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L’Aquila. Il riformismo impossibile del dopo terremoto

Lo stato di eccezione e la crisi sono stati (ma ancora continuano ad essere) arma di ricatto e/o di controllo sulle popolazioni tale da consentire la costruzione del consenso e la giustificazione di qualunque scelta. In pratica rendere strutturale lo stato di emergenza. In questo senso oggi possiamo affermare che le crisi, qualunque tipo di crisi,  sono diventate un metodo di governo e strumento di conservazione del potere attraverso il mantenimento di una condizione di sospensione e di precarietà collettiva senza mai prospettare una soluzione.

Dunque la crisi senza fine come  meccanismo di trasformazione nei rapporti di potere e nelle relazioni di dominio.
All’Aquila la crisi economica e del debito si è legata allo stato di eccezione post-sisma ed il potere autoritario si è manifestato con maggiore evidenza obbedendo a due logiche precise: 1. ai rumori di una crisi finanziaria globale ed incombente e 2. alle esigenze di consenso e di appagamento affaristico dei ceti dominanti italiani.
Una massima di Nietzche recita: “Non esistono fatti ma solo interpretazioni”. Su questo postulato il potere commissariale, stabilitosi a L’Aquila dopo il sisma, ha costruito il suo racconto e la sua verità. Inoltre ha costruito la necessità dello “stato d’eccezione” modulandolo su un preciso mondo di interessi tramite una ideologia  dove il comando e il controllo sono stati l’espressione cangiante del potere commissariale in cui l’elemento di controllo era tutto nelle mani “dell’avanguardista” di Arcore.
Nelle circostanze che prendiamo in considerazione è evidente come sia sottile e labile la linea d’ombra che vede entrambi gli schieramenti politici condividere scelte economiche e finanziarie e il modo in cui è stato realizzato il Piano C.A.S.E. è un manuale perfetto della condivisione della “nuova modernità”.

Infatti la costruzione degli alloggi nel post-sisma ha risposto pienamente a questo modello sia sul piano del governo finanziario che amministrativo che urbanistico e in questa logica è avvenuta la spartizione tra le varie aziende costruttrici attraverso una politica redistributiva pubblica (il 60% alle aziende amiche e il 40% alle altre).
Stava funzionando alla perfezione: il sistema commissariale era una macchina quasi perfetta che agiva su una popolazione stremata e impaurita. A distanza di quasi 5 anni dal terremoto viene da pensare che, paradossalmente, quei signori maggiormente legati al potere di turno, se non avessero avuto intoppi (leggasi intercettazioni), sarebbero andati molto più speditamente nelle varie fasi della ricostruzione della città.
Pur tuttavia il commissariamento doveva finire e quindi occorreva ripristinare
la normalità amministrativa. Il passaggio dalla eccezionalità alla normalità è stata gestita dal potere giudiziario (vedi anche le intercettazioni e le inchieste sugli appalti della Protezione Civile) e dalla Troika che aveva decretato la fine dell’ingombrante governo Berlusconi.

Quindi furono i sovra-poteri internazionali ad imporre la fuoriuscita con le mani alzate del “miliardario ridens” da palazzo Chigi (la persuasione della finanza può essere più efficace delle armi convenzionali!).
L’uomo che aveva dominato la scena pubblica italiana degli ultimi venti anni usciva di scena ridimensionato, non dalla democrazia italiana, ma da un nuovo potere globale e intra-europeo.
La nuova conduzione sarà tutta nelle mani del partito italiano più europeista, il PD ovvero un organismo acefalo che già da tempo aveva introiettato e condiviso il modello economico basato sulla competizione imposto dalla Troika e che si è sempre dichiarato disposto ad accettare qualsiasi imposizione alla cantilena “c’è lo chiede l’Europa”.
Al ministro Barca – sotto il governo di Mario Monti – verrà delegato l’ingrato compito di rispondere alle logiche del fiscal compact  adeguando l’applicazione della rigidità finanziaria con le necessità di un ampio territorio da ricostruire.
La  confusa e caotica farraginosità delle leggi e delle ordinanze, la gabbia delle cifre e del dover continuamente elemosinare i soldi per la ricostruzione, ecc.  sono tutti procedimenti utili a giustificare i rallentamenti se non addirittura per occultare la mancanza di una idea,  di un progetto complessivo di ricostruzione,.
Nell’attuale assetto politico della città sia il centrosinistra che il centrodestra sono obbedienti, in vario modo, alle politiche della spending rewiev.

L’altro campo, limitato, è occupato da due forze, Rifondazione Comunista e  Appello per L’Aquila, che si muovono verso un moderato riformismo politico e amministrativo, che a noi pare di scarsa incisività.
Rifondazione spende tutte le sue energie dentro le Istituzioni, riproponendo il vecchio slogan del PCI “partito di governo e di lotta”. Lo spazio alla sua sinistra è occupato da Appello per L’Aquila che si muove con la modalità della denuncia e della educazione alla buona e virtuosa amministrazione con un interesse verso i beni comuni e verso la democrazia partecipata.
Tuttavia ci pare di poter dire che, nonostante le buone intenzione, ci sia una carenza di analisi politica rispetto alle  complessità della globalizzazione e che si sottovaluti la capacità della Troika di imporre alle popolazioni del sud europeo i vincoli di bilancio che ne strozzano le economie, le società, le culture. Nel nostro caso è in gioco la ricostruzione anche fisica oltre che economica e politica.
La debolezza di un riformismo impossibile ci pare ancora più evidente quando si ritiene che la denuncia del perverso rapporto tra affari e politica  sia esaustiva per salvarsi da un quadro mortifero ed omertoso. Il giornale on-line “News Town”,  molto vicino ad Appello per L’Aquila, ha condotto in tal senso una campagna che risponde a questo modello culturale. Sembra un tuffo nel passato: ai tempi di mani pulite! (per carità non ci si venga dire che la denuncia in tal senso riprende la migliore tradizione delle Radio Libere degli anni ’70, sottolineiamo che ciò ci pare un ragionamento del “cucchiaio” o come dicono a Paganica si confonde il “cavolo con il padrenostro”

Indubbiamente l’etica e la morale sono questioni molto importanti, ma dal 1992 abbiamo visto campagne elettorali incardinate sul fattore “onestà” come se fosse una categoria politica e non la precondizione della politica. Ed è doloroso  constatare il disastro prodotto da tutta una classe dirigente e/o dominante cresciuta nella cosiddetta “seconda repubblica”: una pseudo borghesia che si è abbeverata nella ignoranza più sfrontata, priva di capacità critica e priva di lungimiranza.
Per comprendere il nanismo di una elite di parvenu ubriachi di post-industrialismo, di chiacchiere sul terziario avanzato e privatizzato,  sarebbe il caso di indagare su come, nel nostro paese e nei nostri territori, i rapporti di produzione siano regrediti a rapporti feudali, “pre-capitalistici”.
Siamo in presenza dello svuotamento di tutte le assemblee elettive a cominciare dal Parlamento figuriamoci di un Consiglio Comunale! Va ricostruito un percorso alternativo, va “reinventata” la democrazia stessa.
Siamo altresì consapevoli della nostra debolezza e  del fatto che i rapporti di forza sono impari. In politica i numeri sono importanti ma  la forza sta  soprattutto nella concentrazione del potere, nella potenza economica, nella egemonia culturale, nella capacità di creare consenso.
Tuttavia se si vuole uscire dalle secche della subalternità va ricostruita una politica altra con la raccomandazione che non si butti il bambino insieme all’acqua sporca: l’esperienza storica ha molto da insegnare.

 

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