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Il postmoderno era un giocoso preservare rendite di posizione, era la poetica dell’assenza e della disillusione. Questa indifferenza, con l’inasprirsi della crisi e della proletarizzazione del ceto medio, sta aprendo le porte al civismo reazionario. Dal fuoriscena dell’io piccolo-borghese (degli anni ’80 e ’90) alla messa in scena di un nuovo risorgimento nazionale.
Svalutazione del passato come affermazione della nullità del presente. La fine della storia ha aperto le porte alla poetica dell’assenza, al servilismo di regime, imbellettito di agnosticismo politico e filosofico.
La salvezza individuale è stato per decenni il più abietto dei privilegi della postmodernità sbrandellata, è stata l’anticipazione onirica della minaccia della caduta. il rifugio catartico della propria sfera emotiva e razionale, il paraculismo mondano di un ceto medio che anticipava, appunto, nella salvezza individuale, la sublimazione della paura della caduta.
Con l’inasprimento della crisi la reazione spirituale del ceto medio proletarizzato, trasforma l’indifferenza burlona in partecipazione, quella postmodernità si disfa del cinico e burlesco disincanto e confluisce nel mare magnum della partecipazione nazional-popolare attraverso la retorica legalitaria e moralizzatrice.
Così la poetica dell’assenza incontra lo Stato e la salvezza individuale impugna il manganello, brandisce la bandiera e l’onorificenza patriottarda del lacrimogeno.
Ma perchè questo ridisegni i destini di un popolo, occorre che esso sia sottomesso totalmente e che più la sottomissione agisce, più può promuoversi una generazione gagliarda, indignata e legalitaria, che attraverso un inedito populismo mediattivista disintegri le maglie di un sistema politico-istituzionale inadeguato all’inasprimento della crisi e della concorrenza, inadeguato alla densa presenza della storia dei grandi processi collettivi.
In questa dissoluzione della società italiana nascono nuovi fermenti, nuove mitologie dell’azione e della legalità, dell’ordine e della disciplina, nuove utopie pronte a preservare lo spirito dei tempi riproducendo inediti agenti del capitale, mentre le fabbriche chiudono e quelle che restano aperte si preparano a formare una generazione di operai spremuti, affamati e terrorizzati.
Da destra a sinistra, attraversando il grillismo, assistiamo a fenomeni ancora minoritari che stanno consolidando pian piano consensi, precipitati politico culturali specifici della mobilitazione reazionaria del ceto medio proletarizzato, con un fondamentale denominatore comune: la legalità e la moralizzazione; due leve ideologiche e simboliche indispensabili per la riorganizzazione repressiva, dello Stato sovrano in quanto capitalista collettivo.
C’è sempre un nesso tra l’epoca della corruzione e del declino di un vecchio consenso, e le inedite risposte reazionarie. Anche dello Stato liberale si dissero peste e corna, Giolitti era corrotto e debole con i socialisti e i cattolici, e furono proprio ex liberali, ex socialisti ed ex cattolici a riempire le fila delle classi dirigenti dell’Italia fascista e monarchica.
E fioriscono sui territori inedite forme di indignazione, giovani che sembrano di sinistra che si scagliano contro i parcheggiatori abusivi, giovani che sembrano di destra che propinano forme di comunitarismo e mutualismo. La crisi li rende emergenziali, appare il qui e ora, il mito dell’azione, della responsabilità e della coerenza ritorna a permeare l’immaginario collettivo di futuri squadristi e macchinisti di treni verso l’olocausto.
Questi passaggi e visioni sono sempre necessari a promuovere e fomentare rivoluzioni conservatrici e quanto esse siano appetibili alla riorganizzazione del capitalista collettivo, varia da contesto a contesto e dipende da tante caratteristiche sociali e nazionali.
Dal privilegio della salvezza individuale, “dei frizzi e lazzi”, a quello della salvezza nazionale, “dei son cazzi, son cazzi…” Fuori i corrotti, abbasso i ladri, evviva , evviva. Il gregge esce dal recinto, pronto a servire il medesimo pastore: il sistema della ricchezza nazionale.
Lo stato e il capitale mettono in scena la moralizzazione comunicata, mentre si apprestano a ricostruire i rapporti sociali su nuove basi coercitive e repressive.
Che bei tempi quando questo ceto medio si divertitiva agnostico e paraculo, e teorizzava il rifugio e l’assenza. Tutto quel bel dire oggi confluisce nel fiume in piena di un movimento populista, di una partecipazione funzionale alla ristrutturazione capitalistica e alla violenza dello stato sovrano.
Legalità, lotta agli sprechi, ordine, disciplina, più lavoro, rispetto, partecipazione, sovranità.
La democrazia si strucca e cola il fondotinta ereditato dal vecchio ciclo di lotte acquistando le sembianze della Puttana Moralizzatrice dell’Italietta verso la fame nera.
E risulta imbarazzante pensare che dal Corriere della Sera al Fatto Quotidiano, da Grillo a Fiore, attraversando Celentano e Saviano, fino alla folla moltitudinaria di Negri, marcino tutti su Roma, abbarbicati intorno alla Ricchezza della Nazione e alla sua dittatura. Il Montismo di tutto ciò è solo la necessaria e autorevole transizione.
Gli operai in carne ed ossa e tutti coloro (i comunisti? E quali?) che credono che questa classe abbia bisogno di un suo partito, devono fermarsi e riflettere e non farsi trascinare da questa fiumana inarrestabile di populismo non più banalmente riformista e interclassista, ma, nella crisi del Capitale e dello Stato, profondamente reazionaria e funzionale alle risposte del potere dinanzi alle “complicazioni possibili della vita nella dissoluzione della società italiana”.
Riscopriamo il post-moderno oggi, a trent’anni dalla sconfitta del movimento operaio, la sua essenza, la sua base sociale, la sua fedeltà all’ordine costituito. Sempre di salvezza si tratta, ma essa diventa non un vezzo individuale di aria fritta, un ripiegamento masturbatorio come sublimazione dell’assenza di gesta, ma un’aspirazione militante e ingagliardita come una femmina in calore che si agita intorno al Re nudo. Un mescolamento e rimescolamento per nuove formazioni storiche nella modernità non superata. La contemporaneità della schiavitù del salariato, l’orizzonte delle catene dello sfruttamento è tutto qui nelle urla di questi postmoderni nella crisi, in balia del nulla che diventa insieme, l’afflato corale degli istinti pecorili di sempre: la salvezza nazionale.
In tal senso il motto del Partito Democratico: “Italia Bene Comune” è una buona sintesi culturale tra storicisti crociano-togliattiani e post moderni moltitudinari, una buona sintesi per i guerrafondai di ieri e di domani, per le future generazioni di tricolorati. E la nuova condizione operaia in fabbrica scandisce il tempo e aumenta le distanze con questa intellettualità diffusa che si appella a un nuovo civismo, che ha abbandonato l’indifferenza e la disillusione per i medesimi motivi per cui vi aveva aderito. Grilli che si parlavano addosso senza prendersi sul serio, riconquistano una dimensione pubblica, acquistando le sembianze di professionisti, imprenditori onesti, ricercatori, commercianti dissanguati, tecnici del sapere, cittadini incarogniti, tutti italiani stanchi di subire il processo di proletarizzazione. Gli stessi a cui l’IRI, la Corona e il fascismo offrirono un ottimo servizio di sartoria, ridando loro un pò di comando e prestigio sociale e una bella camicia nera. Mentre gli operai terrorizzati tiravano su a produrre la ricchezza nazionale e chi alzava la testa veniva chiamato sovversivo, imparava a diventare comunista.
* Responsabile provinciale Radicamento nei territori PRC Napoli
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Rosario Zanni
Questo primo periodo del testo non appartiene al mio articolo
“A forza di chiacchiere sulla libertà dell’individuo è andata persa la nozione di collettivo, classe, insieme con interessi comuni. Lo spavento della solitudine genera il mostro legalitario e nnazionalista”.
Non è solo un problema formale ma è che è un perido che non condivido affatto.
Spero che il commento sia pubblicato.
grazie