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La terra dei fuochi e la terra dei buchi

La provvidenziale presa di coscienza del significato e della collocazione geografica della cosiddetta “Terra dei fuochi”, ha improvvisamente ricordato a tutti il prezzo da pagare quando ci si relaziona col territorio secondo logiche di vampirismo e illegalità. Quelle campagne devastate sono state per decenni il campo su cui si scontravano prima e si accordavano poi, le istituzioni e il crimine organizzato. Andava in scena la rivisitazione farsesca di un archetipo narrativo millenario: quello delle guardie e dei ladri. Le guardie inseguivano i ladri, finché non è stato più possibile distinguere le une dagli altri. In realtà sotto i nostri occhi, si stava già consumando il processo di assimilazione tra stato e anti-stato. La campagna non era più parte di un territorio da tutelare – tuttavia già regolarmente devastato da anni sotto altri punti di vista – né era più motore di un’economia da preservare e sostenere. Ogni singola zolla di terra poteva essere sacrificata a interessi superiori, ceduta a terzi con il tacito consenso di due intere generazioni di politici e funzionari di stato che giravano lo sguardo altrove. Per poi diventare colluse.

Le campagne tra Napoli e Caserta diventarono in breve una sconfinata discarica a cielo aperto, una terra di nessuno. Una miniera d’oro.

Contadini e piccoli possidenti terrieri non avevano scelta, di fronte all’imposizione criminale, e si trovarono costrette a svendere le proprie terre ai clan di camorra. In arrivo c’erano carovane di camion carichi di scorie industriali, da interrare a basso costo per conto di un imprecisato numero di imprese del nord Italia e di mezza Europa.

Oggi il processo di assimilazione tra stato e anti-stato è ormai giunto a compimento. Perché? Perché dopo trent’anni di osservazione muta e passiva da parte di istituzioni, classe politica, cittadinanza e cosiddetta “società civile” – eccezion fatta per quei pochi giornalisti kamikaze che negli anni hanno rischiato la vita per denunciare – va in scena un’altra formidabile commedia: quella dell’indignazione collettiva. L’attore protagonista è il duro intervento dello stato.

 

Si apre il sipario.

La commedia comincia con una serie di provvedimenti d’urgenza delle prefetture a tutela del territorio, cui segue un’ondata di sequestri dei terreni contaminati, con portavoce della Guardia di Finanza a caccia di telecamere davanti alle quali vantare i propri risultati. Su quegli stessi terreni fino al giorno prima si coltivava in modo intensivo ogni tipo di verdura e si lasciavano pascolare mandrie di bufale che si abbeveravano con acque contaminate. Il mercato dei veleni cioè, estendeva la propria filiera fino a contaminare in modo irreversibile la catena alimentare. In superficie fiorivano rigogliose zucchine, trionfavano cavolfiori che sembravano scoppiare di salute. Dieci metri sottoterra, fermentava e schiumava ogni tipo di veleno proibito. L’incidenza di tumori sulla popolazione locale è aumentata al punto tale che non si può nemmeno quantificare. L’interrogatorio del pentito di camorra Carmine Schiavone, risalente al 1997, nel quale tracciava in modo attendibile dinamiche e mappatura dello sversamento dei rifiuti in Campania,  viene desecretato dallo stato dopo diciotto anni. Diciotto anni in cui il clan dei Casalesi e i loro alleati hanno continuato indisturbati a distruggere il territorio, a uccidere, a fare profitti.

Oggi, l’improvvisa corsa ai ripari. Il business che si consumava sotto gli occhi di tutti e che evidentemente non portava più profitti, è arrivato al capolinea. Dopo la studiata e complice indifferenza istituzionale, durata tre decenni, il risultato è una porzione di territorio da bonificare talmente estesa, che probabilmente non si potrà mai recuperare. Per decontaminare le falde acquifere bisognerebbe drenare fiumi e canali artificiali, scavare in profondità nei terreni, trasformando quella che un tempo si chiamava Campania Felix – per le caratteristiche uniche di fertilità e prosperità – in uno scorcio lunare.

Non ci sono soldi, né ci saranno mai, e se il processo di bonifica dovesse mai attivarsi, diverrebbe l’ennesimo business milionario per quegli incurabili cancri locali che sono i clan di camorra. Entità libere, sovrastatali, eversive, che da sempre contano e per sempre potranno contare su politici, imprenditori e larghissime fasce di elettorato da rivendere al miglior candidato colluso.

L’economia dell’ex Campania Felix è completamente degradata e l’impatto letale sulla salute pubblica è diventato ormai un processo irreversibile.

Percorrendo le superstrade che attraversano l’agro aversano e l’agro nolano, la terra dei fuochi si mostra in tutto il suo orrore. Il cielo è oscurato da un velo giallastro che fa impallidire il sole. Nell’aria c’è un permanente odore di bruciato stantìo, quasi atavico, come fosse diventato parte integrante dell’atmosfera.

È l’esperienza sensoriale l’unico metro che consente di comprendere a fondo il significato di “terra morta”. Morta nell’indifferenza di tutti; morta nella paura e nella rabbia di coloro che non avevano altra scelta che piegare la testa di fronte ai feudatari della camorra e ai loro fiancheggiatori politici. Morta perché sventrata, saccheggiata, dissanguata, avvelenata.

Il cuore della terra dei fuochi è un paese chiamato Caivano, un grumo di cemento infestato dalla criminalità, situato tra Caserta e Napoli.

Per arrivare da Caivano a Chiomonte, in provincia di Torino, nella ridente Val di Susa, bisogna percorrere 933 chilometri. Occorre una giornata di viaggio da sud a nord per andare a constatare da vicino quanto, in fin dei conti, cambino gli scenari ma non la fame di devastazione, né la cupidigia che vuol trasformare il territorio in denaro. Gli attori della commedia di stato che si sta consumando in Campania, in Piemonte cambiano semplicemente posizioni e funzioni, ma il proscenio è sempre lo stesso: la terra.

Anche la posta in gioco è la stessa: il diritto alla vita, alla salute e alla conservazione del proprio territorio.

In Val di Susa la natura trionfa ancora, tra montagne e fiumi incontaminati. Ogni roccia racconta il fluire indisturbato della vita, ogni albero testimonia la millenaria e armoniosa convivenza tra l’uomo e l’ambiente.

Il cantiere della Maddalena nega tutto ciò; testimonia invece l’innato talento dell’uomo contemporaneo a modificare irreversibilmente il corso della natura.

È proprio qui, tra queste montagne che si consuma ogni giorno un paradosso, per certi versi opposto ma speculare a quanto accade in Campania.

Qui in Val di Susa, le dinamiche di usurpazione del territorio non sono più appannaggio della criminalità organizzata, ma dello stato. Lo squarcio aperto nel cuore della valle ricorda una gigantesca coltellata, che non potrà mai rimarginarsi,  e a presidiare lo scempio non ci sono le falangi armate dei clan camorristici, ma schieramenti di forza pubblica paragonabili solo a quelli dispiegati sugli scenari di guerra.

In valle le regole democratiche diventano valori relativi. Lo stato chiede alla comunità valsusina una cieca obbedienza istituzionale e basta, dichiarandole di fatto una guerra non convenzionale.

Proprio di guerra atipica Albert Camus parla, come sempre esemplarmente, nel suo “Mi rivolto dunque siamo. Scritti politici”.  Abbandonando l’idea comunemente riconosciuta di guerra convenzionale, Camus esorta all’ “essere attraverso la rivolta”, tenendo conto di ben altre guerre: quelle combattute nella quotidianità.

Nel caso della “Terra dei Buchi”, quale la Val di Susa sta diventando, questa guerra si consuma nella crudeltà silenziosa delle leggi – ovvero guerra avallata dal sistema giuridico in toto – applicate in modo predeterminato e cieco, a danno di coloro che ritengono di doversi opporre al peso schiacciante di decisioni piovute dall’alto e nelle quali non possono riconoscersi.

Questa anomalia bellica, espressa su un terreno di scontro principalmente politico, nega la partecipazione diretta agli interessi collettivi, rifiuta il riconoscimento di una comunità come un insieme politico, autocosciente, maturo e attivo. È per questo motivo che la ribellione è principalmente un attacco frontale a una politica che si organizza in forme esclusivamente totalitarie.

Nella martoriata Terra dei Fuochi, i camion carichi di scorie radioattive arrivavano di notte, a fari spenti, col passo felpato dei ladri. Non incontravano resistenze, né sbarramenti legalitari, né posti di polizia alla maniera palestinese. Non trovavano magistrati solerti, appassionati di diritto al punto tale da formulare decine di ipotesi di reato per ogni vago sospetto di illecito commesso. Non c’erano magistrati creativi come quelli della procura di Torino. In Campania la presenza dello stato era come una sagoma di cartone di un film horror. Vista frontalmente incuteva timore, ma bastava guardarla di spalle per capire che era finta.

In Val di Susa lo stato si manifesta alla luce del sole, in quanto principale attore di un’organizzazione abnorme basata sulla cupidigia economica e sulla violenza sfavillante della legge. In questo sfacciato manifestarsi, lo stato emula perfettamente le forme dell’anti-stato che per decenni ha depredato il sud Italia. Le forme di controllo del territorio, minaccia, dissuasione, uso della forza, ricordano gli schemi percorsi dalla criminalità organizzata in Campania.

In Val di Susa il governo ha un’altra faccia, quella iper-realista; un quadro terribilmente vero di repressione e giustizia bulimica, una forza schiacciante, da far venire le vertigini e spingere alla conversione, alla resa.

La capacità di resistenza del popolo valsusino, tenace nel tempo, in costante auto-organizzazione e ri-organizzazione, è l’unico antidoto possibile. La combinazione di varie formule repressive alla quale stiamo assistendo in questa fase di contrasto alla lotta in Val di Susa, tenta di fiaccare l’immensa forza sovversiva di un popolo, smascherando una volta per tutte il reale obiettivo del governo. Stiamo parlando di un obiettivo politico preciso – seppur ancora allo stato embrionale – che valica i confini della valle e interessa l’umanità in generale: la riduzione in schiavitù. Schiavitù del pensiero. Schiavitù politica. Schiavitù delle decisioni. Schiavitù della partecipazione.

Il controllo del territorio valsusino è l’epifania diretta del tentativo governativo di ridurre un’intera enclave resistente in schiavitù.

Il momento repressivo, quello dello scontro di piazza, diretto, espresso nella canonica articolazione stato vs. antagonismo, è solo un  momento di passaggio infinitamente più piccolo del reale progetto sociopolitico. In Val di Susa si tenta di replicare, ancora una volta, un modello di stato totalitario, in cui il potere diventa centrale a discapito del singolo; centrale diventa la legge, intesa come massima espressione della forma totalitaria; centrale diventa la violenza repressiva, in quanto esecuzione tangibile di questo disegno.

L’estromissione della cittadinanza dalla vita politica locale e nazionale, è il fenomeno più evidente di questa nuova deriva. Una decisione impopolare e antieconomica, quale l’apertura di un cantiere di ingegneria pesante in un’oasi naturale (con tutti i significati che ben conosciamo), sopravvive grazie all’uso spregiudicato della legge.

Il raggio della repressione in Val di Susa è talmente allargato, da aver ormai da tempo superato le distinzioni sulla provenienza sociale e politica dei singoli cittadini oggetto dell’oppressione. Il sistema repressivo investe tutto e tutti come un fiume in piena. Non fa più differenze di sorta tra cittadinanza attiva e antagonismo, tra attività politica e partecipazione diretta; nel tentativo di sgretolare le normali forme assembleari e di confronto collettivo, i tentacoli governativi assimilano tutto nella definizione di “eversione”, generando quegli stessi rischi di destabilizzazione che dovrà poi combattere per giustificare (e determinare) la ben nota costruzione del nemico.

Ciò accade perché il “cerbero ultrastatalista”, fatto di magistratura, forza pubblica e imprenditorialità di partito, ha raggiunto un livello tale di sofisticazione e perfezionamento, da potersi permettere la certezza del risultato: scoraggiare la lotta col codice e col manganello, laddove ha fallito con la finta mediazione e con l’invito – squisitamente istituzionale – al moderato dissenso.

Del moderato dissenso i valsusini se ne sono fatti fanno ben poco, quando è diventato inganno, o pretesto per costruire menzogne e dissuadere le forze di opposizione.

Le questioni economiche e amministrative legate al cantiere, sollevate in Val di Susa da ormai quasi 25 anni con argomentazioni ferree e documentate, in questo momento storico coincidono in modo naturale con le riflessioni su repressione e ordine pubblico. Il livello dello scontro raggiunto pone al centro dell’analisi i limiti del diritto di ogni singolo cittadino a ribellarsi. Diritti che si restringono nel momento in cui la legge diventa un’arma di terrorismo psicologico e di ricatto, esercitata da un certo tipo di magistratura, sempre abile nell’evidenziarsi come braccio armato di un disegno politico-economico vasto, articolato e poco trasparente.

Quella magistratura che fa il paio con l’apparato repressivo dispiegato sul campo, straordinariamente efficace in tecniche e modalità di esecuzione che travalicano ormai le funzioni poliziesche, e assumono caratteri di militarizzazione.

Forse la Val di Susa ha superato anche lo status di laboratorio socio-politico. Le forme di partecipazione diretta hanno assunto un livello di complessità ed efficacia, tali da uscire indenni (anzi, rafforzate) dalle tempeste mediatiche e politiche che le hanno investite. Quello che era un laboratorio di resistenza e di nuove forme di organizzazione sociale, ha ora raggiunto lo status di vero e proprio modello.

 

Un modello da contrappore a quello, antitetico, di uno stato che ha svelato la propria incapacità di governare e di governarsi, di farsi luogo di confluenza dei diritti, centro di ascolto e di mediazione, ma che si avvia invece verso forme di oppressione ancora ignote, forse più mefitiche di quelle in cui si sta attualmente manifestando. Sia in Val di Susa che altrove.

 

Fonte: www.notav.info

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