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Cofferati lascia. Dopo i gattopardi, le jene

A séguito di quanto successo nelle ‘primarie’ liguri in cui si era presentato come candidato al governo regionale, Sergio Cofferati, come è noto, ha deciso di abbandonare il Partito democratico. Il motivo è più che giustificato, poiché, battendo ogni primato di manipolazione truffaldina del voto espresso in queste assurde elezioni all’americana e facendo impallidire anche il ricordo dei brogli che avevano contrassegnato le ‘primarie’ napoletane, in Liguria a favore di Lella Paita, candidata alternativa a Cofferati, la quale si è aggiudicata la vittoria, hanno votato, all’infuori dei morti, i soggetti più improbabili: dai cinesi ai latino-americani (opportunamente remunerati per il servizio reso), dai neofascisti ai leghisti e ai forzaitalioti (cui è stata graziosamente concessa, ma non è la prima volta, la simpatica opportunità di concorrere a determinare gli indirizzi politico-elettorali di un partito formalmente distinto dai rispettivi partiti di appartenenza).

Ora Cofferati, il quale, come lui stesso tiene a ricordare, è stato uno dei quarantacinque fondatori del Partito democratico e solo l’anno scorso è stato eletto al parlamento europeo nelle liste di tale partito, si è accorto, essendo stato sconfitto con metodi, come dire?, ad un tempo mafiosi e “americani”, che la sua appartenenza al partito renziano-burlandiano (siamo in Liguria) è incompatibile con “valori etici di riferimento”, da lui non meglio precisati. Tra l’altro – e l’episodio è utile per misurare lo stile personalistico e il linguaggio postribolare dei politicanti borghesi e piccolo-borghesi che vanno per la maggiore -, risulta da un articolo del “Secolo XIX”, il maggiore quotidiano della Liguria, che, apprendendo i risultati elettorali che confermavano la sua sconfitta, il “Cinese” abbia esclamato: «Se pensano di potermi camminare sui c…i si sbagliano di grosso! Io sono uno dei quarantacinque fondatori di questo partito!», laddove una siffatta estrinsecazione dimostra come nel comportamento politico di certi soggetti non vi sia la benché minima traccia di un senso di responsabilità verso la propria base sociale, ma soltanto ed esclusivamente la preoccupazione di natura personale per il prestigio e il successo del “caro io”. Non so, né mi interessa sapere, quale continuazione avrà la parabola politica e personale di un trasformista ‘segato’ da giochi di potere spregiudicati, di cui, dopo averli praticati forse in proprio, ora è rimasto vittima. Certo, di che pasta fosse l’uomo era emerso chiaramente con la pavida ritirata dalla scena politica e dalla possente mobilitazione contro il secondo governo Berlusconi, al centro della quale Cofferati si era venuto a trovare, accendendo mal riposte speranze in vasti settori della sinistra, dopo la grande manifestazione popolare dei tre milioni di lavoratori al Circo Massimo di Roma, realizzata dalla Cgil il 23 marzo del 2002 in difesa dell’articolo 18.

Sennonché una domanda sorge spontanea: possibile che Sergio Cofferati non si sia mai reso conto della mutazione genetica del Partito democratico e arrivi a scoprirla e a reagirvi solo quando a farne le spese è proprio lui, “uno dei quarantacinque fondatori del partito”? In quale Olimpo o in quale Iperuranio ha soggiornato l’europarlamentare Cofferati durante i tredici anni che sono intercorsi dalla fine del suo mandato di segretario generale della Cgil sino ad oggi? Certo, i limiti umani, politici e morali di questo personaggio sono talmente palesi, che non varrebbe la pena insistervi più di tanto, poiché il problema della degenerazione della politica borghese, che pure nel nostro paese ha conosciuto fasi meno deprimenti di quella attuale, non può essere caricato solo sulle spalle di un perito industriale, di un impiegato della Pirelli di Milano, essendo connesso alla differente dislocazione e verticalizzazione degli effettivi centri decisionali nel quadro della globalizzazione imperialistica (leggi: UE, BCE, FMI) e quindi a meccanismi di selezione del personale politico ormai del tutto sganciati da qualsiasi forma di legittimazione democratica e popolare. Che cosa insegna allora la vicenda di Cofferati? La risposta merita di essere affidata al “Gattopardo” in persona, il quale così si rivolge all’inviato del governo piemontese, Chevalley, nel colloquio che è il centro ideologico e letterario di quello che è forse il più grande romanzo politico del nostro Novecento: «…dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno [gli attuali ‘rottamatori’] saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra».

 

 

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