Il capo dello Stato: da presidente a sovrano
Sono in molti a sostenere, alle luce delle ultime vicende politiche, che ormai viviamo in un sistema presidenziale “di fatto”. Ma la destrutturazione della forma di stato e di governo delineata dalla nostra Costituzione ha origini antiche. Si tratta di un movimento avviatosi alcuni decenni fa, che ha visto nel conflitto di competenze con la magistratura sollevato da Napolitano sulle intercettazioni telefoniche il punto culminante di un processo “neoautoritario” favorito dalla forma presidenzialistico del potere dall’alto interno a tutti i partiti, non solo a quelli di destra ma ben più gravemente dentro i partiti di c.d. “sinistra”
di Salvatore d’Albergo*
A seguito del duplice intervento della Corte costituzionale con l’accoglimento dei motivi posti alla base del conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente della Repubblica contro la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, benché sovrastato dall’eco di vicende politico-istituzionali più complesse da cui sono derivati lo scioglimento delle Camere e A seguito del duplice intervento della Corte costituzionale con l’accoglimento dei motivi posti alla base del conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente della Repubblica contro la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, benché sovrastato dall’eco di vicende politico-istituzionali più complesse da cui sono derivati lo scioglimento delle Camere e l’indizione di nuove elezioni politiche, meritano di essere elaborate una serie di valutazioni sui riflessi che il dispositivo della sentenza n.1/2013 della Corte comporta sui principi costituzionali coinvolgenti la natura e la tenuta del regime parlamentare. Implicazioni, di certo, ben più significative delle pur importanti motivazioni poste a base del conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente Napolitano, che lamenta la pretesa violazione, da parte della Procura, delle prerogative costituzionali riconosciute al Presidente della Repubblica. Guarentigie ritenute, invero, così estese da comprendere anche gli atti ed i comportamenti posti in essere “fuori dell’esercizio delle sue funzioni” come nel caso specifico delle intercettazioni “indirette ancorché casuali” di comunicazioni effettuate dal sen. Nicola Mancino (4 intercettazioni su 9.295 attivate nell’arco di circa sette mesi).
Ora, prescindendo da quanto potrà ancora aggiungersi alle perspicue argomentazioni contenute nella memoria di costituzione della Procura della Repubblica presso il tribunale di Palermo (elaborata dai Professori Pace, Serges e Serio) ai fini di una valutazione delle motivazioni che sorreggono la decisione adottata, di recente, dalla Corte, quel che importa focalizzare nell’ambito di un’analisi volta ad approfondire la natura del ruolo che l’organo-Presidente della Repubblica deve svolgere nelle dinamiche della forma di governo parlamentare, concerne la varietà dei guasti che l’accezione dominante della nozione “Capo dello Stato” può cagionare al funzionamento corretto del sistema parlamentare.
Si sono, infatti, consolidate una serie di interpretazioni dottrinali più o meno ambigue, suscettibili di legittimare atti o comportamenti che si pongono in contraddizione con la natura dei rapporti che gli organi costituzionali dovrebbero intrattenere fra essi o con il ruolo che ciascun organo dovrebbe svolgere in base al rispetto dei Principi fondamentali caratterizzanti la nostra forma di stato e di governo.
Nell’ultimo trentennio si è assistito, del resto, al prevalere di interpretazioni ambigue circa le modalità che dovrebbero caratterizzare una dialettica tra popolo, corpo elettorale, partiti e Camere coerente con i Principi fondamentali del nostro modello costituzionale.
Occorre evidenziare, in primo luogo, come la figura del Capo dello Stato collocata al vertice di tutti gli ordinamenti costituzionali, risulti come una sorta di “relitto storico”. Questa constatazione assume un rilievo specifico in riferimento all’originale modello costituzionale italiano contrassegnato dalla sostituzione della “sovranità regia” con la “sovranità popolare” fondata, oltretutto, sul lavoro.
Il nostro ordinamento dispone, infatti, di un armamentario istituzionale idoneo ad aprire il varco ad una democrazia “effettiva”, poiché riconosce alla classe sociale che in precedenza era stata esclusa da ogni forma di esercizio del potere, la legittimazione a concorrere all’esercizio del potere stesso sul terreno socia e politico.
L’innovazione decisiva contenuta nel modello costituzionale italiano consiste, pertanto, nel fatto che l’Ordinamento della Repubblica è stato reso funzionale alla realizzazione dei Principi fondamentali e, quindi, al pieno dispiegamento della dialettica democratica nei Rapporti civili, etico-sociali, economici e politici disciplinati dalla Costituzione. La disciplina dell’assetto dei poteri istituzionali è stata dislocata conseguentemente nella Parte seconda della Costituzione, proprio per marcare la loro destinazione rigorosamente operativa. Le istanze politico-sociali derivanti dallo svolgimento dei rapporti sopramenzionati devono trovare, infatti, il loro sbocco e la loro sintesi organica nel ruolo “centrale” del Parlamento che è stato collocato prima di tutti gli altri organi nella struttura del modello costituzionale.
Questa caratteristica vale di per sé a contraddistinguere l’assetto istituzionale delineato dalla Costituzione italiana da quelli prefigurati negli altri modelli costituzionali dell’Occidente europeo e Nordamericano, anche se questa diversità è stata evidenziata solo da una parte della dottrina nel corso della significativa fase di lotta sociale e politica degli anni ’70 del Novecento.
Il Parlamento è stato collocato al primo posto della sequenza degli organi costituzionali perché considerato come decisivo organo di sviluppo della dialettica democratica, destinata a svolgersi mediante il ruolo dei partiti politici considerati strumenti istituzionali essenziali per consentire al popolo sovrano di “concorrere alla determinazione della politica nazionale” (art. 49 Cost.). La scelta di relegare il Governo al terzo posto della sequenza degli organi costituzionali prima della magistratura e degli enti di autonomia politico-amministrativa già enunciati nell’art. 5 dei Principi Fondamentali assume, pertanto, una valenza determinante.
In tale contesto, si rivela, tuttavia, problematica la collocazione dell’organo-Presidente della Repubblica al secondo posto della sequenza, con la previsione di funzioni che si estendono, da un lato, verso il Parlamento e, dall’altro, verso la Magistratura, i Consigli regionali e la Corte Costituzionale, nonché, in modo articolato, verso il Governo, di cui il Presidente della Repubblica costituisce un tramite permanente sia pur nel quadro dei rapporti con gli altri poteri.
Questa configurazione ordinamentale ha posto le premesse per l’erosione della centralità del Parlamento e per la reviviscenza di profili di stampo monarchico del ruolo del Capo dello Stato considerato come “capo dell’esecutivo”. Si è assistito, cioè, alla rinascita di caratteristiche che sarebbero dovute scomparire definitivamente con l’attivazione del circuito della “sovranità popolare”, cui la Costituzione ha assegnato il compito di realizzare un modello istituzionale opposto a quello fascista/corporativo caratterizzato dalla “diarchia” Re-Capo del governo, ossia un sistema democratico privo di vertici “monocratici”.
Dopo sessantaquattro anni dall’entrata in vigore della Costituzione democratica e antifascista, ci troviamo travolti, invece, da una crisi non solo istituzionale ma anche politico-sociale, nel cui ambito il “relitto storico” di un organo-potere di poco affievolitosi rispetto all’apogeo dell’assolutismo precedente la nascita dello “stato moderno”, è stato coinvolto in un trama di rapporti istituzionali che – per il tramite di cinque Presidenti della Repubblica (Pertini, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano) – ha contribuito a destrutturare la forma di stato e la forma di governo delineate dalla Costituzione, sicché il modello di Repubblica parlamentare che avrebbe dovuto aprirsi al protagonismo incisivo delle forme di partecipazione sociale e politica risulta ridotto ormai a “relitto storico”, sia pur nella continuità della sopravvivenza formale dei suoi punti cardine, ad onta dei ripetuti tentativi di “revisionismo” posti in essere dagli anni Ottanta del Novecento in poi.
Fra le cause generatrici dell’alterazione del modello democratico occorre richiamare il trasformismo ideologico e politico della classe dirigente che ha avallato il consolidarsi di un assetto istituzionale divergente dalle prescrizioni del modello costituzionale e legittimato gli strappi inferti alla legittimità dell’azione istituzionale, che si sarebbe dovuta svolgere, invece, in modo coerente con le caratteristiche della forma di governo parlamentare. Si è assistito, infatti, all’incremento di comportamenti non trasparenti e, quindi, lesivi della “sovranità popolare” posti in essere dai “Capi di Stato-rappresentanti dell’unità nazionale”, che hanno trovato copertura nel ruolo oscuro che la figura del Presidente della Repubblica è venuta assumendo nei vari settennati.
In questo contesto si colloca l’incontinenza che ha indotto il Presidente della Repubblica a sollevare, nell’imminenza dello scadere del mandato, un conflitto di attribuzioni con la magistratura, le cui ragioni poggiano su cause di fondo ben più rilevanti dall’asserita necessità di provvedere – sulla base di un’asistematica interpretazione delle norme vigenti – “all’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali” concernenti il Presidente medesimo.
A fronte di una problematica che coinvolge la questione della responsabilità penale per gli atti del Presidente della Repubblica posti in essere “fuori dell’esercizio delle sue funzioni”, non si può non evidenziare la gravità politico-istituzionale di eventi che coinvolgono un ex Ministro degli interni per comportamenti concernenti la controversa, intricata e debordante questione della c.d. “trattativa stato-mafia”, di cui si hanno riscontri in sede giudiziaria e sulla quale grava un assordante silenzio foriero di corrività plurime e autorevoli in sede politico-parlamentare, ossia proprio nella sede che dovrebbe costituire il reale punto nodale dell’esercizio di poteri in nome del popolo sovrano.
Occorre osservare, del resto, come i profili “giuridici” delle questioni concernenti l’esercizio di competenze ricollegabili ai vari rapporti istituzionali, coinvolgano, necessariamente, anche i significati “politici” delle questioni medesime. Basti considerare, a questo proposito, i conflitti di attribuzione in materia già decisi dalla Corte Costituzionale. Non si può evitare, peraltro, di cogliere l’occasione per collocare l’insieme degli elementi ricavabili dalle esperienze recenti nel quadro complessivo che il “settennato” – ormai in scadenza – concorre a delineare.
Si deve rilevare, comunque, come in tutte le esperienze di conflitti di attribuzione concernenti le competenze del Presidente della Repubblica, abbia finito con l’affermarsi una metodologia interpretativa tesa a qualificare i “poteri presidenziali” ben oltre l’ambito delineato dall’art. 87 Cost.
Questa interpretazione estensiva ha potuto radicarsi anche in virtù delle lacune previsionali prospettate dall’articolo medesimo, il quale racchiude una sorta di “elenco” di attribuzioni che non appaiono, tuttavia, esaustive ai fini di una ricostruzione completa della posizione del Capo dello Stato nell’ambito di un sistema politico-parlamentare improntato sulla “sovranità popolare”.
Non appare opportuno, pertanto, concentrare l’analisi su singoli atti o comportamenti del Capo dello Stato, ma occorre valutare, piuttosto, nel solco degli andamenti della storia politico-istituzionale, la valenza che tali atti e comportamenti hanno assunto nel corso delle dinamiche istituzionali complessive dell’ultimo ventennio, comprese quelle più recenti. Questo approccio organico e complessivo, richiede che l’analisi non debba essere rivolta riduttivamente all’esame del compendio delle singole competenze del Capo dello Stato, ma debba spingersi a valutare la natura del suo ruolo nell’ambito del sistema dei rapporti politico-istituzionali disciplinati dalla Costituzione.
Si potrà comprendere, in questo modo, come gli atti ed i comportamenti posti in essere dal Capo dello Stato, non possano considerarsi “episodici”, bensì espressivi di una tendenza degenerativa del modello costituzionale, operante ormai da tempo.
Basti pensare, a questo proposito, alla connessione tra le inopinate dimissioni del governo di centrodestra rese in mancanza di un voto di sfiducia e la nomina “ex abrupto” di un senatore di diritto effettuata allo scopo di conferirgli la titolarità della presidenza del consiglio, cui ha fatto seguito la votazione di una “fiducia” ottenuta mediante la sommatoria dei voti parlamentari delle due opposte coalizioni politiche.
Per comprendere sino in fondo le ambiguità che permeano le attribuzioni del Capo dello Stato, è sufficiente, comunque, annotare le varie concettualizzazioni elaborate dalla dottrina, che si sono nutrite degli equivoci strutturali della forma di governo presenti in tutti gli ordinamenti costituzionali contemporanei a partire da quelli definiti di “democrazia classica” (Gran Bretagna, Usa).
Questa chiarificazione appare fondamentale in relazione al modello costituzionale italiano che risulta democraticamente più avanzato rispetto ai modelli costituzionali degli altri Paesi occidentali, perché imperniato sulla “centralità del parlamento” (oggi tanto demonizzata) e, in specie, sul sistema del “bicameralismo eguale”, sia pur “corretto” e “corrotto” dal ruolo proteiforme assegnato al Capo dello Stato.
Anche a voler considerare – sia pur con qualche forzatura – l’art. 87 Cost. esaustivo dell’insieme delle qualificazioni ascrivibili alla figura del Presidente della Repubblica, non si può, comunque, non evidenziare come la natura “monocratica” del “relitto storico-Capo dello Stato” incida in modo rilevante – con il suo carico di ambiguità – sulle caratteristiche democratiche dell’ordinamento costituzionale.
Il Presidente della Repubblica è stato considerato – in virtù della qualifica di “rappresentante dell’unità nazionale” conferitagli dall’art. 87 Cost. – come “potere neutro”. Si è voluta qualificare, in tal modo, la titolarità di una funzione autonoma svolta “super partes” e nel tentativo di attribuire un significato non elusivo alla “neutralità” si è fatto ricorso alla nozione di “imparzialità” considerata come caratteristica inerente alle modalità di svolgimento dei compiti di controllo e coordinamento delle altre funzioni statali. Su tali basi gli è stata riconosciuta una funzione di “garanzia” da svolgere nelle dinamiche fisiologiche e patologiche del sistema ed è stato qualificato, di conseguenza, come “arbitro tra le forze politiche” e “custode” della Costituzione, in quanto partecipe delle funzioni degli altri poteri statali, pur non occupando una posizione di “vertice” rispetto ad essi.
Non si è mancato di evidenziare, peraltro, come questo “potere intermediario” eserciti – nella ricerca di una sintesi e di una solidarietà tra le forze politiche – una funzione di “impulso” rispetto alla politica governativa, giungendo ad esercitare un’influenza sulle decisioni politiche. Si è sostenuto, del resto, che il Capo dello Stato possiede la “contitolarità dell’indirizzo politico costituzionale”, in quanto controlla l’indirizzo politico di maggioranza. Si è giunti, infine, ad immaginare la figura di “reggitore” dello stato o a configurare quella di organo attraversato dal c.d. primo “circuito sussidiario” necessario per surrogare il normale circuito democratico parlamentare.
Si può rilevare, pertanto, come queste formule non possiedano una capacità esplicativa reale ed esprimano una concezione fondata sulla “personalizzazione del potere”, ossia sul potere conferito ad un’unica persona che non potrà non agire in base alle proprie ispirazioni umane e politiche. La dottrina dominante attribuisce, del resto, uno scarso peso al passaggio monarchia-repubblica e giunge a sminuire la portata del principio rappresentativo, che contraddistingue le forme di stato democratiche rispetto a quelle dinastiche. Il principio di “rappresentatività” ha permeato, del resto, gli stessi ordinamenti dinastici, com’è dimostrato dal fatto che le forme “monarchico-costituzionali” si differenziano dalle altre forme dinastiche, per il tipo di conformazione che il suddetto principio imprime al ruolo e alle funzioni dell’organo “monocratico”.
La permanenza della figura del Capo dello Stato implementa, quindi, la produzione di effetti distorsivi, perché i suoi fondamenti storico-culturali risultano incompatibili con la forma repubblicana e, in specie, con quella delineata dalla Costituzione italiana, la cui natura democratica risulta accentuata dalla previsione costituzionale che attribuisce la sovranità al popolo e non allo “stato-persona”. Gli organi costituzionali dovrebbero sviluppare, pertanto, le caratteristiche democratiche del nostro modello costituzionale, senza alterarle o deformarle con il ruolo pervasivo di un organo ormai privo della “sacralità” riconosciutagli dal regime monarchico. La notazione acquista maggior rilievo se si pone attenzione alla congerie di questioni collegate ai rapporti fra il Capo dello Stato ed il Governo a partire da quella concernente l’istituto della controfirma in caso di autorizzazione del Presidente della Repubblica alla presentazione dei disegni di legge di iniziativa governativa alle Camere (art.87 Cost.), per giungere a quella concernente l’istituto della controfirma funzionale alla garanzia dell’irresponsabilità politica del Capo dello Stato (art. 89 Cost.).
Risultano singolari, a questo proposito, le posizioni dottrinali che – nel timore di una possibile attenuazione del ruolo del sindacato del Capo dello Stato sulle iniziative del Governo – hanno rimarcato la pregnanza effettiva dell’autorizzazione presidenziale alla presentazione dei disegni di legge governativi ed hanno evidenziato, di conseguenza, che la controfirma non rappresenta un semplice “residuo storico”. Si deve evidenziare, viceversa, come questi orientamenti che sono spesso condizionati dai concreti svolgimenti politico-istituzionali, non si rivelino coerenti con i canoni democratici della forma di governo parlamentare imperniata sul principio della sovranità popolare. Basti pensare, a questo proposito, agli indirizzi dottrinali che considerano l’autorizzazione presidenziale come un “veto sospensivo” (persino, in c.d. forma “riservata”) funzionale allo svolgimento del “riesame”. Si individua, insomma, un’analogia con l’istituto del “veto sospensivo” funzionale al riesame parlamentare delle leggi che deve tener conto delle indicazioni contenute nel messaggio motivato di rinvio (artt.74 e 87 Cost.) e sulla base di tale premessa si allude, in modo indiretto, all’esistenza di un rapporto tra Capo dello Stato e Governo simile a quello esistente tra Capo dello Stato e Parlamento.
Queste problematiche ci mettono, quindi, a contatto con tutto il peso del dibattito sviluppatosi sulla questione della “controfirma”, che ha visto sedimentarsi quell’impostazione metodologica che qualifica alcuni atti come “presidenziali” ed altri come “governativi” a seconda che rientrino o meno nella competenza prevalente del Presidente della repubblica. Occorre evidenziare, a questo proposito, come i fautori di questa impostazione ritengano possibile, da un lato, operare una selezione nell’ambito della collaborazione tra il Capo dello Stato e i Ministri, ma non riescano a spiegare, dall’altro, le ragioni per cui la nomina dei cinque giudici della Corte costituzionale e dei cinque senatori a vita, la promulgazione della legge, il rinvio della legge al Parlamento, possano trasformare, volta a volta, la “collaborazione” del Presidente o dei Ministri in “controllo”.
L’impostazione dottrinale dominante, con il pretesto di individuare gli elementi necessari per adeguare alla realtà la valutazione dei rapporti tra i due organi (il primo dei quali non può più esser considerato “organo del potere esecutivo”), persegue, in realtà, il fine di celare valutazioni di carattere politico che incidono sulla qualificazione giuridica degli atti accompagnati da controfirma.
La figura del Capo dello Stato complica, quindi, le questioni definitorie concernenti i rapporti istituzionali che intercorrono fra essa e il Governo. Una soluzione al problema non sembra provenire, del resto, dalle opinioni che riconoscono al Capo dello Stato una posizione di c.d. “autonomia” (in sostanza, di “quarto potere”) nello svolgimento delle funzioni di cooperazione all’indirizzo politico considerato come “fonte normativa” direttamente subordinata alla Costituzione. La nozione di “autonomia” è definita, infatti, in termini astratti e rischia, quindi, di svolgere una funzione di legittimazione dell’incidenza del ruolo Capo dello Stato negli ambiti di competenza degli altri organi costituzionali e di riportare, quindi, la sua figura nel solco della “tradizione”. Nonostante si specifichi che il Capo dello Stato “coopera all’indirizzo politico” mediante un’“influenza indiretta”, non si può non rilevare come essa risulti, in realtà, molto ampia in ragione delle varie funzioni cui gli atti del Capo dello Stato si connettono. La corretta individuazione del ruolo attribuito dalla Costituzione al Capo dello Stato presuppone, invece, un’analisi delle differenti fasi storico-politiche e, su tali basi, una valutazione delle caratteristiche strutturali che contraddistinguono la forma “monarchica” da quella “repubblicana”.
La dottrina giuridica produce, quindi, sofisticazioni scarsamente feconde perché assume la “giuridicità” come categoria “razionalizzatrice” prescindendo dalla storia e dalla politica, salvo a dover annotare il peso e l’incidenza di un processo storico che nulla vale a cancellare, come si ammette implicitamente quando si osserva che, nell’ambito della monarchia limitata, il sovrano era “titolare dell’indirizzo politico”.
Gli studi che hanno analizzato gli interventi principali dei Capi di Stato nel periodo 1948-2012 allo scopo di valutare la natura dei rapporti tra Capo dello Stato, Governo e Parlamento, hanno evidenziato, comunque, come gli atti ed i comportamenti dei Presidenti della Repubblica siano stati contraddistinti dalle differenti personalità politico-culturali dei soggetti titolari della carica. A prescindere dalle attribuzioni radicate (o radicabili) in singole norme costituzionali e dalle qualifiche escogitate per definire le funzioni del Capo dello Stato (neutra; di garanzia; di arbitro; di custode; di intermediario), si è evidenziato, insomma, come sia emersa una vasta gamma di manifestazioni di “potere” espressive della personalità dei singoli Capi di Stato e, quindi, del modo in cui essi si sono rapportati istituzionalmente alle dinamiche specifiche dei vari processi politico-istituzionali. Una gamma che risulta talmente ampia da riempire pagine intere di “manuali” articolati in “rubriche”.
Il rischio di fenomeni distorsivi del ruolo del Capo dello Stato derivanti dalle ambiguità della disciplina concernente le attribuzioni del Capo dello Stato non era stato percepito nella fase costituente, né si era manifestato nella fase di avvio della forma di governo, quando pure si cercò di facilitare il transito dalla monarchia alla repubblica con l’elezione di Einaudi motivata dalla sua ascendenza “monarchica” e si utilizzarono come criteri di qualificazione reale del primo settennato le motivazioni di alcuni suoi interventi contenute nel volume intitolato: Lo Scrittoio del Presidente. Questo strumento fu utilizzato, infatti, dalla dottrina per tessere una tela interpretativa volta a delimitare il ruolo della “controfirma” in alcuni suoi atti, che furono considerati come mere attestazioni di regolarità formale.
Si deve riconoscere, in particolare, ai tre grandi partiti di massa e alla loro capacità di “concorrere alla determinazione della politica nazionale” con modalità costituzionalmente coerenti, il merito di avere delineato quel tracciato di rapporti politico-istituzionali che portò a declinare il ruolo del Capo dello Stato come “notarile”. A queste conclusioni si pervenne nonostante la serie eterogenea e contraddittoria di definizioni escogitate dalla dottrina per qualificare la figura del Capo dello Stato.
Se dev’essere valutato, comunque, positivamente il fatto che le Costituzioni contemporanee hanno attribuito alle forze politiche il compito di includere il Capo dello Stato nella trama complessa dei procedimenti politico-istituzionali determinando così il superamento delle forme di “assolutismo” più o meno “illuminato” che avevano contrassegnato le fasi precedenti la nascita stato moderno, non si può non rilevare, tuttavia, come la configurazione ambigua della figura del Capo dello Stato e l’ampiezza degli strumenti conferitigli possano porre le premesse per un grave vulnus alla democrazia e specie per il modello “avanzato” recepito dalla Costituzione italiana. Attraverso l’uso di tali strumenti il Capo dello Stato può incunearsi, infatti, nel sistema politico, svilendo la sovranità popolare. L’autonomia delle forze politiche risulta, infatti, fortemente circoscritta dagli ambiti sempre maggiori di autonomia riconosciuti al Capo dello Stato, che può esplicarsi sino al confine estremo dell’”alto tradimento” o dell’“attentato alla Costituzione” (art. 90 C.).
Ora a prescindere dal fatto che possa ritenersi plausibile che in questo tipo di infrazioni rientrino solo le fattispecie riconducibili a ipotesi di reato già previste dai codici penali, quel che appare inquietante osservare è come la dottrina e la prassi abbiano recepito dal mondo anglosassone il convincimento che al Capo dello Stato spetti una funzione di c.d. moral suasion che assorbe in sé ogni deviazione dal quadro istituzionale italiano, col rischio di riaccreditare l’esercizio di quel potere “invisibile” espressivo della “ragion di stato” della monarchia assoluta, il quale diviene così una sorta di categoria dello spirito che riaccredita la tesi schmittiana del “Capo dello Stato come decisore”, ossia quella prospettiva contrapposta a quella kelseniana che evidenzia, invece, l’antitesi tra la figura del Capo dello Stato e la concezione stessa della democrazia.
Occorre osservare, del resto, come nelle analisi dei giuristi si possa rilevare in misura maggiore – rispetto alle analisi dei filosofi della politica, dei politologi e dei sociologi – la presenza di mistificazioni concettuali che alterano la fisionomia delle istituzioni politiche del nostro ordinamento costituzionale.
I giuristi tendono ad eludere, infatti, la questione del “potere” come accade quando affrontano le questioni connesse al tema della “separazione dei poteri”. Essi si limitano, infatti, all’analisi dei soli profili “formali” dei rapporti, scindendoli da quelli “sostanziali”.
Un approccio coerente con la concezione organica della Costituzione dovrebbe caratterizzarsi, invece, non per la scomposizione delle articolazioni del sapere, ma per la loro connessione, che risulta essenziale per cogliere l’unità/totalità delle strutture della realtà sociale e politica. Il “potere” dev’essere considerato, pertanto, come una costante “organica” sia pur caratterizzata da sfaccettature che riflettono la diversa consistenza delle sue quote connesse alle attribuzioni (maggiori e minori) degli organi costituzionali, ossia alla diversa volontà degli organi che esercitano un’influenza sul sistema di relazioni complessive, le quali si traducono, appunto, in rapporti di potere.
Le tesi dominanti che rimarcano la posizione di “autonomia” del Capo dello Stato ponendola in connessione con l’esercizio della funzione di indirizzo politico , pur essendo sorrette da un linguaggio apparentemente idoneo a motivare il disancoraggio del Capo dello Stato dal potere esecutivo, finiscono col riproporre l’antistorica incombenza di un organo monocratico su un sistema democratico che punta vanamente a realizzare i suoi fini: sia perché il popolo perde progressivamente la sovranità a causa della manipolazione delle leggi elettorali, sia perché – in ragione di ciò – l’assemblea elettiva, già sottoposta a distorsioni a causa dello storico e arbitrario ripudio del mandato imperativo, risulta ormai priva di potere conseguente.
Il tentativo teorico di imperniare il Parlamento sul “potere di revoca” sperimentato nella storica Comune e rimasto, dopo Marx, senza patrocinatori, dovrebbe essere rivalorizzato dagli studiosi che intendono imprimere una svolta efficace alle derive sociali ed istituzionali dilaganti. Essi non dovrebbero attardarsi a perorare le ragioni di un’anodina “democrazia costituzionale” che affronta la questione dei “diritti” senza connetterla con la questione dei “poteri” e che identifica l’essenza della democrazia unicamente nel rispetto dei “limiti” costituzionali al potere legislativo e, quindi, nel ruolo svolto dal controllo di costituzionalità (peraltro nato negli USA).
Ne consegue che il sistema politico-istituzionale è interpretato in modo sbilenco, con il rischio di suffragare un’ulteriore concezione riduzionistica della sovranità popolare già resa schermo illusorio del circuito sovrastante relativo ai rapporti governo-parlamento che viene descritto, infatti, come un sistema al cui vertice è posto un Capo dello Stato cui si ricollega una funzione di c.d. “garanzia” che urta persino “formalmente” con il dettato costituzionale, il quale racchiude, invero, le Garanzie costituzionali nella forbice del ruolo complessivo della Corte Costituzionale (Tit. VI) chiamata a svolgere una funzione di garanzia dello svolgimento dei rapporti fra poteri coerente con i canoni fissati dalla Costituzione e, quindi, una funzione di garanzia della continuità dei Principi fondamentali rispetto alle dinamiche trasformatrici, che possono rinvenire una legittimazione solo entro i limiti procedurali e sostanziali statuiti dalla Costituzione per l’esercizio del consenso parlamentare e popolare.
Se, dunque, la figura del Capo dello Stato costituisce un “relitto storico”, occorre spostare l’asse della visione garantista dei rapporti intrinseci alla forma di governo, sul versante del ruolo più articolato della Corte Costituzionale, facendo leva sulla competenza concernente i conflitti tra i poteri dello Stato, che nella prassi sono stati surclassati dagli interventi della Corte sulle controversie relative alla legittimità delle leggi (e degli atti aventi forza di legge) dello stato e delle regioni, con il ben noto sovraccarico provocato dal maldestro cedimento alle pressioni pseudo autonomistiche miranti a provocare il passaggio dallo stato regionale allo stato c.d. federale.
La questione del “potere”, su cui i costituzionalisti non si soffermano, rinvia alla realtà dei rapporti di “forza” che la figura del Capo dello Stato – così come conformata dalla dottrina dominante – è indotta ad alimentare, poiché parte anch’essa di una dialettica cui partecipa con modalità varie consentitegli dall’essere considerata espressione della “suprema carica statale”. Occorre considerare, del resto, che in un regime repubblicano (sulla cui natura – come s’è detto – si è poco riflettuto), il Capo dello Stato si trova al centro di dinamiche istituzionali condizionate dal peso (variabile ma certo) della sua affinità con uno o più degli indirizzi politico-culturali caratterizzanti una democrazia pluralista, i quali sono riferibili alle maggioranze politiche non “governative” che sono alla base di elezioni presidenziali spesso assai contrastate a causa del quorum richiesto dall’art. 83 Cost. Senza che, per converso, la vagheggiata “imparzialità” dei candidati all’elezione di Presidente possa sottrarsi nei fatti agli obiettivi perseguiti dalle “parti” politiche che si disputano l’esito dell’elezione destinata a coprire ciascun “settennato”, cercando di incidere con il potere di maggioranza “governativa” sul potere di “unità nazionale”: sicché in presenza di un modello “monocratico” di Capo dello Stato non si può eludere il fatto che il potere della sua elezione costituisce l’effetto di una decisione politica implicante – con la volontà di scelta dei candidati – l’esercizio di una “funzione” il cui disimpegno entra a far parte delle “dinamiche” caratterizzanti la forma di governo fissata costituzionalmente.
Appare necessario, quindi, superare il carattere “monocratico” dell’organo, trasferendo ad un’istituzione “collegiale” la competenza a giudicare la legittimità degli atti che esprimono la collaborazione tra governo e parlamento come più avanti prospettata. Non si tratta, però, di ipotizzare soluzioni come quella respinta dal voto referendario del 2006 intesa ad evitare l’emanazione del decreto presidenziale di scioglimento delle Camere tramite la votazione di una mozione per appello nominale mirante a sancire la continuità di un programma di legislatura in crisi, ma occorre eliminare, piuttosto, il rischio di ostacoli al libero svolgersi della dialettica politica ivi compresa quella che si traduce nella scelta delle forze politiche di interrompere il mandato politico. Si dovrebbe eliminare, in specie, quella sorta di dualismo tra “nomina” del Presidente del Consiglio e “voto di fiducia” parlamentare che inquina la genuinità di un regime imperniato sulla forma di governo parlamentare. I voti di fiducia e di sfiducia costituiscono, infatti, gli strumenti istituzionali idonei e sufficienti per garantire lo svolgimento di una dialettica tra corpo elettorale parlamento e governo coerente con il principio fondamentale della sovranità popolare.
L’“imparzialità” presunta e la “neutralità” apparente del Capo dello Stato costituiscono, quindi, uno schermo che nasconde l’assenza di una trasparenza effettiva e, quindi, di un requisito essenziale per un reale sistema democratico. La mancanza di trasparenza spinge, infatti, i cittadini colpiti dagli effetti socialmente dannosi della frattura fra “palazzo” e “popolo”, ad aderire a progetti politici trasformisti, frazionisti e populisti o a legittimare comportamenti politici di stampo criminale.
La verticalizzazione del potere determina, con le sue oscurità, sfiducia nei confronti delle istituzioni, come è accaduto, del resto, in occasione della condotta istituzionale assunta, di recente, dal Capo dello Stato che, oltre ad aver sollevato un conflitto di attribuzioni nei confronti della magistratura, ha posto in essere tre comportamenti significativi: ha coperto le dimissioni inopinate (per quanto condivise da una parte dell’elettorato “bipolare”) del Presidente del consiglio e si è avvalso della prerogativa di nominare “senatore a vita” un personaggio considerato così “benemerito” da meritarsi la nomina a Presidente del Consiglio.
Questi comportamenti ambigui sono stati adottati sotto la spinta dell’Unione europea che esercita un’influenza pervasiva anche sull’autonomia politica degli Stati membri, servendosi della mediazione dei Capi di stato e di governo che – in nome dell’europeismo e sotto il ricatto dei default finanziari – sono riusciti ad imporre la nomina di governi “tecnici” ritenuti capaci di porre le premesse per il risanamento delle finanze pubbliche. Le forze politiche italiane – i cui rapporti sono ormai contrassegnati da una bellicosità condita di corruttele inarrestabili – hanno mescolato, pertanto, i rispettivi voti di fiducia per dar vita ad una formula di governo che è stata definita “strana” maggioranza o “nuova convergenza parallela”, nonostante l’enfasi posta sui difetti e sulle distorsioni della c.d. “prima repubblica”.
Ci troviamo, insomma, nel pieno di uno snaturamento istituzionale che risulta aggravato dal ruolo del Capo dello Stato divenuto centro ispiratore di sconvolgimenti incisivi della forma di governo. Basti pensare al ruolo di “picconatore” svolto dal Capo dello Stato agli inizi degli anni ’90 ed alla pervicacia interventista manifestata da quello in carica. Occorre predisporre, pertanto, una linea di rilegittimazione delle implicazioni organizzative dello Stato fondato sulla sovranità popolare, in direzione nettamente antipresidenzialista.
Franco Cordero, nel suo contributo autorevole pubblicato su Micromega (fasc. n. 8/2012) a complemento della “memoria” di costituzione della Procura della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzioni promosso dal Presidente Napolitano, ha evidenziato come la figura del Capo dello Stato stia perdendo le caratteristiche di “presidente” per assumere quelle di “sovrano”.
Questo valido rilievo costituisce la premessa necessaria per avanzare una proposta coerente con le caratteristiche della nostra forma di stato e di governo, ossia quella di collocare i poteri del Capo dello Stato nelle competenze di un “organo collegiale” suscettibile, per sua natura, di superare le deviazioni derivanti dalla scelta di conferire “natura monocratica” agli organi costituzionali.
Le suddette deviazioni appaiono vieppiù evidenti nella fase attuale contrassegnata da un’alterazione “personalistica” del sistema politico-istituzionale assediato da lobbies e da manifestazioni di potere che si rincorrono da Roma a Bruxelles, in un’orbita in cui il potere stesso finisce col svelare la sua “nudità” pur celata dallo schermo di “informalità” debordanti dai principi posti a fondamento del nostro modello “democratico-sociale”.
Al di là delle motivazioni poste a supporto dell’esorbitante protezione riconosciuta al Capo dello Stato in materia di intercettazioni telefoniche, quel che colpisce della sentenza n. 1/2013 è costituito dal fatto che la Corte ha utilizzato la sua peculiare funzione di garanzia in modo tale da evocare il noto brocardo “quis custodiet custodies”. Le considerazioni svolte nella valutazione “complessiva” delle attribuzioni costituzionali del Presidente della Repubblica, se non configurano “un fuor d’opera” tendono, invero, a “provar troppo”.
La Corte – dopo aver affermato che il Capo dello Stato in quanto organo collocato al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato, si colloca “naturalmente al di sopra di tutte le parti politiche” (non menzionando in modo singolare gli “organi del sistema dei tre poteri”) – ha soggiunto che tale singolare posizione differenziale non incide “sul principio di parità tra gli stessi”. Ha sostenuto, inoltre, che le attribuzioni del Presidente della Repubblica non implicano, per loro natura, “il potere di adottare decisioni nel merito di specifiche materie”, ma ha evidenziato, nel contempo, che il Presidente è titolare di propri poteri formali estrinsecantesi nell’emanazione di “atti determinati e puntuali previsti dalla Costituzione”. E’ giunta, infine, a legittimare l’uso di “attività informali” connesse inestricabilmente a quelle “formali” sostenendo addirittura che la suddetta attività informale “costituisce il cuore del ruolo presidenziale nella forma di governo italiana” (v. par. n. 8.2 e n. 8.3). Il senso di queste argomentazioni risulta, poi, aggravato dal fatto che la sentenza rafforza la legittimazione del c.d. “potere di persuasione” (moral suasion), considerandolo come manifestazione di un ruolo di inedita “magistratura di influenza” che, in quanto tale, “deve poter contare sulla riservatezza assoluta” non solo rispetto ad “una specifica funzione”, ma per “l’efficace esercizio di tutte” (v. par. 9).
Si comprende, pertanto, come – a seguito dell’emanazione di tale sentenza – emerga la necessità di riconsiderare, sin dalle origini, la questione del ruolo del Presidente della Repubblica come “rappresentante dell’unità nazionale” per verificare se a ciò sia rapportabile l’invalidazione della tradizionale teoria della divisione dei poteri mediante l’aggiunta di un “quarto potere” a quello esecutivo, a quello legislativo ed a quello giurisdizionale. Se è vero, infatti, che il Capo dello Stato è un organo autonomo ed indipendente, resta da valutare se e come anche gli altri organi della divisione dei poteri siano inquadrabili nel sistema politico-istituzionale in condizioni di rispettiva autonomia ed indipendenza.
Una volta acquisito dalla storia costituzionale il superamento della posizione “regia” del Capo dello Stato come “capo dell’esecutivo” (pur meccanicamente ed incoerentemente riproposta nei governi parlamentari europei), si impone la necessità di attribuire al Presidente della Repubblica un ruolo coerente con le esigenze di sviluppo dei sistemi politico-istituzionali che mirano a realizzare una democrazia integrale, ossia un modello democratico che non tollera il primato dei “poteri monocratici” e che deve, quindi, essere imperniato su un’organizzazione del potere fondata sul primato degli “organi collegiali” a partire dal corpo elettorale e via via risalendo agli altri organi della divisione dei poteri (Camere, Consiglio dei Ministri, Corte costituzionale).
Va aperta, pertanto, in sede dottrinale e politica, una discussione che – prima di prospettare proposte di revisione costituzionale oggi immature e destabilizzanti – ponga le premesse per abolire la natura “monocratica” del Presidente della Repubblica, investendo tutte le attribuzioni previste su due distinti fronti.
Occorrerebbe conferire, in primo luogo, ad una sezione della Corte costituzionale i compiti di controllo “giuridico-formale” degli atti sin qui rimessi al raccordo Capo dello Stato-Governo: autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge governativi alle Camere (art. 87, quarto comma, Cost.); promulgazione delle leggi ed emanazione degli atti aventi forza di legge e dei regolamenti (art. 87, quinto comma, Cost.); concezione della grazia e commutazione delle pene (art. 87, undicesimo comma, Cost.).
Bisognerebbe, in secondo luogo, statuire – in vista di una futura revisione costituzionale che sostituisca l’organo “monocratico” con un organo “collegiale” simile a quello svizzero – una “convenzione costituzionale” capace di avviare un processo di transizione circa i rapporti di tipo politico che il Capo dello Stato è abilitato ad intrattenere con il Parlamento (rinvio delle leggi alle Camere: art. 74, primo comma, Cost.; ratifica dei trattati internazionali: art. 87, ottavo comma, Cost.; dichiarazione dello Stato di guerra: art. 87, nono comma, Cost.).
L’indicata convenzione potrebbe instaurarsi prima della creazione di un organo collegiale e dovrebbe stabilire l’instaurazione, in tutti gli ambiti di competenza, di un raccordo fra l’organo “monocratico” e gli altri organi (individuali e collegiali) simile a quello previsto dall’art. 88 Cost. Secondo questa previsione, infatti, il Presidente della Repubblica può sciogliere le Camere o una sola di esse, solo dopo aver “sentito i loro Presidenti”. Il raccordo del Capo dello Stato con gli altri organi potrebbe concretarsi in una collaborazione sistematica dell’organo monocratico con i Presidenti o anche con gli uffici di Presidenza delle due Camere, imputando formalmente al Capo dello Stato l’esito delle consultazioni intrattenute con i vertici sopraindicati.
Tale innovazione avrebbe un peso significativo se applicata alla nomina del Presidente del Consiglio specie in occasione di crisi extraparlamentari, collegandosi oltretutto alle modalità con cui è già previsto il modo di procedere allo scioglimento delle Camere.
Sulla base di tali premesse, sembra importante rimarcare come verrebbero a cadere tutte le varianti interpretative soprariassunte, che inducono la dottrina ad immergersi nell’ambiguità delle norme vigenti.
Estendendo il circuito delle relazioni delineato dall’art. 88 Cost. all’ambito di operatività delle altre norme costituzionali, si potrebbe garantire un minimo di trasparenza ritenuto oggi impossibile e financo vietato (come sembra evincersi dai pronunciamenti della Corte costituzionale).
Va osservato, a tal proposito, come il suddetto tipo di raccordo potrebbe applicarsi anche alle modalità di scelta dei candidati alla nomina dei dieci membri della Corte costituzionale ripartiti tra Presidente della Repubblica e Parlamento, superando in questo modo la necessità dell’anodina distinzione tra atti c.d. “presidenziali” e atti c.d. “governativi”.
* Costituzionalista, già ordinario di Diritto pubblico nell’Università di Pisa
da MicroMega (2 maggio 2013)
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