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Sul futuro dell’ANPI e dell’antifascismo in Italia. Una riflessione “a bocce ferme”

Prima di mettere nero su bianco questi miei pensieri ho voluto attendere il passaggio delle ricorrenze del 70.mo della Liberazione dell’Italia e dell’Europa, che ci hanno visto tutti impegnati in numerose iniziative, poiché ritengo che certe questioni vanno affrontate il più possibile a mente fredda, usando tutta l’attenzione, la lucidità e la pacatezza di cui siamo capaci.
Mi riallaccio solo in parte alla discussione pubblicamente inaugurata da Saverio Ferrari (1) poiché era da tempo che ragionavo sulle tematiche più larghe che vado ad esporre. Premetto che il mio intervento è motivato dalla passione personale, che mi porta ad avere a cuore sia le sorti dell’antifascismo in generale sia le più specifiche sorti dell’ANPI, Associazione della quale non ho la tessera pur frequentandone con assiduità crescente sedi, soci e soprattutto compagni partigiani per attività connesse alla ricostruzione storiografica oltre che per affinità ideale. 
 
Cos’è l’ANPI?
Ferrari a mio avviso pone il tema dell’antifascismo in un’accezione troppo larga, che travalica ciò che può essere davvero pertinente per l’ANPI (errore “per eccesso”); al contempo egli non tematizza, e dunque non aiuta ad affrontare, la questione specifica del carattere e dei compiti dell’ANPI (errore “per difetto”). Cosicché, gli interrogativi posti da Ferrari colgono solo alcuni aspetti nella ridda di discussioni sviluppate dentro, attorno e fuori dell’ANPI da qualche tempo; discussioni che peraltro hanno già portato ad alcune conseguenze e decisioni, quale è stata quella della concreta trasformazione dell’ANPI da associazione “chiusa” (riservata agli ex combattenti) ad associazione “aperta” (da qualche anno possono iscriversi tutti). Per quanto ne so io, il confronto sulla natura e sul destino dell’ANPI prosegue molto animato soprattutto all’interno della stessa Associazione.
 
Il momento simbolico del 70.mo coincide con un cruciale passaggio nella storia e nella natura dell’ANPI e della Repubblica Italiana. Siamo – già da qualche tempo, in realtà – al tornante storico della scomparsa degli ultimi partigiani; eppure le riflessioni sulle implicazioni anche politiche di questo tornante sono state finora assolutamente insufficienti.
 
In estrema sintesi, su che cosa debba essere l’ANPI prevalgono oggi due tesi:
– la prima riconduce l’ANPI ad una associazione combattentistica (ed in tal caso il suo ruolo sarebbe già pressoché esaurito) o comunque a realtà meramente testimoniale (e perciò sempre meno influente nella politica e nella società, e sempre meno interessante anche per lo storico professionista che si occupa di Resistenza); 
– la seconda, pur rivendicando all’ANPI la sua origine di testimone, ne sottolinea la funzione attuale come soggetto guardiano della Costituzione e/o, più genericamente, dell’etica della politica.
Questa seconda visione è prevalente oggi negli organismi direttivi dell’ANPI. Tuttavia, a parte il fatto che per poter imporre dei valori bisogna avere la forza/rappresentatività sociale necessaria, è innegabile che per lungo tempo quella dell’ANPI sia stata una funzione di servizio, in senso sia positivo – in quanto “fondamento morale” della Repubblica – sia negativo – in quanto strumento di legittimazione per istituzioni che troppo spesso hanno deluso le aspettative.
L’ANPI si trova di volta in volta presa in mezzo a tensioni da parti opposte, sulle questioni più diverse e tutte potenzialmente laceranti: dai reiterati casi di revisionismo storico fino allo scontro israelo-palestinese, dalla TAV alle nuove guerre, dalle “foibe” all’antifascismo militante… al contempo essa subisce gli scossoni provocati dalla deriva politica (indubbiamente verso destra) dell’ “azionista di riferimento”, cioè il Partito Democratico in quanto principale erede delle forze politiche egemoni nel processo di costituzione dell’Italia repubblicana. 

 
Antifascisti e Partigiani
 
Vorrei allora sgombrare il campo da una prima questione: certamente oggigiorno c’è un buon 75% di antifascismo che non è rappresentato dall’ANPI, ed anzi va detto che la percentuale non ha mai raggiunto il 100%. 
 
In effetti, l’ANPI non nasce come ambito organizzativo “degli antifascisti”, bensì come Associazione Partigiani. Tale definizione la porta ad avere un ruolo sostanzialmente diverso rispetto a quello auspicato da Ferrari, e non da oggi: ad esemplificare tale specificità è l’esistenza di un’altra associazione, l’ANPPIA, preposta alla organizzazione delle istanze degli antifascisti “storici”, che non necessariamente furono (o poterono essere) partigiani. 
Non è una distinzione di lana caprina: soprattutto, non lo è di fronte ad una estensione direi vertiginosa del concetto di “antifascismo”, e alla concomitante perdita del senso esatto del termine “fascismo”. Succede infatti che iniziative e festival “antifascisti” organizzati sul territorio portino in risalto battaglie e identità che molto poco hanno a che fare con il fascismo “storico”: dai diritti LGBT ai vegani, dalla TAV al commercio equo e solidale… Un tale allargamento della prospettiva è accettabile solo nella misura in cui non travolge/oscura la esigenza di precisare e difendere la specificità ed i valori della guerra vinta contro il nazifascismo (1941-1945), specificità e valori che hanno diritto a sedi dedicate per essere affermati e tramandati.
 
Tuttavia, affermando che l’ANPI è il consesso “dei partigiani” più che degli “antifascisti” (tantomeno degli “antifascisti in senso lato”), ancora non abbiamo definito esattamente l’oggetto della nostra riflessione. 
 
E’ ben noto il dibattito sul carattere “uno e trino” della Resistenza italiana, intesa di volta in volta come (a) movimento di liberazione nazionale (b) moto di emancipazione sociale (c) guerra civile tra diverse opzioni politiche. Per di più, nelle nostrane interpretazioni della Resistenza è normalmente eluso il suo carattere internazionale e internazionalista – al quale è soprattutto dedicato il lavoro storiografico che stiamo portando avanti in prima persona da qualche anno. (2) Di quest’ultimo aspetto l’ANPI si è fatta interprete in ritardo e con difficoltà: basti pensare alla recente sofferta battaglia interna all’Associazione sulla possibilità di tesseramento per i cittadini non italiani, o al fatto che solo da pochissimo l’ANPI ha aderito alla Federazione Internazionale delle organizzazioni sue omologhe (FIR). Tali ritardi si spiegano solo e precisamente con il fatto che l’ANPI ha a lungo operato essenzialmente come vestale di un culto della Resistenza intesa esclusivamente come “lotta di liberazione nazionale”, cioè usando quella accezione della Resistenza che è l’unica funzionale alle esigenze istituzionali. Solo in tale accezione, infatti, la Resistenza può essere presentata come atto costituente di questa Nazione e di questo Stato (“Secondo Risorgimento”).
Benché restrittiva, tale accezione era e rimane prevalente nel discorso pubblico tanto da essere stata addirittura rilanciata in occasione delle recentissime celebrazioni per il 70.mo: infatti, in occasione della sessione a Camere riunite del Parlamento, il 16 aprile u.s., cui su invito del Presidente Mattarella hanno presenziato un gran numero di partigiani, nei discorsi delle autorità (cito soprattutto la Boldrini) si è voluto fermamente ribadire che la Resistenza fu un moto “nazionale” e “interclassista”. Per converso, le celebrazioni del 70.mo della Liberazione a livello europeo sono state sostanzialmente minimizzate e disertate, in un frangente dei rapporti internazionali che vede anche i nostri politici fomentatori di una rinnovata ostilità contro la Russia.
 
Il dilemma attuale dell’ANPI. Torniamo dunque all’ANPI. 
Nell’ANPI assieme all’anima antifascista convive, sin dall’inizio, un’anima patriottica che perfettamente interpreta quella concezione del “Secondo Risorgimento” di cui sopra. D’altronde le due anime – antifascista e patriottica – hanno convissuto già nel movimento partigiano, incontrandosi ma anche scontrandosi. Esse possono coincidere, ma non lo devono necessariamente. Andrebbe allora innanzitutto analizzata questa dialettica, che non è affatto risolta, come dimostrano le polemiche in merito al Giorno del Ricordo ed ai presunti crimini della Resistenza jugoslava.

Tuttavia, il problema attuale, che rischia di essere un problema di vita o di morte per l’ANPI, in questa fase, mi sembra soprattutto quello della sostenibilità del suo ruolo “istituzionale” tradizionale: tolte infatti le celebrazioni del 70.mo, le nuove istituzioni repubblicane dimostrano di non essere più completamente devote alla Costituzione cosicché sempre meno potranno in futuro essere considerate filiazione della Resistenza. Questa contraddizione, tutta politica, ha precipitato l’ANPI in una condizione imbarazzate, e questo sin dai tempi del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica: tant’è vero che attorno al 1990 ci fu anche chi parlò di scioglimento dell’ANPI, ed alcune sezioni riversarono per intero gli archivi agli Istituti della rete ISMLI (Istituti per la storia della Resistenza e della società contemporanea in Italia).
Di fronte ai passaggi istituzionali in corso, che con la gestione Renzi sembrano soggetti ad una drammatica accelerazione, l’ANPI rischia di rimanere stritolata. Va rilevato che è proprio il presidente dell’ANPI, Carlo Smuraglia, uno dei più autorevoli critici dei progetti di riforma istituzionale/costituzionale sul tappeto.
 

Allora che cosa vogliamo dall’ANPI? Vogliamo trasformarla in qualcosa che non è mai stata? Lasciamo che sia cancellata dagli eventi politici e biologici? Mentre gli ultimi partigiani scompaiono, il 70.mo della Liberazione rischia di essere veramente l’anno del “botto” dell’ANPI.

Io credo che dobbiamo rispetto all’ANPI e perciò non le dobbiamo chiedere l’impossibile. Dobbiamo invece porre le questioni su di un piano più generale, che non riguarda solo il destino dell’ANPI bensì anche la sorte dello Stato italiano da un lato e la sorte della storiografia della Resistenza dall’altro. 
 
Liberare l’ANPI, liberare la storiografia della Resistenza
 
Rinnovate forme di “sovversivismo delle classi dirigenti” hanno minato la fondazione antifascista e costituzionale della Repubblica da molti anni oramai: su questo, o si affianca e difende l’ANPI in tutte le sedi associative e politiche possibili, oppure non si può pretendere proprio nulla dall’ANPI. Negli anni si è alzata la voce allarmata di chi ha parlato di tradimento della Resistenza, di chi ha ricordato la persecuzione antipartigiana del dopoguerra… Se l’ANPI non poteva reagire a suo tempo, tantomeno la si può caricare di ogni responsabilità per le sconfitte politiche che abbiamo subito tutti: si tratta casomai di proseguire in ogni sede con le battaglie per la democrazia e la giustizia sociale che i partigiani iniziarono. Anche la battaglia contro le nuove destre, non riguarda solamente l’ANPI e l’ANPI in nessun caso potrebbe farsene carico da sola.
Dunque l’ANPI non deve essere sovraccaricata di funzione politica, bensì eventualmente deve esserne emancipata, poiché è stata la politica che, per troppo tempo, ha “tenuto schiava” l’ANPI.
 
La questione a mio avviso si pone in maniera esattamente opposta per quanto riguarda la funzione “storiografica” dell’ANPI, che le è stata sottratta e dovrebbe esserle in qualche modo restituita. 
La politica ha oggettivamente condizionato la scrittura della Storia della Resistenza in Italia, per alcuni versi impedendola. Essa ha costretto l’ANPI a ruoli cerimoniali e ha demandato ad altre sedi la storiografia; ma quali sono queste altre sedi? Nel migliore dei casi sono sedi accademiche e para-accademiche, in particolare la rete ISMLI che, fondata 66 anni fa da Ferruccio Parri, è stata ristrutturata ad hoc a partire dagli anni Settanta, assumendo infine una funzione quasi “totalitaria” di scrittura della Storia della Resistenza attorno agli anni Novanta. Ebbene sulla attività di questi Istituti dell’ISMLI sarebbe necessario sviluppare una riflessione critica non meno importante di quella che riguarda l’ANPI. Da anni è in atto un processo di mutazione, spesso evidenziato dal cambiamento di nome – dalla “Storia della Resistenza” o “del Movimento di Liberazione” alla “Storia Contemporanea” –, per cui si tende ad occuparsi di ogni sorta di questioni che riguardano la contemporaneità e la realtà locale, dalle analisi paesaggistiche alle tradizioni culinarie, creando pesanti discontinuità quando non proprio dismettendo la funzione iniziale. Questo in un contesto in cui, nel corso di settant’anni e ancora oggi, si è sviluppata una rigogliosa sub-letteratura memorialistica locale e individuale sugli eventi della II Guerra Mondiale e sulla Resistenza, che per uno storico è ardua da manipolare ma che rappresenta in troppi casi l’unica fonte, benché secondaria, per la ricostruzione di eventi anche cruciali. Se aggiungiamo che le politiche archivistiche in questo campo sono state assenti o incoerenti, e che da un certo punto in poi si è colpevolmente sostituita una estetizzante ricognizione della “memoria” alla scientifica ricostruzione della Storia, il risultato netto è che la storiografia della Resistenza a 70 anni dagli eventi è lacunosa, dannatamente frammentata e prevalentemente ad uso e consumo delle necessità di portare acqua al mulino di interpretazioni di comodo. 
Cosicché, chiunque si occupi di questi temi incappa in una serie di paurosi “buchi” storiografici. D’altronde, il revisionismo, poi diventato rovescismo, si è innestato sulla narrazione già incompleta di una “guerra di liberazione nazionale” cui si sarebbe dovuto premettere il racconto di crimini di guerra italiani ed affiancare il contesto di una Resistenza che è stata internazionale e internazionalista più ancora che “italiana”. Di tutto questo in molti partigiani combattenti c’è (o c’era) perfetta contezza: bisogna restituire a loro la parola, se non materialmente, almeno attraverso le testimonianze che hanno lasciato. 
Bisogna soprattutto restituire la parola ai tanti partigiani che nel dopoguerra sono stati emarginati, costretti alla emigrazione o alla irrilevanza politica, e che in molti casi hanno persino rinunciato a impegnarsi attivamente nell’ANPI o in altre realtà consimili. E’ il caso ad esempio di decine di migliaia di partigiani italiani all’estero, le cui vicende sono colpevolmente trascurate, come quelle dei partigiani stranieri in Italia.
 
Sintesi conclusiva
 
Dal 1945 in poi si è imposta una chiave di lettura totalizzante per la vicenda della Resistenza in Italia, quella di una lotta di liberazione *nazionale* contro l’occupante *straniero* (tedesco). Questa operazione è stata possibile, e per certi versi anche legittima, nel contesto della Guerra Fredda, in virtù di una convergenza “multi-partisan” che oggi però mostra il segno. Di fronte ad attacchi perduranti rivolti contro *tutta* la memoria partigiana, è perdente e controproducente, oltreché anacronistica, la tendenza a forzare, ancora, la memoria storica nell’angusta strettoia “nazionale”. In particolare, l’ANPI può farsi portatrice e promotrice di una visione più complessiva e meno “istituzionale” della vicenda partigiana, allentando i condizionamenti politici e tornando ad avocare a se anche una funzione di tipo storiografico, culturale, didattica e divulgativa. 
Definitivamente abbandonato lo status di associazione combattentistica – dal quale derivano solo vincoli e nessun vantaggio – l’ANPI dovrebbe a mio avviso in primis mantenere la funzione di depositaria della memoria storica dei partigiani combattenti, non solo e non tanto in senso morale-celebrativo quanto proprio nel senso concreto delle storie vissute e della loro documentabilità, recuperando le troppe memorie relegate nell’oblio a causa di contingenze politiche non favorevoli. Solo a queste condizioni l’ANPI può continuare nel proprio percorso, anche dopo la scomparsa della generazione dei partigiani, via via accogliendo anche le memorie degli altri antifascisti del passato e del presente e valorizzandole.
E’ solo da tale tesoro di esperienze reali che all’ANPI deriva quella autorità morale per cui può indicare alla pubblica opinione che cosa sono stati il nazifascismo e le sue politiche di guerra, e come e perché il loro riaffacciarsi deve essere scongiurato.
 
(*) Saggista, co-autore de “I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana” e segretario del Coord. Naz. per la Jugoslavia ONLUS.
(1) Lo scambio tra il saggista Saverio Ferrari e il presidente nazionale dell’ANPI Carlo Smuraglia è riprodotto integralmente di seguito.
 
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IL TESTO DELL’ARTICOLO DI SAVERIO FERRARI (OSSERVATORIO DEMOCRATICO NUOVE DESTRE) SUL “MANIFESTO” DELLO SCORSO 4 MARZO 2015, LA RISPOSTA DEL PRESIDENTE NAZIONALE DELL’ANPI CARLO SMURAGLIA SU ANPI NEWS E IL COMMENTO FINALE DI FERRARI:
Saverio Ferrari: L’ANPI BATTA UN COLPO VERSO I NUOVI MOVIMENTI

L’antifascismo è oggi sempre più stretto fra due derive opposte. Tra la parte istituzionale, incarnata dall’Anpi, da un lato, e l’antifascismo antagonista e giovanile, dall’altro.
L’Anpi in questi ultimi anni ha cercato di rinnovarsi. Un’operazione riuscita a metà. Sono arrivate nuove iscrizioni, spesso di militanti in fuga dai partiti di sinistra, e si è assistito a una ripresa di vitalità. Ma in diverse situazioni si sono anche manifestate chiusure e indisponibilità al dialogo con le nuove generazioni. Un panorama vario e articolato, città per città. Prevalente è stato però, nel complesso, l’affermarsi di un profilo marcatamente istituzionale, con un’attività di tipo celebrativo quasi esclusivamente rivolta al passato. Lontano dal cogliere nella sua portata l’attualità e il pericolo delle nuove spinte xenofobe e razziste, quanto dell’irrompere sulla scena di nuove destre, nostalgiche e populiste. Emblematico il caso milanese, dove l’Anpi ha considerato “pericoloso” mobilitarsi il 18 ottobre scorso contro la manifestazione nazionale della Lega e di Casa Pound, con migliaia di camicie nere e verdi in piazza Duomo. Sistematica la rinuncia, anche in seguito, a contrastare ulteriori iniziative dell’estrema destra, tra l’altro in piazza Della Scala, sotto il comune, come di recente accaduto. L’opposto di Roma dove, invece, l’Anpi è scesa in piazza, senza tentennamenti, sempre contro Lega e Casa Pound, a fianco dei centri sociali, in un vasto schieramento antifascista, mobilitando decine di migliaia di persone. Due linee.

UNA REPUBBLICA ANCORA ANTIFASCISTA?

Vi sono certamente, sullo sfondo, le difficoltà del gruppo dirigente nazionale dell’Anpi a comprendere appieno alcuni mutamenti in corso nelle stesse istituzioni, sempre meno rispondenti al dettame costituzionale. In tutta Italia si tengono da anni iniziative pubbliche apologetiche del “ventennio”, con il costituirsi di formazioni apertamente neofasciste e neonaziste, con tanto di corollario di atti violenti, senza alcun vero contrasto istituzionale (si perseguono solo “i casi limite”). Ciò a prescindere dal succedersi di governi, ministri dell’interno, questori e prefetti, in una sorta di assoluta continuità. Un dato di fatto. Come la sospensione dell’applicazione di leggi ordinarie, in primis la legge Mancino, istituita proprio per contrastare l’istigazione all’odio razziale, etnico e religioso. Alla stessa Anpi, quando protesta, si replica asserendo la legittimità di tutti a esprimersi, fascisti compresi. Allo stesso modo si risponde alle interrogazioni parlamentari, a volte di deputati e senatori del Pd, paradossalmente da parte di altri esponenti del Pd al governo. Una rilegittimazione dei fascisti ormai avvenuta. Una nuova fase nella storia della Repubblica, al passaggio epocale del cambiamento della sua carta costituzionale. Affidarsi alle istituzioni democratiche per combattere i fenomeni neofascisti sta divenendo un evidente controsenso. Bisognerebbe prenderne coscienza. La crisi dell’antifascismo passa anche da qui.
Lo stesso futuro dell’Anpi appare incerto all’avvicinarsi del suo prossimo congresso nazionale. L’opposizione manifestata alle riforme in campo, sia elettorali sia costituzionali, sta producendo continui tentativi di contenimento, soprattutto attraverso l’azione del Pd ai livelli locali, volta a depotenziare, sfumare, se non apertamente intralciare, la linea ufficiale. Il rinnovo, in programma, del presidente nazionale dell’associazione sarà probabilmente l’occasione per cercare di “riallineare” l’Anpi, confinandola definitivamente a funzioni meramente celebrative. Un’eventualità più che concreta. 

L’ALTRO MOVIMENTO

Lontano dall’antifascismo istituzionale si muove ormai da diversi anni un’area composita di giovani organizzati in centri sociali, collettivi e associazioni, presente su una parte importante del territorio nazionale. Quasi un mondo a parte con cui l’Anpi il più delle volte rifiuta il dialogo. A questa realtà si deve spesso l’iniziativa di contrasto, in tantissime città, delle iniziative razziste e neofasciste. La loro generosità ricorda da vicino i «reietti e gli stranieri» di cui parlava negli anni Sessanta Herbert Marcuse ne L’uomo a una dimensione, quando negli Stati Uniti scendevano nelle strade per chiedere «i più elementari diritti civili», affrontando «cani, pietre e galera», a volte «persino la morte» negli scontri con la polizia. Rappresenta nel suo complesso una realtà antifascista di tipo diverso, per nulla istituzionale e poco propensa al perbenismo, cresciuta con propri simboli (le due bandiere dell’“antifa” sovrapposte, mutuate dalle battaglie di strada dei comunisti tedeschi a cavallo degli anni Trenta contro le squadre d’assalto naziste) e propri modelli storici, gli Arditi del Popolo, in primo luogo, espressione di un’unità dal basso dei militanti di sinistra oltre le appartenenze politiche.
Come nel caso recente di Cremona (gli scontri a gennaio dopo il ferimento quasi mortale di un militante di un centro sociale da parte degli squadristi di casa Pound), quest’area, a volte, fa prevalere l’azione diretta rispetto a ogni altro calcolo politico, restando priva di sbocchi e isolata anche dalla sinistra politica.
L’esigenza di un nuovo movimento antifascista è più che matura. Un movimento necessariamente plurale, aperto alle nuove generazioni, privo di steccati e istituzionalismi fuori tempo, in grado di relazionarsi con il presente e i pericoli rappresentati dagli attuali movimenti razzisti e neofascisti. La stessa capacità di trasmettere la memoria della Resistenza non può che partire da qui, per non ridursi a vuota retorica. Un rischio già presente. Questo nuovo movimento non può che nascere dal confronto e dalla capacità di dialogo fra i diversi antifascismi. Sarebbe il caso che per prima l’Anpi battesse un colpo.

SAVERIO FERRARI

Milano, 3 marzo 2015

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ANPI NEWS n. 157 – 31 marzo/7 aprile 2015:
NOTAZIONI DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI CARLO SMURAGLIA:
Quasi un mese fa, ho letto un articolo di Saverio Ferrari su “il manifesto”, intitolato: “Appello all’ANPI: guardi ai nuovi antifascisti”. Un articolo molto ampio, in cui si fornisce un quadro non proprio esatto dell’ANPI di oggi e del suo antifascismo, contrapponendogli un quadro di “nuovi” movimenti antifascisti, a cui si dovrebbe, praticamente – secondo l’A. – l’unica vera ed efficace iniziativa di contrasto del riemergente neofascismo e neonazismo. Non occorrono molte
parole per confutare un simile assunto.
Anzitutto, ragioniamo sull’immagine dell’ANPI, che avrebbe cercato – senza riuscirci – di innovarsi, mantenendo tuttavia uno spiccato carattere “istituzionale” e “collaborativo”.
Strano che Ferrari, che pure è stato – fino a poco tempo fa – componente anche di un organismo dirigente periferico (dell’ANPI), ci conosca così poco. 
Teniamo viva la memoria, è vero, ma è nostro dovere (altrimenti, chi lo farebbe?), e comunque ci sforziamo di renderla attiva, per aiutare soprattutto a conoscere i fatti della storia, anche perché servano di esempio e di monito per il futuro e favoriscano la riflessione storica.
Ma facciamo anche tante altre attività; ci occupiamo della scuola e della “cittadinanza attiva” (vedi il protocollo di intesa sottoscritto col MIUR il 24 luglio 2014 e in corso di attuazione), ci occupiamo delle stragi nazifasciste degli anni ‘43-‘45, non solo partecipando alle iniziative di ricordo, ma anche promuovendo seminari e convegni per irrobustire, con gli storici, la conoscenza di tutto quanto è accaduto; mettendo in cantiere un “Atlante delle Stragi”, che sarà d’importanza storica e per il quale siamo riusciti ad ottenere un finanziamento da parte della Germania; ci occupiamo delle riforme costituzionali, contrastando con forza ed energia quelle che ci appaiono non come modifiche, ma come stravolgimenti della Carta costituzionale; ci occupiamo di diritti, di pace, di lavoro, esercitando quella “coscienza critica” che ci è stata indicata come un dovere primario da parte del Congresso nazionale del 2011;
ci occupiamo di donne, di emancipazione, di libertà e uguaglianza; e tantissimo, di formazione non solo dei giovani ma anche dei nostri dirigenti. 
E tutto questo non è né statico né tanto meno “istituzionale” (ma cosa vuol dire, alla fine, questa espressione?).
Ci occupiamo, e molto, piaccia o no a chi chiede che l’ANPI “batta un colpo”, di antifascismo, non solo perché siamo sempre attivi nel richiamare gli organi istituzionali ed elettivi al ruolo che loro è assegnato da una Costituzione profondamente e nettamente antifascista, in tutte le sue norme, i suoi princìpi ed i valori che esprime, ma anche perché cerchiamo, in tutte le forme possibili, di contrastare i movimenti neofascisti e neonazisti, che si stanno sempre più
espandendo, nonostante le nostre iniziative e nonostante gli sforzi di quello che Ferrari definisce come “l’altro movimento”.
Non a caso, abbiamo tenuto un Seminario, su questi temi, con l’Istituto Cervi e nella sua sede; non a caso abbiamo tenuto un Convegno, a Roma, nell’aprile 2014 proprio sul modo di contrastare questi fenomeni. A quel Convegno avevamo invitato tutte le istituzioni (dico tutte) e sono venuti solo due parlamentari! Poi abbiamo pubblicato e diffuso un opuscolo che riassume i contenuti di quel Convegno e in cui sono collocate, in appendice, due sentenze
della Corte di Cassazione che considerano reato il saluto romano in luogo pubblico, fornendo così indicazioni precise ai nostri organismi periferici perché si attivino sempre, contattino Sindaci, Prefetti, Questori, facciano denunce all’Autorità giudiziaria, insomma scuotano il silenzio e l’indifferenza con cui il nostro Paese affronta (o meglio, non affronta) un problema che è grave, storicamente e politicamente, e denso di incognite per il futuro.
Certo, noi preferiamo i presìdi agli scontri frontali, evitiamo le occasioni di contrasto violento, cerchiamo di coinvolgere i cittadini e non di allontanarli, ma non manchiamo di adottare, in ogni occasione, le iniziative che riteniamo utili, o anche solo opportune. Bisogna riconoscere che gli esiti di questo impegno sono, a tutt’oggi, ancora limitati. Ma ottiene qualcosa di più “l’altro movimento”? Un corteo, uno scontro, sono più efficaci di un presidio? La realtà ci dice di no e ci insegna che ciò che conta è non rassegnarsi mai e contestare sempre le iniziative neofasciste, assumendo per primi le iniziative necessarie per controbatterle, per ottenere che vengano impedite, per suscitare le reazioni che dovrebbero provenire proprio dagli organi dello Stato e dagli Enti locali.
Tutto questo è un “calcolo politico”, come sembra sostenere l’articolo? Non è così, anche se è ovvio che bisogna dotarsi, contro un fenomeno grave e pericoloso, di una qualche strategia.
Non la intravvedo, questa strategia, nell’articolo, anche se presentata con una certa enfasi, ma in realtà limitata ai cortei, che talora sono utili, se richiamano l’attenzione e coinvolgono i distratti, ma sono semplicemente rischiosi se conducono ad uno scontro, quanto meno privo di effetti positivi. Che sia meglio unire le forze, non è dubitabile, ma bisogna farlo con un minimo di umiltà e di vera disponibilità, senza essere convinti di essere gli unici detentori della verità. Ci si chiede di “battere un colpo”; ma su che cosa, se siamo già in campo da
sempre e continuiamo, doverosamente e quotidianamente, ad interrogarci se quanto facciamo è sufficiente o possiamo e dobbiamo fare qualcosa di più efficace e come?
Io sono convinto che il problema principale stia in questo Stato, che non riesce a diventare antifascista, che non sente la memoria come un valore da coltivare, che non si pronuncia neppure di fronte ai fenomeni più gravi e appariscenti. Sono convinto che se il Ministero degli Interni desse direttive precise e conformi alle linee ed ai valori della Costituzione, se i rappresentanti periferici dello Stato si adeguassero, se tutti i Sindaci facessero capire con chiarezza che nel territorio che amministrano, i fascisti e i nazisti, comunque si chiamino, non sono graditi, qualcosa comincerebbe a cambiare. E sono convinto che bisogna superare quel muro di indifferenza e disimpegno che caratterizza tanta parte degli italiani. Se su questo si è disposti a svolgere un’azione comune, noi siamo già in campo e non abbiamo alcun bisogno di inventare nuovi organismi, mentre sentiamo forte l’esigenza di un antifascismo diffuso.
Non a caso in molte città esistono da tempo “Comitati antifascisti”, nei quali c’è sempre l’ANPI, che cercano di realizzare il coordinamento di azioni e unità di intenti; soprattutto c’è l’ANPI, che ha aperto dal 2006 agli “antifascisti” e ne ha tratto enorme vantaggio, non per i numeri ma per la crescita delle idee, dei confronti, delle proposte, delle iniziative.
Se abbiamo ancora bisogno di “crescere”, come sostiene l’articolo, ci si dia un contributo di idee e di proposte, ma non si pretenda di risolvere il problema contrastando proprio la forza più determinata e forte che è impegnata, su questo terreno, praticamente dalla Liberazione.
Non c’è da inventare nulla di nuovo; abbiamo suggerito di prendere sempre le iniziative più “tempestive”, di organizzare presìdi quando occorre e di fare manifestazioni quando sono idonee non solo a richiamare l’attenzione, ma anche ad allargare il fronte antifascista, anziché rinchiuderlo in un recinto. Abbiamo anche fornito gli strumenti per investire l’Autorità giudiziaria dell’esigenza di far applicare le leggi che ci sono, checché se ne pensi; stiamo organizzando un incontro di riflessione per capire meglio che cosa attrae i giovani e che cosa può suscitare in loro positivi ed efficaci entusiasmi, nel solco della Costituzione. Possiamo sbagliare, possiamo avere incertezze e dubbi sulle iniziative da intraprendere, ma cerchiamo di fare sempre meglio e di più, senza avventure. Se esiste un problema dei giovani (che dobbiamo cercare di capire noi, prima di ogni altra cosa), bisogna affrontarlo con serietà e approfondimento, nello sforzo di individuare una strada, suscitare interessi, proporre precise scelte di campo, rendendoci conto che anche fra loro ci sono differenze, modi di vedere ed agire diversi; e soprattutto che nessuno ne può rivendicare il monopolio. Nelle loro mani sta il futuro del Paese: sono loro che dovranno combattere le battaglie necessarie per preservare la democrazia da ogni pericolo; anche loro, però, dovranno fare le loro riflessioni e mettere in campo ricerche di identità e di prospettive. Noi possiamo confrontarci, anche richiamandoci alle nostre esperienze, per quel che valgono e fornire qualche spunto di riflessione, però con l’umiltà di chi ha sperimentato in concreto il valore e il significato delle “scelte” e non pretende che vengano adottate come modello, ma al più siano oggetto di conoscenza e di riflessione. Siamo di fronte a fenomeni che sembravano inimmaginabili, in una Europa che ha vissuto gli orrori della dittatura, della persecuzione dei “diversi”, della barbarie più disumana.
Tutto questo non è bastato a vaccinarci, tutti, contro il pericolo di ritorni al passato, anche se in forme diverse. Dobbiamo, dunque, fare di più e meglio, dobbiamo capire come e perché nascono certi movimenti e perché suscitano attenzione anche da parte dei giovani; e dobbiamo cercare di combatterli in forme unitarie, ma capaci di ampliare il consenso. Lo facciamo, tutto questo, senza iattanza, ma con convinzione e fermezza e con la ricerca continua di andare oltre gli schemi che già conosciamo, soprattutto per creare, nel Paese, un vero “clima “ antifascista . Siamo pronti, come indica il documento politico del Convegno di Torino, ad essere la “casa degli antifascisti” se sono disponibili anche al confronto e se considerano con attenzione tutto ciò che, talora faticosamente e magari qualche volta sbagliando, cerchiamo di fare. Non c’è bisogno, dunque, di case “nuove”, perché una l’abbiamo già e da molto tempo ed è una casa aperta per tutti coloro che vogliono, sinceramente e lealmente, perseguire l’obiettivo di un Paese più intimamente e profondamente antifascista e caratterizzato da una più solida democrazia.

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COMMENTO FINALE DI SAVERIO FERRARI:

La risposta del presidente nazionale dell’Anpi Carlo Smuraglia in realtà è una non-risposta. Dopo più di un mese si è solo degnato di un commento sul bollettino interno dell’Anpi. Come dire: quell’articolo un dibattito pubblico non lo merita. Un atto di supponenza.
Per altro, con ogni evidenza, l’articolo uscito sul Manifesto, non è stato nemmeno davvero letto, preferendo procedere attraverso il metodo della caricatura. Lo schema è il seguente: da un lato c’è l’Anpi che agisce a tutto campo e che si impegna anche nei confronti delle istituzioni, ammettendo comunque non solo di non aver più sponde politiche in Parlamento, ma anche di non aver in questo campo conseguito alcun risultato, non traendo però l’ovvia conclusione che forse le stesse istituzioni stanno mutando natura (una delle considerazioni su cui si invitava a una riflessione), dall’altro si muove un informe movimento attraversato da pulsioni violente con cui nulla si vuole aver a che fare. 
Conclusione: c’è solo l’Anpi, non esiste nessuna altra realtà antifascista, tantomeno nata fra le nuove generazioni, qualora esistesse, è solo il frutto di un’invenzione o parte di una combriccola di teppisti, rimaniamo nella nostra torre d’avorio, autosufficienti e autoreferenziali. Non discutiamo, infine, con nessuno che ci pone problemi o mette in discussione le nostre certezze.
Peccato. Si tratta dell’ennesima occasione mancata per mettere l’Anpi in sintonia con la realtà. Fino a quando si penserà di poterlo fare?

SAVERIO FERRARI

Milano, 7 aprile 2015

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