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Il binario morto della locomotiva tedesca

La locomotiva tedesca sembra correre, ma la sua corsa procede su un binario morto. Il riferimento non è tanto alle ultime dichiarazioni di Draghi sulle stime al ribasso per la crescita tedesca nel 2012 e per il 2013, né alla riduzione del volume di esportazioni (che hanno costituito un vero e proprio volano per l’economia tedesca). Il binario morto dell’economia tedesca è quello dell’accelerazione dello sfruttamento del lavoro,, che costa pesantemente, anche nella “benestante” Germania, in termini di disoccupazione, abbassamento del costo del lavoro, precarizzazione delle esistenze, riduzione dei servizi sociali.

Perché parliamo di binario morto? Perché la locomotiva tedesca ha intrapreso una strada senza uscita e senza possibilità di deviazioni, predeterminata già dai primi anni del 2000, quando per tentare di risolvere la crisi di sovraproduzione si avviò un veloce processo di abbassamento del costo del lavoro e di innalzamento dello sfruttamento. Il processo fu veloce ma arrivò con qualche anno di ritardo rispetto a quello che fu iniziato in Italia con il pacchetto Treu . Questo per ribadire, che ferme restando le differenze strutturali fra le zone europee, con le corrispondenti differenze di interventi e di risultati, la ricetta è spaventosamente simile come simile è il tentativo: rallentare l’avanzare della crisi, prendere tempo per pensare a una soluzione definitiva che non arriva mai.

In Germania la riforma del mercato del lavoro è stata attuata in pochi, semplici e veloci passi. Esattamente 10 anni fa fu ideato e varato il pacchetto di riforme che a partire dal 1 Gennaio 2003 ha adattato il mercato del lavoro tedesco allo scopo di favorire e aumentare le esportazioni. Il pacchetto Hartz prevedeva interventi a vari livelli: gradualmente, tra il 2003 e il 2007, si sono accelerate le tendenze di allungamento degli orari lavorativi e di riduzione del salario sia in termini diretti che indiretti, attraverso sostanziali e pesanti tagli al welfare e ai sussidi di disoccupazione sia in termini di durata che di remunerazione.

Dal 2003 è iniziato in Germania un inesorabile processo di erosione delle garanzie assistenziali. I sussidi di disoccupazione (più difficili da ottenere e calcolati sulla base del reddito familiare e non più dell’ultimo stipendio percepito) sono stati ridotti e vengono ulteriormente diminuiti se dopo tre mesi il lavoratore non accetta una proposta di lavoro. In questo senso è importante citare l’introduzione dei “lavori da 1-Euro” (1-Euro Jobs); si tratta di lavori pagati un euro l’ora che il disoccupato DEVE accettare pena la perdita del sussidio; come è facile immaginare, questi lavori stanno diventando
una prassi sempre più utilizzata perché rappresentano la possibilità di precarizzare ulteriormente il lavoro (http://www.sueddeutsche.de/wirtschaft/arbeitsministerium-prueft-jobcenter-missbrauch-von-ein-euro-jobs1.1224312) .

Inoltre, il contratto nazionale è stato progressivamente depotenziato e deregolamentato, con l’inclusione di nuovi contratti flessibili e precari; attualmente si stima che non più della metà dei lavoratori dipendenti siano coperti da contratto nazionale, e una delle più grandi fabbriche del paese, la Volkswagen, ha fatto anni fa quello che la Fiat ha fatto l’anno scorso con Fabbrica Italia Pomigliano: è uscita dalla Confindustria tedesca per applicare un contratto aziendale concordato col sindacato dei metalmeccanici che di fatto “cogestisce” lo sfruttamento in fabbrica.

Al processo di precarizzazione e collettivizzazione del costo degli ammortizzatori sociali si è aggiunto un vero e proprio aumento della giornata lavorativa. La battaglia sull’aumento dell’orario di lavoro, in particolare, è una battaglia che il padronato tedesco ha iniziato a vincere fin dai primi anni
’90. Già dopo il ’93, infatti, una serie di deroghe ai contratti collettivi, permisero di aumentare la settimana lavorativa di 35 ore di un +2,6% per gli operai e di un +4,6% per gli impiegati. Dove non c’è stato un diretto aumento del monte ore, si è creato un meccanismo di turnazione di manodopera che ha determinato un abbassamento delle ore di lavoro individuali con conseguente abbassamento diretto dei salari (esemplare in questo senso la politica della Volkswagen), in cambio di un aumento del monte complessivo di ore di lavoro “erogate”. L’avanzamento su questa strada di deregolamentazione dei contratti collettivi ha permesso di giocare con il rapporto orario di lavoro/salario a seconda delle convenienze della fabbrica, con il risultato che, tra il 2005 e il 2007 si è assistito a un congelamento dei salari con corrispettivo di aumento delle ore lavorative. Come se non bastasse, citiamo anche una riforma – contenuta nel pacchetto Hartz – del lavoro autonomo, che ha permesso di ammortizzare la disoccupazione attraverso la messa in proprio dei lavoratori , ovvero la loro trasformazione in precari o in presunti piccoli imprenditori, con lo scopo dichiarato di fare emergere il nero e l’obiettivo reale di scaricare sul lavoratore stesso i costi della crisi “a monte”, non garantendo, la prestazione di lavoro autonomo, la stessa continuità salariale, pur soltanto nominale, del lavoro dipendente I provvedimenti adottati sono stati prestiti agevolati, per incoraggiare i lavoratori a nero a emergere con attività piccole gestite in proprio, e la cosiddetta “Ich-Ag”. Ich vuol dire Io e Ag sta per S.p.A.

Chi è disoccupato – questo fu il motto del governo – può mettersi in proprio e fondare una impresa in cui lui sia l’unico impiegato e amministratore e godere così di agevolazioni fiscali, per i primi 3 anni, sul proprio lavoro (Senzacensura n.11, 2/2003).

Ma la marcia verso la diminuzione del costo del lavoro subì una ulteriore accelerata nel 2004, quando un accordo sindacale siglato dalla IG-Metall (sindacato metalmeccanico), stabilì ulteriori deroghe al contratto collettivo.
Dopo questo accordo, aumentarono le possibilità di deroga al contratto collettivo anche in caso di miglioramento delle condizioni di produttività, di investimento e di innovazione, e non più solo in caso di grave crisi dell’azienda. Questo accordo permise di tagliare sostanzialmente i benefit di produttività, portare la settimana lavorativa a 40 ore senza aumento salariale e ridurre ferie e giorni di riposo. A questo si aggiunga che tra il 2005 e il 2007 si assiste in Germania a un vertiginoso aumento delle delocalizzazioni nei paesi dell’est europeo, praticamente in contemporanea all’allargamento dell’UE.
La delocalizzazione permette di produrre in Paesi dove il lavoro costa molto meno e di riassemblare nelle sedi tedesche in modo da esportare il prodotto finito.
La locomotiva d’Europa ha così visto aumentare i profitti delle sue aziende in media del 6,2 nel 2004 e del 6,9 nel 2006.

Questo processo, dieci anni dopo l’entrata in vigore del pacchetto di riforme Hartz, è giunto a un livello massimo di tensione. Le esportazioni non crescono più tanto da tirare il PIL tedesco su una crescita sufficiente, crescita che si attesterà per il 2012 su uno 0,8%, che equivale a una vera e propria recessione, anche se non “tecnica”, tanto da porre anche nella “benestante” Germania il problema del consumo interno (segno, questo, di una stagnazione e riduzione del potere d’acquisto dei lavoratori tedeschi, di cui forse si è parlato troppo poco), come ha dichiarato Angela Merkel nella conferenza stampa del 30 Ottobre scorso. Contemporaneamente aumenta, e non poco, la povertà nella locomotiva d’Europa: tra il 2008 e il 2010 la percentuale di poveri per DeStatis (l’ISTAT tedesca) è passata da 15,5% a 15,8%, mentre il 50% più povero della popolazione, che nel 1998 deteneva il 4% della ricchezza prodotta, è passato, nel 2008, all’1%. L’Europa non ha più la forza di essere il bacino di esportazione dei prodotti tedeschi, nonostante l’allargamento a Est. La crisi del debito pubblico che attanaglia principalmente i paesi della sponda mediterranea priva la Germania di uno sbocco fondamentale, in un momento in cui la ristrutturazione produttiva e di capitali non è ancora giunta al punto – se mai ci giungerà – di consentirle di competere ad armi pari, senza il bacino europeo, con gli altri poli imperialisti o con paesi in impetuoso sviluppo come India e Cina. Questo preoccupa non poco la borghesia europea che si trova a fare i conti con una competizione che si fa sempre più feroce. Tutti i paesi europei hanno già provveduto ad abbassare i salari per tentare di produrre a un costo sempre più basso, sperando così di ovviare alla crisi di valorizzazione.
Da questo punto di vista, non c’è differenza tra la locomotiva d’Europa e i cosiddetti PIGS: tutti i paesi, infatti, pur con le dovute differenze di struttura produttiva, hanno costruito la competitività sulla pelle dei lavoratori, e il proletariato tedesco non ha goduto di condizioni particolarmente migliori rispetto a quello italiano. Se è vero, ed è vero, che un anno fa il pubblico impiego in Germania poteva strappare aumenti salariali di circa il 7%, è anche vero che si veniva da periodi di forte compressione salariale diretta, indiretta e differita, e che la posizione di vantaggio relativo della Germania rispetto ad altri paesi europei, che magari ha potuto permettere una redistribuzione più “sciovinista” dei dividendi nazionali, va rapidamente a terminare.

Le manovre degli ultimi anni sono solo l’inizio di una lotta di classe che la borghesia vuole e deve vincere, per sopravvivere; riproporre tra proletari le divisioni più o meno reali della borghesia continentale, magari immaginando alleanze tra paesi meridionali, fuori e contro i paesi settentrionali, non sembra la soluzione migliore (i 100 manager italiani più pagati hanno aumentato i loro guadagni del 16,5% dal 2010 al 2011, mentre i salari hanno perso il 2,5% rispetto all’inflazione, evidentemente c’è chi è PIG e chi no!); l’alternativa è accettare la sfida sul terreno di gioco che la borghesia ha scelto, decidendo di ricostruire alleanze sulla base del comune attacco subito, quello che ha permesso e continua a permettere alla borghesia di tutelare la propria massa di profitti, sotto ogni bandiera. È certamente una prospettiva più lunga, difficile, complicata, ma non ci sembra sia questo il tempo di cercare scorciatoie.

Voteremo i crediti di guerra per le nostre borghesie nazionali, o ci asterremo e saboteremo lo scontro tra borghesie, consapevoli che “non è compito dei socialisti aiutare il brigante più giovane e forte a depredare i briganti più vecchi e nutriti”?

La replica-contributo della nostra redazione

Il documento dei compagni che curano il blog La Cuoca di Lenin sopra pubblicato, è molto interessante nell’analisi puntuale della “locomotiva tedesca”, soprattutto nei rapporti di classe interni, nei suoi buchi neri e nelle conseguenze che questa provoca sul piano di una maggiore precarietà lavorativa e salariali di ampi settori di lavoratori e disoccupati.

La conclusione della loro analisi invece merita qualche osservazione perchè i compagni della CdL lasciano trasparire una velata critica alla proposta politica della Rete dei Comunisti su un’alleanza politica, sociale e sindacale che avanzi un programma basato su ripudio del debito, nazionalizzazioni, fuoriuscita dall’Eurozona coordinata con i paesi Pigs (Portogallo,Italia,Grecia, Spagna), nascita di una nuova area monetaria ed economica sganciata dall’Eurozona e agganciata al Mediterraneo Sud.

L’osservazione che avanzano i compagni della CdL è che questa proposta divide i proletari europei tra quelli dei paesi del nucleo duro (Germania, Francia e paesi nordici) da quelli dell’Europa euromediterranea. Non solo, ma tra i vari paesi aderenti all’Unione Europea – sia quelli forti che quelli deboli – non ci sarebbero differenze nella ricerca della competitività a scapito dei lavoratori, nonostante differenze di assetto e sviluppo delle forze produttive. Una divisione dell’Eurozona, secondo i compagni, sarebbe compatibile agli interessi delle varie borghesie e dividerebbe la classe lavoratrice europea.

E’ un ragionamento non nuovissimo, una impostazione che potremmo definire ortodossa (con tutto il rispetto dell’ortodossia) e internazionalista, che riprende le radici migliori del movimento operaio in Europa contro le evoluzioni scioviniste che portarono i socialdemocratici a sostenere i propri governi nella Prima Guerra Mondiale e contro i quali Lenin condusse una giusta e asprissima battaglia politica, ideologica.

Da questa impostazione mancano però fattori rilevanti come una analisi della composizione di classe in Europa e dunque della aristocrazia salariale (che Lenin sviluppò con lungimiranza e ampiezza) e della sua funzione “controrivoluzionaria”. Oggi è decisiva una analisi effettiva della divisione internazionale del lavoro avvenuta dentro l’Unione Europea e l’Eurozona in modo particolare con l’introduzione del mercato unico prima e della moneta unica poi. Manca all’appello un ragionamento sulle soggettività e i conflitti di classe reali e in campo, che appunto si danno con maggiore forza nei paesi Pigs e assai meno nei paesi del centro e nord Europa. Non si coglie o si sottovaluta il segno internazionalista della proposta avanzata dalla RdC che respinge – con chiarezza – ogni ipotesi di fuoriuscita e conflitto “nazionale” e lo colloca a livello europeo ma lì dove qualità e quantità delle contraddizioni e delle forze di classe sono più estese e acute. L’attesa dell’entrata della “classe operaia tedesca” fu superata con una rottura rivoluzionaria lì dove è stato possibile (la Russia). Lì la storia si è messa in moto, dall’altra parte è stata rimossa completamente – fino ad oggi – la questione della rivoluzione in occidente. Ovviamente questa è materia di un confronto ampio e leale che intendiamo perseguire nei prossimi mesi. E’ fondamentale però riconoscere reciprocamente le posizioni per quello che sono e per come vengono esplicitate, la loro interpretazione soggettiva non aiuta la discussione. Ma è evidente – ed è positivo – che il confronto di merito, teorico e politico, su queste ipotesi di lavoro sarà un confronto vero, con molte osservazioni critiche e approfondimenti comuni da realizzare. Ringraziamo i compagni della Cuoca di Lenin per aver contribuito a questo confronto.


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1 Commento


  • Hans Wurst

    Bravi! Un’analisi ottimale. I nostri “costo del lavoro” nel confronto europeo sono dietro la Grecia, la Romania, Ungheria e Slovacchia. Dopo decenni del “partenariato sociale” tra sindacati e capitale nel ovest e la criminalizzazione della lotta di classe nel “socialismo reale” la classe operaia tedesca non sa più scioperare…

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