L’esplosione dello scontro tra “Europa tedesca” e “Europa alleato dell’America” ha preso corpo in questi giorni con gli attacchi contro Mario Draghi (presidente della Bce) e lo “scandalo fiscale” del Lussemburgo, che rischia di travolgere in neo-presidente della Commissione Europea (il “governo” della Ue), Jean-Claude Juncker.
Un conflitto latente da tempo diventa quasi esplicito perché irrisolto. E probabilmente irrisolvibile in modo diplomatico, o comunque indolore.
Ma questo conflitto non può e non deve essere analizzato “personalizzando” le ragioni dello scontro. A determinati livelli i massimi dirigenti sono “agenti intelligenti” di interessi strutturati di enorme potenza; le idee personali non contano nulla.
Diversi editoriali sui media padronali, in questi giorni, stanno cercando di definire i contorni della crisi europea, le ragioni di un arresto nel “progresso” che volge ormai in declino palese. La concomitanza con i 25 anni dalla “caduta del Muro” rendono queste riflessioni preoccupate, inevitabilmente, una sorta di bilancio sulla strada fatta dal modo di produzione capitalistico in quest’area. Negativo, ovviamente, al di là dei dati sulla crescita economica nei primi 15 anni del quarto di secolo.
Si sta cominciando a prendere atto, insomma, del sostanziale fallimento del capitalismo neoliberista proprio sul fronte che ne aveva sancito la vittoria ideologica e fatto acquisire consenso di massa: la promessa di maggiore benessere per tutti, una volta eliminati i “lacciuoli” che rallentavano l’iniziativa privata.
La retorica dell’establishment canta ancora questa canzone, non ne conosce altre. E le “prescrizioni” dell’Unione Europea ai singolli Stati, specie sulla questione del debito pubblico, sembrano indifferenti all’evolvere negativo dei tempi. Ma il numero di quanti vi credono inizia vistosamente a diminuire. Non solo – e fortunatamente – tra le varie figure del mondo del lavoro dipendente (ormai quasi per intero accomunato nella condizione della precarietà universale), ma anche tra gli analisti più accorti.
Apriva in qualche modo le danze Carlo Bastasin, sul confindustriale IlSole24Ore. L’intento del “pezzo” è indicare un’altra via per l’Unione Europea, fuori dal suicidio volontario dell’austerità, in linea con le parole (e non molto altro) del governo Renzi. Ma la costruzione del ragionamento mette in luca alcuni paletti strutturali che ci sembra il caso di sottolineare:
Per almeno 30 anni, il debito pubblico ha assorbito il potenziale latente di instabilità politica. Se in Grecia, Spagna o Portogallo era servito a comprare consenso per le nuove democrazie emerse dalle dittature, in Italia e Germania aveva anche compensato le fratture geografiche interne ai due Paesi. La tenacia tedesca nel denunciare i pericoli dei debiti pubblici, che oggi sono politicamente meno giustificati, non va dunque sottovalutata. Ma globalizzazione e tecnologia hanno stravolto le coordinate, lo spazio e il tempo, del contratto sociale.
La “tenuta sociale” del modello europeo del dopoguerra – questo il succo – è stata garantita dal welfare, perché la mediazione sociale si fa con risorse finanziarie, non a parole. È stata fatta insomma di edilizia popolare, pensioni, ammortizzatori sociali, sanità pubblica, istruzione gratuita o quasi, diritti del lavoro, salario contrattato conflittualmente, possibilità di far rappresentare interessi “popolari” sul piano politico (“riformisticamente”, per carità…), ecc.
Questo ambiente sociale è venuto meno o sta collassando sotto la necessità (del capitale) di aumentare la competitività all’interno di quest’area, oltre che negli Stati Uniti e in Giappone, e fra aree continentali e monetarie diverse.
La competizione tra capitali taglia i costi inutili, si sa. Per prima cosa il welfare, quindi la mediazione sociale. Quindi il consenso al sistema. Pochi anni di globalizzazione sono stati sufficienti a determinare una corsa feroce alla compressione dei costi nelle e delle “democrazie occidentali”, per renderli comparabili a quelli esistenti nelle “economia emergenti”. Parallelamente anche la qualità di queste “democrazie” cominciava a scadere per diventare comparabile con i sistemi di governance esistenti in quei paesi (la “riforme costituzionali” sono l’altra faccia delle “riforme strutturali”; e i trattati europei hanno anticipato alla grande questa necessità di sottrarre i centri di decisione politica all’influenza degli interessi sociali non dominanti).
Ma l’elemento più devastante per il modo di vita occidentale è proprio quello di cui si va più orgogliosi: la tecnologia. Bellissima cosa, ma anche terribile: libera dalla fatica e contemporaneamente riduce i posti di lavoro.
Il cambio di paradigma produttivo implicito nella rivoluzione informatica di trenta anni fa sta oggi raggiungendo il suo picco storico, innervando tutto il sistema produttivo, anche quello industriale più “hard” e “novecentesco”, nell’immaginario universale. Basta guardare questa foto scattata in una catena di montaggio automobilistica, in Germania.
Ci vuole insomma sempre meno lavoro umano per produrre un numero di merci sempre maggiore. Nel nostro linguaggio “antico” si dice che diminuisce il tempo di lavoro necessario. Ma l’impresa privata, che pure si avvantaggia molto dell’innovazione tecnologica “di processo”, pretende – per far fronte alla competizione – di aumentare e non di diminuire il tempo di lavoro individuale. Il risultato, in questo sistema, è che il numero di posti di lavoro diminuisce strutturalmente.
Facciamo un esempio storico per capirci. La meccanizzazione dell’agricoltura – in Europa e negli Usa avvenuta nel primo dopoguerra, nei paesi emergenti negli ultimi venti anni e ancora in corso – ha “liberato” centinaia di milioni di persone dal lavoro nei campi, spingendoli verso le città. Lo sviluppo industriale era in grado di assorbirle, almeno in una certa misura.
Oggi sta avvenendo lo stesso, nei paesi “maturi”, anche nei settori industriali. Ma dove andranno le centinaia di milioni di persone ormai in esubero rispetto alle necessità produttive?
Una volta andavano in guerra. Ma anche la guerra è diventata tecnologica. Gli eserciti occidentali sono tornati ad essere roba per “specialisti”, piccoli numeri capaci di distruggere masse notevoli di “nemici” non altrettanto tecnologicamente avanzati (vedi Iraq, Libia, Somalia, ecc). E poi non sembra intelligente armare masse sterminate di uomini e donne, quando il consenso al sistema scende rapidamente… Qualcuno, dall’altra parte, conserva memoria del 1917 più di quanto non avvenga nella “sinistra rdicale” di casa nostra.
Lo stallo nell’Unione Europea è tutto dentro questa cornice, altrimenti sarebbe semplicemente inspiegabile. Perché mai, infatti, gente ultrapreparata come Weidmann o Schaeuble, o anche Katainen e Padoan, dovrebbero insistere su “strategie economiche” che sono chiaramente folli anche per uno studente del primo anno?
Le domande sono sul tavolo, le risposte non ci sono. Quelle praticabili nell’immediato, almeno. Ma iniziare a ragionare in termini di “sistema di produzione” non è più una nostalgia “ideologica”. È un bisogno primario, se si vuole individuare una via d’uscita alla corsa verso il baratro.
* I due articoli che seguono sono tratti dal IlSole24Ore, rispettivamente del 5 e del 7 novembre.
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L’Europa deve cambiare rotta
di Carlo Bastasin
Venticinque anni dopo la caduta del Muro di Berlino, l’entusiasmo di allora si è trasformato in un senso di declino che ridicolizza l’ingenuità del nostro ottimismo. L’Europa si confronta con un impoverimento demografico e una stagnazione economica che paiono così inattaccabili da valicare il nostro campo visivo ed essere infatti definiti “secolari”. Anno dopo anno, previsioni economiche come quelle pubblicate ieri da Bruxelles si degradano drasticamente, mentre la fiducia dei cittadini si inaridisce. Il fatto che anche democrazie ben ordinate ed economie solide come Germania e Francia si arrestino svela l’illusione che “fare i propri compiti di casa” sia sufficiente. Se le economie sono interdipendenti, le politiche non possono restare rinchiuse dentro i confini del consenso nazionale.
L’intero Occidente, Giappone e Stati Uniti compresi, è preda di un senso di incertezza ingigantito dal confronto con i modelli asiatici del capitalismo statale. Il contratto sociale delle democrazie liberali sembra superato. Un collega di Brookings descrive il vecchio contratto in questi termini: «Lavorando con burocrazie d’alto livello, governi democratici garantivano crescita, una costante riduzione della povertà, sicurezza fisica ed economica, nonché migliore sanità verso il sogno di Cartesio di sconfiggere la morte con la scienza». L’ottimismo economico si identificava con le finalità individuali e addirittura con il senso dell’esistenza. Non ci si può sorprendere se la disillusione di oggi è altrettanto esistenziale.
Il dramma della disoccupazione dei giovani, spesso istruiti, aperti al mondo o critici della società, evidenzia i limiti del vecchio contratto. Il calo dei redditi da lavoro sta erodendo consumi e crescita, producendo una fase senza precedenti di bassa inflazione e di alti debiti. Le aspettative di inflazione proiettano un calo dei prezzi non più su pochi mesi, ma su dieci anni. L’esempio giapponese non è isolato, negli Stati Uniti la quota del reddito che va in salari e stipendi è al livello più basso da 50 anni, le imprese accrescono la produzione senza assumere nuovi lavoratori nella fascia dei redditi medi, centrale alla tenuta del contratto sociale.
Ma mentre gli Usa hanno ritrovato un passo di crescita che pur squilibrato compra tempo alle speranze dei cittadini, l’Europa non ha alternativa che cambiare rotta. Affidarsi alla sola politica monetaria non basta. Le banche avevano un ruolo critico nel contratto, servendo l’economia secondo logiche che non erano solo di massimizzazione del profitto, ma che poi si erano piegate a interessi di consenso politico. Negli ultimi venti anni il canale finanziario ha invece assunto vita propria. Il distacco è vistoso oggi quando l’iniezione di quantità inaudite di moneta manca di ravvivare la crescita, se non nell’unico paese per il quale l’industria bancaria ha un ruolo non di servizio all’economia reale ma di industria esportatrice, la Gran Bretagna.
Per almeno 30 anni, il debito pubblico ha assorbito il potenziale latente di instabilità politica. Se in Grecia, Spagna o Portogallo era servito a comprare consenso per le nuove democrazie emerse dalle dittature, in Italia e Germania aveva anche compensato le fratture geografiche interne ai due Paesi. La tenacia tedesca nel denunciare i pericoli dei debiti pubblici, che oggi sono politicamente meno giustificati, non va dunque sottovalutata. Ma globalizzazione e tecnologia hanno stravolto le coordinate, lo spazio e il tempo, del contratto sociale.
La bassa inflazione fa crescere il valore reale dei debiti in tutta l’euro area. Il richiamo all’austerità come valore in sé non è sufficiente. La scarsa comprensione del vuoto di investimenti in Europa è una denuncia dei limiti di visione politica. La caduta del Muro aveva catalizzato la risposta politica europea: individui coraggiosi avevano aperto i confini; l’Occidente aveva riconosciuto le ragioni di investire anche materialmente nel futuro comune; lanciando l’euro, la Ue aveva assecondato l’istinto degli individui, abbattendo i confini, ampliando il mercato e accrescendo la libera circolazione. Poi le paure e le marce indietro. Un quarto di secolo dopo, l’esistenza della Ue è sfidata da chi vuole, non solo a Londra, richiudere i confini. Sentimenti xenofobi stanno dilagando.
In Francia il Fronte nazionale è il primo partito; in Germania il 44% degli elettori ritiene che il partito anti-europeo Alternativa per la Germania rappresenti l’interesse dei tedeschi. La politica si è ritirata dall’ambizione di promuovere il bene pubblico di lungo termine. È tornato il riferimento dei confini nazionali, ne è responsabile anche la gestione della crisi europea in cui a ogni Stato è chiesto prima di tutto di essere autosufficiente: “Chacun sa merde”, a ciascuno il proprio lerciume, come disse nel 2008 a proposito delle banche europee Angela Merkel, proprio il primo leader tedesco che veniva dall’altro lato del Muro. Ora il lerciume è di tutti.
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Che cosa vuole fare la Germania?
di Vincenzo Visco
«Per due volte, nel XX secolo, la Germania con mezzi militari ha distrutto se stessa e l’ordine europeo. Poi ha convinto l’Occidente di averne tratto le giuste lezioni: solo abbracciando l’integrazione europea, abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione».
«Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell’ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è questo». Questa citazione è tratta da un’intervista al Corriere della Sera di Joschka Fisher, leader dei Verdi, ex ministro degli Esteri della Germania Federale, del 26 maggio 2012, oltre due anni fa, quando era già chiaro come la politica seguita dal governo tedesco e imposta agli altri Paesi dell’Ue, mentre risultava vantaggiosa per la Germania, danneggiava i Paesi più deboli e poteva portare alla disintegrazione dell’euro.
Il fatto che le scelte fondamentali a partire dal 2010 siano state in conflitto con la logica di funzionamento di un’area economica a moneta unica è acquisito. Si tratta di una serie impressionante di errori nella gestione della crisi. Si va dalla decisione imposta dalla signora Merkel secondo cui eventuali crisi bancarie nella zona euro dovessero essere affrontate non dall’Ue bensì singolarmente da ogni singolo Paese, all’accordo di Deauville tra Merkel e un forse inconsapevole Sarkozy, in base al quale si stabilì il principio del cosiddetto Private Sector Involvement, secondo cui ogni assistenza a Paesi con problemi di liquidità (anche se non insolventi) avrebbe dovuto comportare un costo per gli investitori privati. La conseguenza inevitabile di queste decisioni fu la disarticolazione della zona dell’euro, con la divaricazione dei tassi di interesse e il trasferimento degli effetti della crisi finanziaria globale nelle finanze pubbliche dei singoli Paesi. Al tempo stesso, però, l’afflusso dei capitali verso i Paesi europei percepiti come “forti”, Germania in testa, riduceva i tassi di interesse in quei Paesi e creava condizioni di finanziamento per i debiti pubblici e i prestiti privati straordinarie e convenienti. A scapito dei Paesi che subivano gli effetti del flight to quality e l’aumento dei tassi di interesse. Inoltre mentre in questi Paesi si produceva una crisi di liquidità e una restrizione creditizia, nulla di tutto questo avveniva nei Paesi core dell’Unione che potevano continuare a crescere accumulando surplus commerciali impressionanti.
Non diversamente andò la vicenda della crisi Greca: invece di intervenire tempestivamente a circoscrivere il fenomeno nel 2010 quando un salvataggio avrebbe comportato un onere trascurabile per l’Unione, si preferì attendere (nonostante l’avviso contrario del Fmi) fino a quando le banche tedesche e francesi non riuscirono a liberarsi del debito greco da esse detenuto. Ancora una volta interessi nazionali e ristretti avevano la meglio rispetto ad una gestione corretta ed equilibrata di una crisi che coinvolgeva sia pure in modo diverso tutti i Paesi.
Una volta creata la crisi dell’euro che con una gestione responsabile e consapevole si sarebbe facilmente evitata, sempre il Governo tedesco, vedendone i risultati, peraltro del tutto scontati, di aumento dei debiti e dei disavanzi pubblici, imponeva a tutto il continente politiche di austerità indiscriminate ed economicamente insensate in quanto si scambiavano le cause della crisi con i suoi effetti, e una crisi da deflazione del debito con una crisi delle finanze pubbliche. Al tempo stesso si imponevano alla Bce politiche restrittive nonostante la grave crisi di liquidità della zona euro, l’opposto di quanto fatto negli Usa nel Regno Unito e in Giappone e di quanto era necessario, e si frenava, rinviava e limitava l’attuazione dell’Unione bancaria sia per proteggere le banche territoriali e le casse di risparmio tedesche sia per eliminare, nei confronti di un’opinione pubblica sempre più radicalizzata, anche il mero sospetto di un possibile, ancorché solo potenziale, trasferimento di risorse dalla Germania verso gli altri Paesi dell’Unione.
Gli effetti economici, politici e sociali di questo modo di procedere sono ormai evidenti, e pericolosissimi; la previsione pessimista di Fischer sembra sempre più realistica e prossima a realizzarsi.
I problema quindi è il seguente: cosa vuole fare la Germania dell’Europa? È ancora convinta che il progetto che implica cooperazione, solidarietà e pari dignità tra i Paesi meriti di andare avanti? E a quali condizioni? Sono sufficienti le riforme già realizzate o in cantiere nei diversi Paesi? Le prese di posizione di numerosi e importanti esponenti dell’estabilishment tedesco sembrano piuttosto orientate verso una politica di disimpegno dall’euro e dal progetto europeo e influenzate da un neonazionalismo e un’idea di autosufficienza preoccupanti. Al tempo stesso in molti paesi europei monta l’insofferenza nei confronti di un’Europa a guida tedesca e montano i sospetti nei confronti di un vicino ingombrante e sempre più percepito come aggressivo e pericoloso. Non si può non essere preoccupati di tutto questo, e sarebbe opportuno un chiarimento politico serio nel merito. Quando poi si sentono le affermazioni di Barroso e di Schäuble secondo cui la cura starebbe funzionando viene da sorridere, in quanto in realtà il paziente ha rischiato e rischia di morire. Ma nessuno ha ritenuto di dover replicare.
L’Italia, approfittando anche della presidenza di turno della Unione, avrebbe potuto provare a porre la questione politica ed economica nella sua interezza, in modo organico e documentato. Ha invece preferito cercare qualche margine di flessibilità immediatamente contrastato e ridimensionato dalla Commissione. Il problema è che senza una svolta vera che può derivare solo da un dibattito esplicito, l’Europa non potrà sopravvivere, non solo per motivi economici , ma soprattutto perché a livello politico rischia di farsi sempre più strada presso le opinioni pubbliche di numerosi Paesi, l’illusione di scorciatoie regressive.
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