Menu

Filastin: la resistenza in un fumetto

“Il conflitto israelo-palestinese, un tempo simbolo e fonte di sofferenza nel mondo arabo, è ora quasi un evento secondario in un Medio Oriente sconvolto da scontri confessionali e sconquasso economico. Eppure il signor Kerry, appoggiato dal signor Obama, crede ancora che valga la pena di affrontare il problema”. Così recentemente il New York Times ha biasimato il segretario di Stato Usa, che sta provando a far ripartire il “processo di pace” inaugurato ad Oslo nel 1993: un ventennio di trattative a singhiozzo durante il quale i governi di Tel Aviv hanno accelerato la colonizzazione dei Territori occupati (dove circa 500.000 settler vivono in 120 insediamenti illegali, esclusi quelli di Gerusalemme est) e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) si è rivelata succube, economicamente e amministrativamente, dei suoi sponsor europei e statunitensi.  

Checché ne dica il quotidiano Usa, appaiono però illusori sia la speranza di chi vede nell’odierna quiete palestinese un successo definitivo dell’intransigenza israeliana contro qualsiasi compromesso territoriale, sia il progetto dei cosiddetti “donatori”, che mira a far dimenticare ai palestinesi, grazie alla pax economica, il diritto all’autodeterminazione, stabilendo a Ramallah la capitale de facto di un insieme di bantustan – circondati dal muro dell’apartheid e dalle colonie ebraiche – abitati da un popolo senza diritti e assistito dagli aiuti internazionali, i cui spostamenti limitati sono controllati da un oppressore che, grazie a tecnologie d’avanguardia, se ne tiene a distanza di sicurezza.

C’è un’immagine in bianco e nero che, più di tante altre viste negli ultimi 65 anni di scontro tra il sionismo e il nazionalismo palestinese, ricorda la persistenza – per il mondo arabo e oltre i suoi confini – della questione palestinese: quella di Handala. Raffigura un bambino scalzo e cencioso che dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973 (proprio mentre cresce la pressione per una soluzione negoziale del conflitto, che allora era “arabo-israeliano”), incrocia le mani dietro la schiena e si volta di spalle, per sempre: per simboleggiare, come dichiarò il suo creatore, Naji Al-Ali, il rifiuto di “soluzioni esterne” alla questione palestinese. Il vignettista palestinese lo presentò così: “Io sono Handala, vengo dal campo profughi di Ain Al-Hilwe (nel sud del Libano, ndr), e giuro che rimarrò fedele alla mia causa e al mio popolo”.

Se da quel momento di Handala non si vede più il viso, i suoi sguardi – raccolti in Filastin. L’arte di resistenza del vignettista palestinese Naji Al-Ali (Eris edizioni, 221 pp., 17 euro) – si volgono ai punti cardinali della questione palestinese, svelandoli al lettore: il diritto al ritorno nella loro terra dei profughi cacciati e fuggiti durante la Nakba (la creazione dello Stato d’Israele impose l’esilio a 750.000 palestinesi e spopolò circa 500 villaggi); le violenze e le angherie inflitte quotidianamente alla popolazione occupata; la corruzione e la complicità con gli oppressori da parte della borghesia araba; la fallacia del compromesso “terra in cambio di pace”, incarnato nelle risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite e accettato dall’Olp, che non ha restituito la patria ai palestinesi. Perché, come dice Handala in un’illustrazione in cui con la spada taglia le aste dei microfoni utilizzati nei vertici internazionali, “ciò che è stato sottratto con la forza può essere ripreso solo con la forza”.   

Profugo a undici anni da Asciagiara – un villaggio nei pressi di Nazareth raso al suolo dall’avanzata delle truppe dell’Haganah nel 1948 – a dare l’avvio alla fortunata carriera di Al-Ali (oltre 40.000 disegni, collaborazioni con tanti giornali) fu Ghassan Kanafani (scrittore e politico – tra i fondatori del Fronte popolare per la liberazione della Palestina – assassinato a Beirut dal Mossad nel 1972) che nel 1961, nella veste di editore della rivista al-Hurriyya, per primo ne fece pubblicare i fumetti satirici, dandogli uno spazio fisso sul periodico del movimento panarabo.

Un bianco e nero senza sfumature di grigio quello di Al-Ali: per smascherare l’occupante israeliano, il suo sponsor a stelle e strisce, i corrotti regimi arabi (negli anni Ottanta verrà espulso dalla petromonarchia del Quwait, su indicazione degli sceicchi sauditi), e per denunciare che “al nostro popolo non mancano solo leader o dirigenti, manca anche un partito con una politica chiara in grado di ripartire da zero. Se dalle mie parole percepisci che non sono contento della rivoluzione, ti dirò di sì: non sono contento, non sono soddisfatto. Sento che la Palestina ha bisogno di arcangeli, di soldati di Dio, di mille Che Guevara, di profeti che lottano e di veri dirigenti che sanno come rispondere”.

Il tratto di Al-Ali trasforma i leader mediorientali collusi col nemico in figure mostruosamente rotonde che, contrapposte al piccolo profugo Handala, trasudano opulenza e immoralità. “Per lui i sionisti rappresentavano il nemico, ma il suo dissidio con l’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina guidata da Yasser Arafat, ndr) nasceva dal fatto che le politiche di quest’ultima non gli avrebbero permesso di tornare in Galilea” raccontò in un’intervista al Guardian il figlio Khaled.

Satira feroce e accuse pesantissime per tutti che gli valsero un grande seguito popolare nel mondo arabo ma anche odio tra le sue élite. Per anni, aveva subìto decine e decine di minacce. Il 22 luglio 1987, a Londra, all’esterno della sede del giornale quwaitiano Al Qabas, gli spararono alla tempia. La sua matita fu spezzata quando aveva solo 50 anni. Non fece in tempo a raccontare l’intifada, la rivolta delle pietre e dell’orgoglio palestinese, che sarebbe scoppiata di lì a poche settimane.

Dieci mesi dopo l’omicidio, la polizia britannica arrestò Ismail Suwan, ventottenne palestinese che lavorava per il Mossad. Accusato di possesso di armi ed esplosivi, Suwan confessò che il servizio segreto israeliano era informato da tempo del piano per uccidere Al-Ali. I mandanti dell’assassinio sono rimasti però sconosciuti.

“Esprimo una prospettiva di classe – amava sottolineare il celebre vignettista -. È importante rappresentare situazioni e fatti, non leader e presidenti”. Una lezione su cui meditare, in un’epoca in cui i conflitti ci vengono presentati di volta in volta come “etnici”, “religiosi”, “umanitari” e, in Palestina come altrove, a partire dal lessico, si prova a cancellare l’irriconciliabile opposizione tra oppressi ed oppressori.

*** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** ***

Il ricavato del libro sarà interamente devoluto all’acquisto di un chetorefrattometro per la clinica oculistica di Qalqilia (città della Cisgiordania occupata interamente circondata dal muro dell’apartheid), per garantire cure adeguate a oltre 90.000 palestinesi.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *