In questi giorni infuriano le polemiche sulle contestazioni alle sedi del PD (quella nazionale e quella di via dei Giubbonari) avvenute nel corso della manifestazione contro il vertice tra Letta e Hollande di mercoledi a Roma.
Nel primo caso la contestazione era indicata come un obiettivo della mobilitazione contro il Tav in Val di Susa e dei poteri politici ed economici che lo sostengono. A meno di smentite, risulta a tutti che il PD locale e nazionale – tranne rare posizioni individuali- sostengano apertamente questo devastante progetto al quale si oppone da anni una intera popolazione. Nel secondo caso (via dei Giubbonari) la contestazione è apparsa del tutto casuale. E’ avvenuta solo perchè si trovava su una delle strade nella quale centinaia di manifestanti hanno cercato – senza riuscirvi causa abbondanti manganellate della polizia – di uscire da piazza Campo de’ Fiori in cui erano stati chiusi e circondati, con una sorta di assedio al contrario.
Ma la discussione come al solito esula dal contesto e si consegna direttamente alle emozioni, alla criminalizzazione e ai luoghi comuni.
Da un lato dirigenti nazionali e locali del PD denunciano la contestazione delle proprie sedi come un’aggressione a templi sacrali della democrazia (così come avvenuto nel recente passato per contestazioni alle sedi della Cisl da parte dei metalmeccanici). Dall’altra sono in molti – troppi viene da dire – che con una trasposizione psicologica e temporale confondono ancora il PD con il PCI. Che lo facciano i vecchi militanti di base, ancora convinti di stare nella stesso partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, si può capirlo ma non condividerlo, ma che lo facciano esponenti politici che sono stati testimoni o in altri casi hanno scientemente operato per la dissoluzione del Pci e la “democristianizzazione” del Pd, risulta francamente difficile da digerire.
Il PD del 2013 ha come segretario un uomo che viene dal Psi, ha come premier uno che viene dalla DC ed ha un candidato segretario con lo stesso background del premier. Non si può poi omettere che anche il sindacato di riferimento – la Cgil – sia oggi in mano ad una dirigente ex Psi. La fusione fredda voluta da Veltroni, D’Alema e company ha praticamente svuotato il partito degli uomini e delle donne provenienti da quello che era stato l’azionista di maggioranza del nuovo soggetto politico. Non che questi abbiano dato eccellenti prove di sé nel recente passato (vogliamo parlare dei due governi Prodi?), ma la “mutazione genetica” avviata nel Pci negli anni Ottanta ha partorito decisamente dei mostri politici.
Ma se questa è solo una diagnosi obiettiva sul piano politico, su quello dei contenuti le cose sono ancora peggiori. Non c’è solo il Si al Tav. C’è l’intera agenda delle questioni economico-sociali e della politica internazionale che fanno del PD il “partito di regime” di oggi, come lo era stata la DC ieri. Un partito espressione di quel “Napolitanistan” secondo l’azzeccata allegoria indicata da Il Fatto, che rappresenta la proiezione strategica degli interessi della classe dominante e della tecnocrazia europea, assai più di quanto lo fosse stata e lo sia ancora oggi l’armata Brancaleone berlusconiana. L’ultima prova è stata il voto di fiducia al ministro Cancellieri.
Infine c’è un altro dato che non deve sfuggire alla discussione. Il PD è oggi l’unico partito nazionale organizzato nonostante le sue correnti e crescenti lacerazioni interne. Gli altri si sono liquefatti non per i fluidi sociali individuati da Baumann, ma perchè non hanno retto al cambio di fase, alla dimensione europea delle contraddizioni, degli interessi strategici resi prioritari nella competizione globale e dei poteri decisionali dell’Unione Europea sulla vita interna di ogni singolo paese.
Un partito regime come è oggi il PD non può che assumersi e portare il peso delle proprie responsabilità nei confronti del paese, incluse e non escluse le domande, le doglianze e la rabbia sociale che crescono giorno dopo giorno dentro la crisi, e a fronte delle misure antipopolari che vengono imposte in nome della troika europea.
Può accadere che le nuove generazioni di militanti o attivisti sociali non maneggino al meglio questa consapevolezza o questa complessità di giudizio e ne esprimano magari una sintesi corrosiva. Ma è proprio chi ha maggiori responsabilità, esperienza, conoscenza storica che ha il dovere di farla germogliare, evitando di fare la guardia ai bidoni di un passato tramortito e trasformato dai fatti.
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