Si è molto parlato del famoso libro di Piketty, Il c(C?)apitale nel XXI secolo. Questo testo, è vero, è stato congegnato e presentato proprio con la speranza di diventare un bestseller cosa che poi e’ avvenuta, credo al di là delle più rosee speranze dell’autore. E’ lungo almeno cinque volte di più di quanto non dovrebbe se fosse un testo scritto a fini puramente scientifici. Molti studiosi marxisti e altri compagni ne hanno criticata, con buone ragioni, la debolezza teorica.
Tuttavia, a differenza dell’ultimo fenomeno editoriale commerciale-propagandistico- culturale- politico- paragonabile di cui ci si può ricordare in tempi recenti (l’Impero di Negri e Hardt), credo che Il capitale nel XXI secolo sia fondamentalmente la forma, magari furbescamente indovinata, di presentare i risultati di una seria ricerca collettiva durata molti anni. Questi risultati sono sostanzialmente compatibili con i fondamenti del marxismo, e offrono ai comunisti una notevole opportunità propagandistica e anche direttamente politica.
A essere metodologicamente seri, si deve riconoscere che, nel libro, Piketty non dimostra nulla. Presenta solo alcuni semplici grafici, un po’ di dati storici di lungo periodo, e una loro interpretazione molto semplice e lineare. Sostiene però di basare le sue statistiche descrittive estremamente sintetiche su un grande e serio lavoro durato decenni e portato avanti sotto la sua supervisione da un grande gruppo di ricercatori. Tuttavia, sembra che l’opinione largamente maggioritaria nella comunità scientifica e accademica sia che i suoi dati siano sostanzialmente giusti.
In sostanza, Piketty sostiene di aver individuato empiricamente in Francia e in Gran Bretagna – e, sia pure sulla base di una disponibilità’ relativamente minore di dati statistici, in tutti i paesi capitalistici avanzati – due chiare tendenze di lungo periodo, correlate reciprocamente in modo evidente. La prima tendenza consiste nell’aumento continuo delle disuguaglianze di reddito. La seconda si manifesta come accumulazione polarizzata della ricchezza in mano di un gruppo sociale molto ricco ed estremamente ristretto (dell’ordine dell’1%-0.1% della popolazione).
Queste tendenze, secondo l’autore, sono tipiche di tutti i periodi “normali” di storia del capitalismo, e costituiscono una conseguenza intrinseca, endogena e inevitabile delle leggi interne di movimento del capitalismo stesso. Storicamente, le tendenze verso l’aumento delle disuguaglianze sono state invertite solo eccezionalmente in seguito a cause esogene al funzionamento del sistema, tali come guerre e rivoluzioni. Questi fenomeni di natura politico-militare hanno provocato grandi distruzioni materiali di ricchezza e, in alcuni casi, determinato radicali cambiamenti politici, che hanno imposto “dall’esterno” una parziale redistribuzione in senso progressivo del reddito e del capitale.
L’impianto teorico di Piketty è molto semplificato, e non è questa la sede per discuterlo (lo hanno fatto già in molti, ben più qualificati di me). Tuttavia, non è, in termini generali, incompatibile con la tradizione analitica marxista. Quel che più conta, ai fini della prassi, è che, a differenza di quasi tutti gli economisti borghesi contemporanei, il lavoro di Piketty:
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– si basa sulla categoria di capitale, e non su concetti meno rilevanti e più superficiali, o del tutto fuorvianti e strumentali, come la maggiore o minore rilevanza delle forze di mercato, il livello di liberalizzazione del commercio internazionale, la vigenza o meno della governance e dello stato di diritto, etc.
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– evidenzia tendenze di lungo periodo che, almeno da un punto di vista empirico, sono sostanzialmente identiche a quelle della tradizione marxista più ortodossa.
Quindi, questo libro ci fa gioco, sia a livello teorico sia pratico. Speriamo che alcune delle sue “scoperte” (che naturalmente non sono tali per i comunisti) comincino a diventare senso comune, almeno in parte. Da parte nostra, nel breve-medio periodo, credo che dovremmo anche cercare di sfruttare al meglio anche le conclusioni di politica economica di Piketty.
Cosa propone l’autore per porre rimedio all’andazzo ingiusto e ultimamente insostenibile del capitalismo? Una’tassa patrimoniale fortemente progressiva1. Chiamiamola “tassa Piketty”: una misura concettualmente molto semplice di politica fiscale.
E’ vero che subito dopo l’autore si caga in mano, sostenendo ridicolmente che in questo modo si potrebbero eliminare senza colpo ferire le più gravi storture, e che il capitalismo ormai riformato sarebbe in grado di procedere allegramente verso una sempre maggiore prosperità, finalmente compartita tra tutta la popolazione. Ma a noi questo importa poco. In realtà, dovrebbe essere chiaro che una vera “tassa” avrebbe senso solo come una misura solo apparentemente riformista e sostanzialmente rivoluzionaria, per realizzare in tempi più o meno brevi la necessaria’espropriazione degli espropriatori, passaggio chiave necessario nel quadro di una transizione al socialismo.
Da un punto di vista formale la “tassa Piketty” non sembra avere nulla di eversivo, ed è perfettamente compatibile con il quadro tradizionale della democrazia borghese.
Rispetto alle proposte tradizionali del movimento comunista (come la nazionalizzazione di gran parte del capitale industriale e finanziario, che peraltro rimane comunque indispensabile almeno nel caso del secondo), può offrire un notevole vantaggio tattico e propagandistico. Infatti, con ogni probabilita’ spaventerebbe di meno la gran parte dei lavoratori e dei ceti “intellettuali”, che in Italia in particolare sono più subalterni al senso comune borghese che in qualsiasi altro momento della storia contemporanea.
Certo, rimane qualche piccolo problema tecnico, come per esempio sapere dove stanno infrattati la maggior parte dei capitali privati. Ma prima di arrivare al governo, credo che di tempo per studiare ne abbiamo ancora parecchio…
1 Tecnicamente, secondo Piketty, il governo potrebbe optare per una tassa una tantum, o per una imposizione annuale, o per una combinazione delle due.
* economista
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