesia afferma il suo potere sulle classi lavoratrici facendolo passare per “volontà generale” e “interesse collettivo”.

Quello che sta succedendo negli ultimi mesi in Europa ce ne dà la conferma. Nonostante i media parlino sempre di “Italia”, per cercare così di far sentire tutti partecipi di un progetto nazionale, addomesticando la popolazione agli imperativi della “responsabilità” e dei “sacrifici”, è evidente che non stiamo assistendo a uno scontro fra diversi paesi, ma a una lotta fra classi sociali a livello continentale. Da un lato c’è una borghesia europea che vuole andare verso la costituzione di un’unione imperialista più forte, più competitiva a livello globale, strutturata intorno all’asse franco-tedesco; dall’altro ci sono pezzi di borghesie ancora legate alla dimensione nazionale (magari marginali da un punto di vista economico, ma ancora rappresentative da un punto di vista politico) e soprattutto una massa sterminata di lavoratori, disoccupati, precari, proletari che non intendono – e comunque non possono – più pagare questa crisi.

In altre parole, all’interno del “normale” sviluppo ineguale fra i paesi capitalisti europei, alcune frazioni della borghesia decidono – per meglio servire i propri interessi, per rafforzare la propria posizione economica e politica all’interno di ciascun paese – di applicare le misure di “austerità” decretate dall’UE, che incarna gli interessi “universali” della borghesia contro i piccoli interessi di bottega delle frazioni borghesi nazionali.

Da questo punto di vista tutti i ritornelli della destra e dei populisti, tutti gli slogan contro la “casta”, dai politici “traditori” e “corrotti”, alle lamentele sulla perduta “sovranità nazionale”, non hanno alcun senso: non perché i politici non siano anche corrotti e traditori del mandato dei cittadini, ma perché in realtà essi eseguono al meglio – nell’Italia di Monti come nella Spagna di Rajoy – gli interessi di quella borghesia da cui dipendono, borghesia che ha bisogno dell’UE per partecipare da una migliore posizione alla “gara” contro i monopoli statunitensi, giapponesi, cinesi, russi etc. Per questo motivo una vera alternativa allo stato di cose esistenti non sta né nelle ridicole proposte di taglio ai “costi della politica”, né nel miracoloso ricorso a “figure nuove”, ma nell’opposizione alle pretese delle classi dominanti, nella rottura con i loro interessi. Perché la crisi non è mai per “tutti”, ma sempre per qualcuno: quelli che hanno bisogno di lavorare per poter sopravvivere.

Che la cosa stia proprio così, lo dimostrano alcune notizie degli ultimi giorni. Il 24 settembre Publico, il principale quotidiano portoghese, apriva con quest’articolo: I salari del lavoratori calano di più di quelli degli imprenditori. In sostanza, per la prima volta da sempre, i salari del lavoratori portoghesi (i salari nominali, cioè la cifra effettivamente ricevuta, non quella calcolata in relazione all’inflazione – rispetto a quella infatti i salari erano già indietro da tempo) calano in termini assoluti, a tutti i gradini della scala sociale, ma in particolar modo nei livelli più bassi – fra gli operai, gli addetti ai servizi, gli impiegati.

Per essere più chiari, se fino a qualche anno fa il contratto di un lavoratore prevedeva per ipotesi un salario di 1.000€ al mese, ora per lo stesso lavoro il dipendente percepisce 980€, con in più l’aggravio di dover pagare l’aumento dei prezzi delle merci dovuto all’inflazione e l’aumento delle tasse imposte dallo Stato, mentre vengono contemporaneamente tagliati le tredicesime e i servizi sociali. Il padronato – e non solo quello portoghese, anzi: le aziende più importanti del paese sono multinazionali – è riuscito a ottenere questo risultato, che gli permette anche in tempo di crisi di fare profitti considerevoli, usando i contratti a termine, le varie direttive europee in tema di lavoro, le ristrutturazioni volute dai neoliberisti del Fondo Monetario Internazionale. Il sistema è semplice: gli imprenditori sostituiscono in continuazione i “vecchi” lavoratori con “nuovi” lavoratori pagati di meno. Inutile dire che nello stesso periodo gli stipendi dei direttori generali e degli amministratori non sono stato affatto toccati.

Il caso portoghese non è ovviamente molto diverso da quello spagnolo, da quello greco, o da quello italiano – proprio l’altro ieri l’Istat ha annunciato che “se non si rinnovano i contratti, nel 2013 le retribuzioni rischiano di crollare”. In tale contesto non sorprende che i mutui accesi siano sempre di meno, così  come siano in calo le vendite al dettaglio e persino i consumi alimentari. Ma che quella di recuperare competitività internazionale spremendo il più possibile il lavoro sia una strategia che la borghesia sta applicando a livello internazionale, ce lo dimostrano persino gli USA. Secondo il Financial Times, per avviare una vera ripresa dell’economia statunitense bisogna agevolare una “rinascita della manifattura” attraverso una politica energetica e fiscale che incentivi gli investimenti, e soprattutto ammazzando i costi della forza lavoro. Secondo il Boston Consulting Group, gli USA in questo modo potrebbero creare entro il 2020 fra i 2 e i 5 milioni di lavoratori industriali (fra operai, tecnici e impiegati), che guadagneranno, rispetto ai loro colleghi cinesi, solo 7 centesimi in più all’ora…

Tornando all’Europa, e in particolare all’Italia, è evidente che mentre la condizione di vita dei lavoratori torna a quella di venti, se non trenta anni fa, ci sono fasce sociali che non sono affatto toccate dalla crisi, tanto che il settore che soffre di meno della contrazione dei consumi è quello delle gioiellerie e degli articoli di lusso in generale. Persino Napolitano si deve essere accorto di qualcosa se – proprio lui che ha fatto di tutto per avere come Capo del Governo un agente della grande borghesia europea – parla di “una politica di rigore che parta dai più abbienti”. Affermazione che fa ridere in un paese dove si è parlato di recuperare entrate anche attraverso una tassa sugli animali domestici, ma non è mai stata presa in considerazione una patrimoniale nemmeno blanda, né è stato avviato un serio recupero dell’evasione fiscale.

In ogni caso, le classi subalterne dell’Europa meridionale si stanno accorgendo del trucco, e stanno iniziando a porre i loro interessi, che sono quelli della maggioranza, contro quelli assolutamente particolari della minoranza borghese. La crisi sociale prende così anche una forma politica: è quello che accade da tempo in Grecia, in cui non si smette di manifestare contro le misure di austerity, ma è quello che sta accadendo anche in Spagna, dove negli ultimi giorni i manifestanti hanno assediato il Parlamento, costringendo la polizia a caricare duramente, mentre ieri i sindacati baschi hanno incrociato le braccia per 24 ore. Anche il Portogallo vede le più grandi manifestazioni dal 1974 (il 15 settembre erano in piazza in tutto il paese quasi un milione di persone, circa un portoghese ogni dieci), manifestazioni che hanno già prodotto parziali effetti politici, mettendo in crisi il governo di centrodestra e fermando gli attacchi già programmati ai salari, mentre per sabato 29 settembre è stata chiamata un’altra grande mobilitazione nazionale a Lisbona

Certo, la crisi politica può spostare anche il quadro politico verso destra: è il caso dell’ascesa del partito greco neonazista Alba Dorata, o di quello francese Front National. Ma i proletari europei, per quanto combattano ancora in larga parte le “seconde linee” come “i politici” o la “partitocrazia”, per quanto siano spesso manovrati da forze reazionarie, stanno a poco a poco prendendo consapevolezza del fatto che la sola via d’uscita dalla crisi è la loro unione a livello locale e la loro alleanza a livello internazionale.

Purtroppo, in questo scenario autunnale confuso ma dinamico, è l’Italia a mancare. Forse i lavoratori italiani sono ancora paralizzati dall’arrivo di Monti, annichiliti dai falsi problemi posti da Repubblica e da Ballarò, schifati dagli stili di vita dei propri politici, oscillanti fra un nichilismo disperato e una sudditanza al primo incantatore che passa. A questi bassi livelli di coscienza si aggiunge la struttura sindacale corporativa di CGIL-CISL-UIL che controlla ancora capillarmente i punti più significativi del conflitto di classe, impedendo la sua esplosione. Ciò non toglie che importanti segnali di inversione di tendenza ci siano: l’ondata di rabbia contro Marchionne che attraversa il corpo degli operai FIAT dal Nord al Sud, la determinazione dei lavoratori dell’ALCOA, la capacità di resistenza nel tempo di vertenze come quella dell’Irisbus, se convogliate e unite intorno a un progetto realmente alternativo, potrebbero produrre effetti dirompenti. Bisogna incominciare da subito, per costruire il corteo nazionale del 27 ottobre come una reazione di massa alle politiche della borghesia europea che oggi trovano in Monti l’interprete più astuto e spietato.

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1 Commento


  • luciano

    Bisogna anche aggiungere alle condivisibili conclusioni del documento,l’auspicabile perdita di consensi e controllo ferreo del partito di Bersani su ampie fasce di proletariato ancora convinte della bontà e giustezza del governo degli oligarchi.Se questi settori di classe continueranno ad abboccare alle sirene dei sacrifici oggi per la salvezza di domani, propalate a piene mani dagli apparati ideologici di stato,non si farà nessun passo in avanti verso una ricomposizione delle classi subalterne.La verità,come sappiamo è sempre rivoluzionaria,ma dobbiamo anche sapere che senza una capillare CONTROINFORMAZIONE ed educazione costante delle masse alla critica che non si appiattisca sulle direttive del segretario di partito,la linea di confine tra dominati e dominanti si allargherà a dismisura creando quel vuoto delle lotte che vediamo, rovesciando all’indietro anni di mobilitazioni contro il piano del capitale.Il vero motore e asse ideologico di questa passività sta tutta all’interno di quella finta formazione politica progressista,vero architrave del montismo,impegnato da anni a distruggere con l’alibi del meno peggio le condizioni di vita dei lavoratori.In assenza di tale determinante appoggio,la borghesia non avrebbe mai potuto ribaltare i rapporti di forza a suo vantaggio in modo cosi agevole per lei!

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