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A Berlino che giorno Est? Muro e rock, 25 anni dopo

Mentre a Berlino si celebra il venticinquesimo anniversario della caduta del muro e si accendono luci bianche sul perimetro dove sorgeva, si può contribuire alle celebrazioni riflettendo con una narrazione musicale e storica, meno di comodo e sicuramente non allineata. Nonostante non faccia parte della storiografìa ufficiale, anche il rock fu arruolato durante la guerra fredda tra i due blocchi. Proprio la città di Berlino fu un terreno di scontro sonoro molto acceso che, ancora oggi, marca una divisione tra diversi modi di concepire il mondo.

L’apparato politico stigmatizzava il Rock ‘n’ Roll per sonorità e contenuti nonostante questo fosse molto apprezzato a livello popolare: la Libera Gioventù Tedesca (l’organizzazione giovanile nazionale) cercava infatti di portare avanti una politica di avvicinamento e di apertura nei confronti della musica rock. Rispetto alla vulgata del “grigiore ottuso”, nella Germania est degli anni sessanta erano attive centinaia di band rock, twist e beat come gli Sputniks e il Theo Schumann Combo che, come qualsiasi band italiana dell’epoca coverizzavano i Beatles: la casa discografica di Stato, la Amiga Plattenlabel, oltre a musica classica e folk di propaganda, pubblicò infatti anche dischi di giovani band orientate a generi anglosassoni. Ci fu persino il tentativo di inventare un ballo, “il Lipsi”, per contrastare (con movenze meno provocanti) l’egemonìa del ballo rock. È buffo constatare che si fa un gran parlare della “censura” nella Germania est anche dall’Italia in cui lacommissione di ascolto vigilava sui testi delle canzoni pop-rock limitandone la diffusione su radio e televisione.

Negli anni settanta al di là del muro nacquero inoltre diversi gruppi musicali tra cui anarchici e punk che, con le loro canzoni, criticavano la politica del Governo. La grande truffa del rock n’ roll che in Occidente aveva creato i Sex Pistols come prodotto per la ribellione giovanile e che in holidays in the sun aspettavano la “Communist call” davanti al filo spinato del muro, aveva i suoi epigoni nei Sandow orientali. Una scena vivace, mal tollerata dalla polizia segreta, che esprimeva un dissenso generazionale. Il fascino del sogno americano che nel rock era declinato in un trasgressivo sesso, droga e Rock ‘n’ roll non lasciò indifferenti i giovani della Repubblica Democratica Tedesca, ma li aiutò ad acutizzare il risentimento verso l’apparato repressivo, scolastico e politico del proprio Paese.

Al centro di questa storia c’è la testimonianza artistico-musicale Iggy Pop e soprattutto di David Bowie che, perso nelle contraddizioni (e nelle perdizioni) della città divisa e grazie ad esse, concepì una trilogia di album indimenticabili. In poche parole: senza il Muro non ci sarebbe stata Heroes e non sarebbero state composte nemmeno Alexanderplatz di Franco Battiato, la derivativa Futura di Lucio Dalla e non ci sarebbe il suo aneddoto dell’incontro con Phil Collins al Checkpoint Charlie (quello vero, non la trappola per turisti attuale). Nel novero dei brani da muro c’è ovviamente anche la canzone il cui ritornello ha ispirato il titolo di questo articolo.

I giovani che iniziavano autonomamente a scendere in strada nell’89, in fin dei conti manifestavano per un socialismo dal volto umano, al grido di “wir sind das volk”(noi siamo il popolo), velocemente trasformato(si) in un più nefasto “wir sind ein volk” (noi siamo un popolo, dal sapore nazionalista): vestivano in modo non dissimile dai loro coetanei occidentali e abbondavano, nel look, di caratteristiche rock come capelli lunghi e giubbotti di pelle. Poco importa che il rock ‘n’ roll, nella sua essenza, fosse appunto una truffa, e che, come i ragazzi occidentali che sognano di diventare rock star e poi devono lavorare e mettere su famiglia carichi di rimpianti, i ragazzi orientali non abbiano infine trovato, a Berlino ovest, che la coca-cola, le banane e qualche cinema porno: la vendita di identificazioni e sogni, è stata una delle armi economico-politiche più azzeccate del capitalismo di matrice statunitense, che aveva come contraltare la meno affascinante giostra di carri armati dell’Urss. Gli stessi prodotti (alimentari e non) erano considerati di qualità peggiore a causa di un packaging meno coinvolgente e di pubblicità meno suadenti di quelle dell’ovest. Giovanni Lindo Ferretti aveva capito tutto questi nei suoi soggiorni berlinesi e, infatti, i CCCP Fedeli alla linea, nonostante schiere di fan che li considerano erroneamente una“band militante”, mescolavano la truffa del punk, con avanguardie artistiche e tutto il kitsch social-comunista che univa la sede del Sed di Pankow al Pci di Reggio Emilia.
Nel 1988 due concerti all’ombra del muro fecero la storia: nel giugno di quell’anno Michael Jackson si esibì a Berlino Ovest durante il tour di Bad presso il Reichstag a pochi metri dal muro. La Stasi entrò in allarme per le potenzialità sovversive dell’artista americano e della provocazione politica insita nel suo concerto. I servizi segreti temevano disordini tra la polizia e giovani attratti dalla musica del pifferaio magico ben udibile anche ad est e perciò avevano anche cercato di organizzare un “concerto alternativo” per allontanare i giovani dal muro; il diversivo non venne attuato e, come da copione, i giovani dell’est sfidarono i reparti antisommossa per avvicinarsi al muro e poter udire il concerto della quintessenza dello showbiz americano. Un mese dopo quel concerto, la Ddr fece tenere un concerto di Bruce Springsteen a Berlino Est. La guerra fredda fatta a suon di casse di amplificazione continuava: il regime voleva dimostrare la sua “apertura” alla musica dell’occidente anche se ufficialmente il concerto del boss era stato organizzato in solidarietà con il Nicaragua Sandinista sotto attacco dei Contras. Springsteen cercò di mantenere un profilo equidistante essendo lui un esponente di sinistra, critico con la politica americana, ma non simpatizzante di un socialismo autoritario: alcune sue esternazioni dal palco vennero prontamente censurate dai media del regime.
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Nell’ottobre del 1989, al compimento dei quarant’anni della Repubblica, il Presidente Erich Honecker dichiarò che il muro sarebbe rimasto in piedi per altri cent’anni; sarebbe invece caduto poco dopo: sotto l’occhio impassibile delle truppe di frontiera i cittadini dell’est finalmente “liberi”. Furono accolti da caschi di banane (introvabili a Berlino est) e i marchi offerti dai “cugini” (il famoso Begrüßungsgeld ) dell’ovest per dimostrare la bellezza del mondo libero e democratico. Se una parte della popolazione sperava che con la “libertà” avrebbero mantenuto le conquiste sociali, l’altra credeva davvero che finito il “comunismo” sarebbero stati tutti opulenti come all’ovest (o come avevano creduto guardando le televisioni occidentali). Nel maggio del 1990 avvennero invece diverse rivolte popolari perché le fabbriche chiudevano, il mercato immobiliare veniva liberalizzato e nei nuovi supermercati scintillanti, con l’inflazione galoppante, le donne tedesco-orientali non riuscivano più a fare la spesa. Tutte le posizioni dirigenziali, nelle amministrazioni, negli ospedali etc. vennero occupate dall’ovest, discriminando i cittadini dell’est. Era il costo della “riunificazione” un termine che oggi nel dibattito pubblico e tra le persone viene frequentemente sostituito con “annessione”, per valutare concretamente il periodo di cambiamento.

La città di Berlino cambiò rapidamente volto grazie all’afflusso di capitali e di una speculazione edilizia che ancora oggi non si vuole fermare, trasformando anche la popolazione stessa. L’epoca coincise dunque con la colonizzazione di un popolo e di un territorio, un sentimento che i nostrani Offlaga Disco Pax hanno ben riassunto in “Tatranky”: “…vedere la differenza a volte astratta tra un regime imposto con i carri armati ed uno imposto più sottilmente col Dollaro, il Marco, l’Euro…”. La capitale del Brandeburgo diventò fucina di artisti: i grandi nomi si buttarono subito sulle macerie del muro a sventolare bandiera bianca e a gonfiare il portafogli. Gli Scorpions con l’inno dell’anno 1991 ( l’imbarazzante wind of change) fino al redivivo Roger Waters, mente imprenditoriale dei Pink Floyd, che senza i suoi compagni di avventura inscenò “the Wall” a Berlino per suggellare il cambiamento storico e lanciare Cd e Videocassetta dell’event"Mauerfall", "Begruessungsgeld", BRD/DDRo. In mezzo a questa parabola musicale ed ideologica si inserisce lo sfarzo esagerato degli Mtv Awards del 2009 aperti dal grande concerto degli U2 (altri immensi furbacchioni). Discorso a parte per la Techno che, dopo essere arrivata a Berlino Ovest dagli Stati Uniti, è stata il sound (elettronico) della riunificazione con cui ballavano (e si sballavano) insieme i giovani delle due Germanie nell’euforìa dei primi anni novanta; ovviamente prima che prendessero piede la love parade, l’assedio degli sponsor multinazionali e che la musica diventasse parte integrante di un brand cittadino che rende bene ancora oggi.

I vincitori scrivono la storia e quindi quarant’anni di storia di un esperimento politico alternativo al capitalismo vengono oggi riassunti quasi universalmente con: muro, grigiore e povertà, una narrazione scadente, ma che continua a funzionare. Anche i Bloc Party nella loro “Kreuzberg” non si spingono più in là del racconto di sentimenti contrapposti nella città dolente e divisa; gli Arcade Fire in “Surf City Eastern Block” raccontano, tanto per cambiare, del ragazzo che vuole scappare dalla dittatura per raggiungere sole, mare e surf. E intanto orde di turisti scansano le signore anziane che si trascinano su Karl Marx-Allee e si muovono verso le pietre del memoriale degli ebrei morti durante l’Olocausto, per farsi un selfie da postare su Instagram.
L’ironica e provocatoria “rifacciamo il muro di Berlino” composta da Francesco Baccini nel 1993, è uno dei pochi brani non-allineati che traduceva in musica gli umori di chi aveva toccato con mano gli “effetti collaterali” di questa nuova fase di libertà: ideologìa del mercato, diseguaglianze sociali e crescita del neonazismo: “certe cose sono tabù, tu le rompi e la maledizione ti prende e non ti molla più…ma forse siamo ancora in tempo anche se a qualcuno non piacerà…ragazzi prepariamo il cemento e muriamo la stupidità”.

Sembrava che questa storia fosse dunque politicamente chiusa e che l’epitaffio poetico stesse racchiuso nel finale di Goodbye Lenin quando il cosnomanuta Sigmund Jahn apre le frontiere della (fittizia) Repubblica Democratica Tedesca sulle note di “Auferstanden aus Ruinen”; eppure qualcosa non torna. Non è un problema di ostalgie da vendere sulle bancarelle: c’è una melodia che a nominarla sembra si faccia peccato. La fischiettano i sondaggi dove il 57% dei cittadini tedesco-orientali, con gradualità e motivazioni diverse, rimpiangono il passato; la canticchiano le statistiche che delineano una Germania ancora divisa su diseguaglianze, disoccupazione e stato sociale. La intonano i risultati elettorali che premiano i post-comunisti persino nel distretto di Lichtenberg dove gli hipster sono pochi e giganteggia il palazzo della (fu) Stasi. E il coro cresce fino a ritrovarsi un socialista alla presidenza della Turingia a soli venticinque anni dalla caduta del muro.

da https://speakingquitefrankly.wordpress.com

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