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L’insensata «guerra» ai redditi dell’Europa

L’editoriale di Carlo Bastasin, sul Sole24Ore di oggi, pone con una certa chiarezza il problema. Per rpesentare gli aspetti nascosti, o le conseguenze, del suo ragionamento, abbiamo pensato utili proporvi il suo articolo inframezzato – in corsivo – con le nostre considerazioni sullo stesso tema.
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L’insensata «guerra» ai redditi dell’Europa
Carlo Bastasin
da IlSole24Ore

Gli indicatori di fiducia nell’economia europea fotografano il carattere epocale della crisi in corso. Come potrete leggere a pagina 9, pur con ampie differenze tra loro, in tutti i Paesi dell’eurozona i cittadini e le imprese sono impauriti da un sentimento di grave arretramento.
Si tratta purtroppo di una percezione realistica. Gli indicatori economici mostrano infatti che molti anni sono stati inghiottiti dalla crisi. È probabile che l’eurozona recupererà il livello di reddito del 2007 solo nel 2015.

Red. Paura e speranza possono falsare qualsiasi calcolo. E in ogni caso sarebbe bene fare qualche distinzione. Se la crisi è “epocale” – lo è – non per questo si manifesta in modo omogeneo. Anzi, proprio le differenze esistenti tra diverse aree, ed anche all’interno della stessa area, costituiscono “opportunità” colte da alcuni capitali a scapito di altri. L’arretramento generale dell’Europa, per esempio, è ancora poco sensibile per i tedeschi e devastante per i greci, durissimo per gli spagnoli e molto pesante per gli italiani. Pensare al 2015 come orizzonte di “ritorno ai livelli di ricchezza prodotta” nel 2007 è possibile per chi nutre una fiducia (eccessiva) nello stato di salute del modo di produzione a livello globale; ma adrebbe quantomeno spiegato che anche in tale eventualità si parlerebbe di una “media” tra picchi e depressioni, non di ripristino dello statu quo ante. Per esempio, nel 2012 la produzione metalmeccanica tedesca è tornata (quasi) ai livelli del terzo trimestre 2008; quella italiana è a -27,8%, mentre la media europea è al -11,1. Anche in caso di fine della crisi (imprevedibile, al momento, visto che “a tre anni” è un orizzonte in cui economicamente si misurano le speranze, non i volumi di produzione), l’Europa uscirebbe ridisegnata come architettura e percentuali di peso industriale.

Sei mesi fa avevo calcolato che i costi economici della crisi attuale erano paragonabili a quelli dei maggiori conflitti bellici regionali dell’Ottocento. Una rottura disordinata dell’euro avrebbe avuto conseguenze paragonabili a quelle del Primo conflitto mondiale. L’analogia bellica era poi diventata di uso tanto comune da farmene pentire. Tuttavia, osservata da Washington, la crisi europea ha un impatto sulla sicurezza globale che forse gli stessi europei non riescono a cogliere. Un impatto che va al di là della caduta del benessere, che l’Europa restituirebbe all’economia americana da cui nel 2008 l’ha ricevuta, e al di là anche della perdita di stabilità politica in alcuni Paesi.

Red. E invece proprio l’analogia bellica consente di misurare davvero la portata della crisi. La parole di bastasin confermano non solo che ci troviamo in una gigantesca crisi di sovraproduzione, ma che anche la reazione del capitale multinazionale è la stessa di sempre: distruzione del capitale in eccesso. E non possiamo naturalmente dimenticare che “capitale” significa soldi, macchinari, merci… persone, manodopera, vite. Soltanto che questa volta – causa la proliferazione degli armamenti nucleari – la classica guerra interimperialista deve esprimersi in forme prevalentemente non militari. Non bisogna infatti farsi abbagliare dagli episodi più vicini (Iraq, Libia, Siria, forse presto l’Iran): tutte queste guerre hanno rappresentatto una distruzione davvero minima di capitali in eccesso. La “soluzione bellica” della crisi, in effetti, è efficace solo quando la guerra coinvolge entità di peso simile, e comunque “centrali” nel sistema economico globale. Usa contro Cina sarebbe ora un conflitto di tale portata. Ma entrambi hanno troppe atomiche da sparare, non vincerebbe nessun capitale (nemmeno quelli che restassero alla finestra). La “guerra” viene dunque introvertita all’interno dei paesi a più alta densità di capitale: quelli avanzati. Usa ed Europa hanno ristretto in misura notevolissima la quota di reddito destinata al lavoro dipendente, e possiedono ancora margini considerevoli di “grasso” da togliere alle proprie popolazioni, prima che “l’instabilità politica” diventi incontrollabile.
Da sottolineare, infatti, come la “perdita di stabilità politica in alcuni paesi” sia ormai una variabile calcolata e “accettata”, ai piani alti della geostrategia. Conseguenza: qualsiasi movimento di lotta che non si ponga, intanto sul piano analitico e teorico, a questo livello, può comportarsi solo come un insetto sotto la lente dell’entomologo.

È una lettura della realtà che ricavo dalle parole del Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, in occasione di un incontro al Centro per i rapporti Usa-Ue di Brookings, un think tank di Washington. In quell’occasione Hillary Clinton ha espresso una preoccupazione che va oltre l’Europa e gli stessi Stati Uniti, e cioè che finché la crisi dell’eurozona e il problema fiscale americano non saranno stati superati, non sarà possibile rafforzare la cooperazione economica tra Europa e Usa e creare quello spazio comune transatlantico, dotato delle stesse norme e delle stesse reti intelligenti, che sta diventando un interesse strategico. Solo una tale area comune infatti renderà possibile ai Paesi occidentali discutere con l’Asia, avendo la dimensione necessaria a far valere non tanto la propria forza commerciale, ma le istituzioni e i valori occidentali.

Red. Potenza economica e sistemi di vita, compresi quelli valoriali, si intrecciano in modo inestricabile. Il turbocapitalismo cinese, e più generalmente asiatico, è visto come inarrestabile sul piano produttivo. L’unico limite vero potrebbe arrivare dall’esaurimento di alcune risorse naturali non riproducibili, come il petrolio. Ma Eurozona e Usa – ovvero 650 milioni di persone – non sono in grado, da qui a vent’anni, di tenere il passo degli oltre 3 miliardi di asiatici “messi al lavoro” dal capitale (che, ricordiamo, “non ha nazione” e tantomeno etnie).
Il problema immediato, per Clinton e l’establishment Usa, è dunque interconnettere al più preto le due sponde dell’Atlantico per “compensare”almeno in parte questa prevedibile perdita di egemonia globale. L’enfasi sulla “democrazia” è parte integrante del “confronto-scontro” con l’Asia arrembante. Ma è anche un’arma molto spuntata, forse addirittura a doppio taglio, nel momento in cui l’Europa va costruendo il suo nuovo assetto esautorando le democrazie esistenti a colpi di imposizioni decise da organismi programmaticamente sottratti a ogni verifica democratica (Ue, Bce, Commissione, ecc). Diventa infatti complicato – com’è stato fatto negli ultimi 20 anni – mobilitare le proprie popolazioni per “esportare la democrazia” in altre aree, se la stai strangolando “in patria”.

È un eufemismo dire che i princìpi di democrazia, di libertà e di cooperazione internazionale non sono sempre riconosciuti da tutte le economie che tra vent’anni avranno preso il posto degli Stati europei nel G7. Per questa ragione gli Stati Uniti vorrebbero che l’Europa guardasse all’Asia non solo come a un mercato, ma come a un’area nella quale esercitare influenza insieme agli americani. Ma purtroppo l’Europa è quasi interamente assorbita dal proprio dramma interno.
Solo dieci anni fa, noi europei potevamo vantare la forza del “potere trasformativo” dell’Unione europea, la capacità cioè di condizionare l’accesso di altri Paesi al nostro mercato – per volume il più grande del mondo – alla condivisione di valori “europei”: se volete avere benessere esportando in Europa, dovete accettare le nostre regole, il rispetto di diritti umani, il riconoscimento di princìpi di reciprocità, la difesa dell’ambiente e i requisiti di sicurezza per i lavoratori.
Era possibile porre queste condizioni di natura non commerciale quando, per Paesi come la Cina, l’Europa era un mercato di sbocco indispensabile, in grado di dettare le condizioni della produzione. Fino a pochi anni fa le maggiori imprese europee o americane producevano in Asia quasi esclusivamente per esportare nel mercato europeo o americano. Ora, come tutti sappiamo, le condizioni stanno cambiando molto velocemente.

Red. Ed infatto lo stesso Bastasin riconosce che già oggi questa “superiorità etica” occidentale è molto meno forte di prima. Ammesso e non concesso che fosse riconosciuta dagli antagonisti di ieri e di oggi (immaginiamo un colloquio tra vertici cinesi e americani: davvero qualcuno dei partecipanti potrebbe far finta di credere, e dire, che la propria parte sia davvero “espressione della volontà popolare”?).

Quando il mercato asiatico sarà pienamente sviluppato, con una propria robusta domanda interna, né l’Europa, né gli Stati Uniti avranno le dimensioni da soli per essere indispensabili agli altri Paesi. La capacità europea e americana di esercitare influenza politica nel mondo sarà molto diminuita. E, più grave ancora, la soluzione dei contrasti che dovessero insorgere tra Occidente e Oriente rischia di abbandonare il linguaggio negoziale della cooperazione commerciale, tipico della diplomazia europea, e minaccia di ritornare sul piano del conflitto politico se non addirittura di quello militare. Evitare questo scenario di incertezza ed esercitare la logica del dialogo economico è ancora alla portata di Usa ed Europa. Ma perché ciò sia possibile, è necessario che le due crisi parallele, il fiscal cliff americano e la crisi dell’eurozona, vengano risolte prima possibile.

Red. La variabile “tempo” non è illimitata. Il peggioramento delle condizioni di vita di larghi strati delle popolazioni occidentali (ricordiamo ad esempio che Marchionne, alla Chrysler, ha imposto salari dimezzati rispetto a prima, con la benedizione di Obama) alimenta la maturazione dell’instabilità politica interna; che a sua volta richiama “repressione” e quindi sfiguramento dell’icona “democratica” innalzata dalle potenze occidentali).

Il lettore italiano o quello tedesco, ormai affogati in quattro anni di crisi e di tatticismi nazionali, possono pensare che una visione globale sia un pretesto per digerire nuovi sacrifici o per soluzioni affrettate. Ma il mercato globale è ormai parte fondamentale del benessere nazionale. Il 50% del reddito tedesco, per esempio, dipende dal commercio con l’estero. I dati disponibili oggi per l’Italia, dove la domanda interna è in continuo calo, fanno pensare che il volume dei profitti d’impresa derivati dal commercio internazionale sia in questo momento addirittura superiore alla quota tedesca. Senza una soluzione alla crisi dell’eurozona, l’eccesso di austerità nel settore pubblico e di deleveraging nel settore privato possono continuare ancora per anni. Gli indici delle aspettative in caduta possono aggravare la perdita di reddito e dare a essa una dimensione bellica. Come tutte le guerre, anche questa che l’Europa si sta infliggendo è inutile. Ma forse è perfino più insensata delle altre.

Red. La conclusione di Bastasin è quindi di tipo keynesiano-militare. La “guerra ai redditi d’Europa” – la deflazione salariale spinta, lo strozzamento della spesa pubblica e del welfare – è “insensata” alla luce della “competizione globale” fra macro-aree e modelli di capitalismo. In effetti, bisogna capirlo: come facciamo a compattare il “fronte interno” euro-statunitense se riduciamo le nostre popolazioni alla fame mentre i competitor asiatici, grazie allo sviluppo industriale, vanno migliorando gli standard di vita dei loro cittadini? Come possiamo vincere, insomma, sbandierando la “democrazia” senza il pane davanti a gente che distribuisce sempre più pane, anche con poca democrazia? In fondo anche il “socialismo reale” è finito per lo stesso motivo: a che serviva avere “il socialismo” se la soddisfazione dei bisogni restava a livelli minimi?


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