* Il Manifesto 14.01.2013
Il fatto compiuto significa anteporre la guerra alla ricerca di una soluzione politica e nello stesso tempo cambiare le modalità dell’operazione. Sembrava scontato che Francia e Stati Uniti si sarebbero limitati a funzioni di addestramento, appoggio logistico e comunicazioni in un’operazione condotta per il resto da soldati africani a fianco o al posto dell’evanescente esercito maliano.
Hollande lo aveva sempre escluso ma ha finito per – o ha cominciato con – schierare le truppe sul terreno. Si era capito che il presidente socialista, pur ripetendo che i tempi della «Françafrique» erano finiti per sempre, voleva dimostrare di essere più energico di Sarkozy e comunque fare «qualcosa di destra». Si è già spinto molto in là anche con la Siria (non certo per motivi umanitari).
Non è il caso di gridare all’usurpazione perché il Mali è di fatto uno stato fallito. Due terzi del territorio sono occupati dai ribelli e a Bamako, la capitale, c’è un precario condominio fra una giunta militare e un governo civile provvisorio insediato dall’esercito impegnati in una gara a chi è più irresponsabile e impotente. Il beau geste di Parigi diventa per ciò stesso ancora più insensato e ipocrita perché non sarà facile per nessuno ristabilire la sovranità in quel che resta del Mali. Per parte sua, il capitano Sanogo, autore del colpo di stato del marzo 2012 contro il presidente in carica e di un secondo colpo in dicembre per togliere di mezzo un capo del governo che si era rivelato indigesto, non ha nascosto di giudicare forze «neocoloniali» tutti coloro che si prodigano per «aiutare» il Mali senza distinguere apparentemente fra paesi vicini e grandi potenze. Del resto, nell’ora delle decisioni la Francia aveva probabilmente in mente il suo diritto-dovere di ex-potenza coloniale.
Non è il caso di gridare all’usurpazione perché il Mali è di fatto uno stato fallito. Due terzi del territorio sono occupati dai ribelli e a Bamako, la capitale, c’è un precario condominio fra una giunta militare e un governo civile provvisorio insediato dall’esercito impegnati in una gara a chi è più irresponsabile e impotente. Il beau geste di Parigi diventa per ciò stesso ancora più insensato e ipocrita perché non sarà facile per nessuno ristabilire la sovranità in quel che resta del Mali. Per parte sua, il capitano Sanogo, autore del colpo di stato del marzo 2012 contro il presidente in carica e di un secondo colpo in dicembre per togliere di mezzo un capo del governo che si era rivelato indigesto, non ha nascosto di giudicare forze «neocoloniali» tutti coloro che si prodigano per «aiutare» il Mali senza distinguere apparentemente fra paesi vicini e grandi potenze. Del resto, nell’ora delle decisioni la Francia aveva probabilmente in mente il suo diritto-dovere di ex-potenza coloniale.
Il Mali stava diventando fin troppo vicino agli Stati Uniti, al punto da figurare come una sede ufficiosa di Africom, il comando militare unificato per l’Africa costituito nel 2007 da Bush e consolidato da Obama. Qualcuno potrebbe chiedersi come mai una grande potenza si fa cogliere di sorpresa da un Putsch dell’esercito che sta armando, formando e verosimilmente controllando.
Proprio mentre sembrava acquisito che con un’Unione africana risoluta a far valere il principio «soluzioni africane per le crisi africane» le crisi come quelle del Mali (o della Somalia) non sono più crisi africane ma sono promosse d’ufficio a questioni globali e trattate di conseguenza. Con le logiche della war on terror tutte le vacche sono grigie. Poco importa che il Mali, al pari di tutti i paesi della fascia sahelo-sudanese di passaggio fra Africa araba e Africa nera, sia alle prese con delicatissimi problemi di state-building. L’ossessione per la «sicurezza» complica in modo irreparabile i processi interni in un ambiente di per sé vulnerabile per le condizioni climatiche e l’eccezionale fragilità dei sistemi economici.
Al-Qaida è qualcosa di più di un pretesto ma il presidio esasperato messo in atto da Stati Uniti e alleati in un ambiente che è soprattutto uno spazio di movimento riproduce in tutto o in parte i fenomeni che vorrebbe scongiurare e li perpetua. Il fondamentalismo islamico è presente nel Sahel da sessant’anni e solo di recente ha assunto una valenza anti-occidentale.
Il Sahara è il regno dei tuareg e più in generale delle popolazioni berbere dedite al commercio lecito e illecito lungo le antiche linee carovaniere. Gli Stati costituiti, con la città e l’agricoltura come propri segni distintivi, non sopportano i modi di vita dei nomadi. Le frontiere sono una garanzia per gli uni e un impedimento per gli altri. La guerra rischia di ricompattare tutti i ribellismi al di là delle loro rispettive agende. I negoziati contrapposti ai bombardamenti avevano appunto il fine di dividere i movimenti autonomisti che hanno proclamato lo stato di Azawad dalle formazioni islamiste legate direttamente o indirettamente ad Al-Qaida.
In un colpo solo la Francia ha scavalcato l’Ecowas, l’Unione africana e la stessa Onu, da cui si aspettava una risoluzione che desse il «fuoco verde». L’Europa ha preso per buona la versione di Parigi. Aspettiamo ora la reazione del governo italiano. Forse il ministro Riccardi, che ha dichiarato molte volte che il Mali «confina» con l’Italia e che ha favorito la nomina di Prodi a rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per il Sahel, farà in tempo a dire la sua. Proprio Prodi era stato bene accolto dagli africani, malgrado l’insuccesso dei loro candidati, perché considerato un «uomo di pace». Chissà se Hollande lo ha informato prima o dopo l’attacco. D’altra parte, si dice che i comandi militari italiani siano ansiosi di trovare qualche altro terreno per dislocare i reparti che saranno ritirati dall’Afghanistan.
Proprio mentre sembrava acquisito che con un’Unione africana risoluta a far valere il principio «soluzioni africane per le crisi africane» le crisi come quelle del Mali (o della Somalia) non sono più crisi africane ma sono promosse d’ufficio a questioni globali e trattate di conseguenza. Con le logiche della war on terror tutte le vacche sono grigie. Poco importa che il Mali, al pari di tutti i paesi della fascia sahelo-sudanese di passaggio fra Africa araba e Africa nera, sia alle prese con delicatissimi problemi di state-building. L’ossessione per la «sicurezza» complica in modo irreparabile i processi interni in un ambiente di per sé vulnerabile per le condizioni climatiche e l’eccezionale fragilità dei sistemi economici.
Al-Qaida è qualcosa di più di un pretesto ma il presidio esasperato messo in atto da Stati Uniti e alleati in un ambiente che è soprattutto uno spazio di movimento riproduce in tutto o in parte i fenomeni che vorrebbe scongiurare e li perpetua. Il fondamentalismo islamico è presente nel Sahel da sessant’anni e solo di recente ha assunto una valenza anti-occidentale.
Il Sahara è il regno dei tuareg e più in generale delle popolazioni berbere dedite al commercio lecito e illecito lungo le antiche linee carovaniere. Gli Stati costituiti, con la città e l’agricoltura come propri segni distintivi, non sopportano i modi di vita dei nomadi. Le frontiere sono una garanzia per gli uni e un impedimento per gli altri. La guerra rischia di ricompattare tutti i ribellismi al di là delle loro rispettive agende. I negoziati contrapposti ai bombardamenti avevano appunto il fine di dividere i movimenti autonomisti che hanno proclamato lo stato di Azawad dalle formazioni islamiste legate direttamente o indirettamente ad Al-Qaida.
In un colpo solo la Francia ha scavalcato l’Ecowas, l’Unione africana e la stessa Onu, da cui si aspettava una risoluzione che desse il «fuoco verde». L’Europa ha preso per buona la versione di Parigi. Aspettiamo ora la reazione del governo italiano. Forse il ministro Riccardi, che ha dichiarato molte volte che il Mali «confina» con l’Italia e che ha favorito la nomina di Prodi a rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per il Sahel, farà in tempo a dire la sua. Proprio Prodi era stato bene accolto dagli africani, malgrado l’insuccesso dei loro candidati, perché considerato un «uomo di pace». Chissà se Hollande lo ha informato prima o dopo l’attacco. D’altra parte, si dice che i comandi militari italiani siano ansiosi di trovare qualche altro terreno per dislocare i reparti che saranno ritirati dall’Afghanistan.
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